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Accanimento terapeutico e interruzione delle cure. Quale responsabilità per il medico?

di Antonio Lepre

Del tema se ne occupano sia la legge 219 del 2017 (quella sul Consenso informato e le Dat) che il Codice di deontologia medica. Ma i due testi offrono ampi margini di discrezionalità interpretativa, a partire dallo stesso concetto di accanimento terapeutico. E la legge pare più restrittiva del Codice

09 GEN - Dopo faticosi anni di dibattiti e incertezze, nel 2017 il legislatore è finalmente intervenuto in materia di accanimento terapeutico e disposizioni anticipate di trattamento, tentando di trovare un punto di equilibrio ragionevole tra impostazioni profondamente diverse. Con questo articolo avanziamo una serie di riflessioni sugli aspetti ancora controversi.
 
Il primo problema che si ritiene di affrontare è comprendere quando si è in presenza di accanimento terapeutico e quali sono le conseguenze per il medico: quest’ultimo, infatti, ove sussista tale ipotesi, deve o può interrompere le cure?  E, ancora prima, la nozione di accanimento terapeutico fatta propria dalla legge 219/2017(art 2, comma 2) coincide con quanto previsto dall’art. 16 del codice deontologico?
 
Per tentare di rispondere a questi quesiti, è bene partire prima da quella che, almeno allo stato, sembra una certezza: non vi è più alcun dubbio circa il dovere del medico di interrompere le cure che risultino irragionevoli, pur dovendosi sempre approntare un’adeguata terapia del dolore (art 2, comma 1).
 
Si tratta, allora, di capire quando le cure possono definirsi manifestazione di accanimento terapeutico, poiché, una volta stabilito ciò, scatterà l’obbligo del medico di astenersi da ogni trattamento sanitario.
 
L’art. 2, comma 2 prevede quanto segue: “nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente”.
 
Quindi, forse in modo troppo schematico ma nell’ottica della massima chiarezza possiamo dire che:
• il cd accanimento terapeutico presuppone una “prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte”;
 
• in presenza di tale situazione patologica, il medico deve interrompere cure e trattamenti inutili o sproporzionati;
 
• alla sedazione palliativa profonda e continua il medico può ricorrere solo in presenza di tale triplice presupposto: a) le sofferenze devono risultare refrattarie al trattamento sanitario; b) vi deve essere il consenso del paziente; c) la terapia del dolore deve continuare.
 
Tale dato normativo risulta tuttavia non coincidente con quanto previsto dall’art. 16 del codice deontologico dei medici, poiché la legge n. 219/17 pare accogliere una nozione più restrittiva di accanimento terapeutico.
 
L’art. 16, primo comma, del codice deontologico infatti recita: “il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita”.
 
Le differenze sembrano chiare: il codice deontologico svincola del tutto il concetto di accanimento terapeutico dall’imminenza o meno di un esito infausto, evocando, invece, i più ampi concetti di beneficio per la salute e/o miglioramento della qualità della vita.
 
La prossimità della morte del paziente, quindi, non è richiesta dal codice deontologico, mentre, per altro verso, la legge n. 219/17 non fa alcun riferimento alla qualità della vita. Proprio l’assenza di ogni riferimento nella legge a tale ultimo concetto di qualità della vita, ha già indotto taluno in dottrina a nutrire dubbi se possa propriamente parlarsi di accanimento terapeutico in ipotesi paragonabili a quello drammaticamente noto come caso Welby.
 
A ben vedere, la legge n. 219/17 sembra aver avuto come punto di riferimento non tanto il codice deontologico, bensì quanto previsto nella lettera enciclica Evangelium vitae del Pontefice Giovanni Paolo II.
 
Al paragrafo 65 di tale documento, infatti, al fine di distinguere la eutanasia dall’accanimento terapeutico, espressamente si afferma che “quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza «rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi».Si dà certamente l'obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte”.
 
In definitiva, e ferma restando la possibilità che interverranno interpretazioni “correttive”, allo stato sembra potersi concludere che il medico deve interrompere le cure solo quando sia inevitabile e prossima la fine biologica della vita del paziente. Al di fuori di tali ipotesi, il medico è tenuto a prestare le cure necessarie e solo il rifiuto delle stesse da parte del paziente (anche espresso nelle DAT ove predisposte) allora, determinerà in capo al professionista il dovere di non proseguire il trattamento sanitario.
 
Resta, però, non regolato il caso del paziente incosciente per cui non vi sia l’imminenza di prognosi infausta e che non abbia espresso la sua volontà con le DAT.
Tale ultima drammatica situazione resta, quindi, destinata ad essere oggetto della decisione della magistratura.
 
Se ciò, per un verso, lascia insoddisfatti, per altro verso, dovrebbe indurre a riflettere finalmente sui limiti stessi che fatalmente incontra la legge in questa materia.
 
La strada maestra da intraprendere allora non pare quella di perseguire l’utopia di una legislazione perfetta, bensì quella di procedere quanto prima a una diffusa e radicale sensibilizzazione culturale volta a far comprendere alle persone, ai singoli individui, l’importanza di decidere nel pieno delle loro facoltà mentali quale debba essere il proprio destino ove ci si ritrovasse in situazioni di incoscienza tendenzialmente irreversibili. E sotto questo profilo il cammino sembra ancora incerto e faticoso.
 
Antonio Lepre
Magistrato
 

09 gennaio 2020
© Riproduzione riservata


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