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I Forum di QS. Quale ospedale per l’Italia? Palumbo: “L’occasione mancata del Pnrr”

di Filippo Palumbo

Avevamo già fatto notare come nel PNRR la tematica degli ospedali sia stata parzialmente aggiunta in extremis, senza un’idea guida né specifica né sistemica e resta la sensazione di una fretta finale nel chiudere questa parte del PNRR per colmare una lacuna di cui ci si è resi conto e che sarebbe stato clamoroso non rattoppare

17 GIU - Il forum sul tema “ospedali” promosso da Quotidiano Sanità mi è parso utile ed opportuno in quanto da un lato consente di continuare su un piano più specifico la discussione sulla necessità/opportunità di una riforma del nostro Servizio sanitario nazionale, dall’altro dà voce a quanti ritengono che il PNRR conseguente alla fase pandemica e all’impatto che esso ha avuto in Europa e in Italia debba essere fortemente integrato anche sul tema dell’assistenza ospedaliera. Scrivere di queste cose mi consente anche di completare quanto avevo lasciato in sospeso nell’ultima parte della mia nota pubblicata su QS il 4 giugno scorso.
 
I due aspetti sono molto connessi tra loro in quanto il tema dell’assistenza ospedaliera, anzi degli ospedali, in questa fase richiede due approcci complementari ed indissolubili: si tratta di riformare (aspetto ciclico) e al tempo stesso di  intervenire con una urgenza sulle criticità più forti (aspetto contingente).
 
La mancata connessione logico-funzionale tra alcuni punti della prima componente della Missione 6 del PNRR.
Avevamo già fatto notare come nel PNRR la tematica degli ospedali sia stata parzialmente aggiunta in extremis, senza un’idea guida né specifica né sistemica. L’approccio tappabuchi si nota anche nei particolari e finisce con il generare svarioni. Un esempio? Se si clicca su questo link si accede ad un prospetto di sintesi delle risorse stanziate per la Missione 6-Salute, redatto in base ai materiali fatti pervenire dal Governo al Parlamento. In tale prospetto, tra l’altro, si dice che per la M6C2: innovazione, ricerca e digitalizzazione del SSN (che è un obiettivo principale o componente della missione n.d.r.) sono previsti 8,63 miliardi euro tramite due componenti (forse si voleva dire attività o iniziativa?).
 
La prima viene così presentata:
Aggiornamento tecnologico e digitale, attraverso la riorganizzazione della rete degli IRCCS (gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico), mediante:
1)  l'acquisto di 3.133 nuove grandi apparecchiature ad alto contenuto tecnologico e potenziamento del livello di digitalizzazione di 280 strutture sanitarie sede di Dipartimenti di emergenza e accettazione (DEA), per circa 4,05 mld euro di investimento, che include la quota (1,41 mld) relativa a progetti già avviati dal Ministero della Salute per il rafforzamento dell'ambito ospedaliero per l'emergenza pandemica;
 
2) l'adeguamento antisismico delle strutture ospedaliere per 1,64 mld euro di cui 1  mld relativo a progetti già in essere;
 
3) il rafforzamento dell'infrastruttura tecnologica per la raccolta, elaborazione, analisi e simulazione dati relativo al Fascicolo sanitario e ai modelli predittivi per garantire i livelli essenziali di assistenza e la sorveglianza sanitaria per complessivi 1,67 mld euro.
 
Preso alla lettera, parrebbe che l’adeguamento tecnologico e strutturale degli ospedali debba avvenire  attraverso  la riorganizzazione della rete degli IRCCS. Il che è impossibile e illogico. L’errore, penso,  sarà prima o poi corretto, ma resta la sensazione di una  fretta finale nel chiudere questa parte del PNRR per colmare una lacuna di cui ci si è resi conto e che sarebbe stato clamoroso non rattoppare.  In ogni caso ancora oggi sul sito del Ministero della salute appare una presentazione della componente 2 della Missione 6 , che pare priva di logica e  in cui non si capisce che cosa lega, ad esempio, la tematica degli IRCCS con il rischio sismico.
 
Si è portati a pensare che questa scarsa attenzione al tema ospedali sia coerente con la mancanza di respiro programmatico già riscontrata a livello ministeriale,  nel curare la parte di propria competenza per  l’attuazione delle misure previste dall’articolo 2 del DL 34 del 2020. Ricordiamo che  più volte si è chiesto di rivedere l’approccio a questa tematica, per meglio raccordare la fase emergenziale a quella programmatica dei prossimi anni.
 
La specificità dell’ospedale
Cavicchi nell’introdurre la discussione rileva che il  sistema sanitario nazionale, sulla carta formalmente unico, è  in realtà (al netto esso delle diseguaglianze regionali) un  sistema sostanzialmente dicotomico : il territorio (meglio, l’insieme dei servi sanitari territoriali) da una parte e l’ospedale dall’altra.
 
Dunque, non si è compiuta la strutturale integrazione  tra la componente ospedaliera e quella territoriale, ma neanche tra queste due e la terza componente (la prevenzione collettiva/ sanità pubblica) della organizzazione sanitaria pre Riforma della legge 833 del 1978, che sembrava conseguita tanto da adottare  il termine unità sanitaria locale (ripeto: unità) per definire nei vari ambiti  territoriali il nuovo assetto organizzativo e strutturale del sistema sanitario in Italia.
 
In effetti a quell’appuntamento le tre componenti  arrivarono con situazioni molto differenti. Elemento unificante era solo l’enorme disavanzo accumulatosi negli anni sia da parte degli enti mutualistici che da parte degli ospedali.
 
In particolare,  gli ospedali, molti dei quali svolgevano anche servizi territoriali ed erano sede di attività formative,  confluirono nel SSN mentre era ancora in corso di attuazione  la riforma Mariotti varata con la legge 132 del 1968 ed i connessi DD. PP. RR. 128, 129 e  130 del 1969. Un complesso normativo che pur non risolvendo il problema del finanziamento, incise molto (migliorandola)  sull’organizzazione del “sistema ospedali” con un ordinamento gerarchico su tre livelli corrispondenti a bacini di utenza zonali, provinciali e regionali e relative specialità cliniche e dotazioni organiche. Di fatto, almeno per l’organizzazione interna degli ospedali,  la legge 132 del 1968 ha rappresentato ancora per alcuni anni dopo il varo della 833  un concreto punto di  riferimento.
 
In realtà la configurazione istituzionale degli  ospedali sembra ancora non trovare un approdo stabile.
 
A monte del 1978 avevano operato gli Enti Ospedalieri costituiti dalla legge Mariotti , che a loro volta  derivavano dall’ampia e diffusa realtà delle Istituzioni  ed Enti di beneficienza che a loro volta ancora derivavano dalle Opere cui appartenevano gli ospedali .
 
A valle del 1978 troviamo un percorso a tappe che si può così sintetizzare: prima la maggior parte dei presidi ospedalieri confluì nelle Unità Sanitarie Locali, poi gli ospedali di maggiori dimensioni dettero vita alle aziende ospedaliere, con le varianti degli ospedali universitari e degli Irccs. Con il trascorrere del tempo la permanenza dei presidi ospedalieri nelle USL ha via via ceduto il passo a un processo di trasferimento degli stessi nelle aziende ospedaliere. Intanto la denominazione ospedale ha assunto nelle varie realtà regionali varie declinazioni: presidio, stabilimento, sede ospedaliera.
 
In sostanza, dopo la prima ipotesi di una pressoché generalizzata collocazione nelle Unità Sanitarie Locali, si assiste in molti casi allo scorporo; per cui a tutt’oggi, la caratterizzazione istituzionale ed organizzativa degli ospedali è complessa e prevede:
- la presenza di presidi ospedalieri intra-usl
- le aziende ospedaliere integrate con il territorio
- le aziende ospedaliero universitarie
- le aziende ospedaliero universitarie integrate con i servizi territoriali (Trieste e Udine)
- gli ospedali religiosi
- gli ospedali privati accreditati
 
Mentre questa continua azione di rimodellamento istituzionale si compie, cambiano i numeri della rete ospedaliera.
 
L’Istat calcola che: 
nel 1954 :
- i posti letto erano  314.477 negli ospedali pubblici e 47.576 nei privati
- i medici erano  18.197 negli ospedali pubblici e 3.222 nei privati
 
nel 2012:
- i posti letto erano  158.463 negli ospedali pubblici e 45.907 nei privati
- i medici erano 103.274 negli ospedali pubblici e 24.423 nei privati
 
Dietro questi  dati e la loro amplissima variazione nel tempo si può cogliere l’effetto di due processi che hanno investito la rete degli ospedali italiani (ma anche degli altri Paesi con cui abitualmente ci confrontiamo).
 
Questi processi sono stati e ancora sono i seguenti:
- la tendenza degli ospedali a spostarsi sempre più sul trattamento dell’acuzie
 
- la tendenza dei singoli presidi a lavorare sempre meno come punti assistenziali singoli  e sempre più come parte di un assetto funzionale più ampio in base ad una duplice dimensione: quella verticale rispetto al territorio in cui opera e quella orizzontale rispetto alla rete degli altri ospedali su scala regionale e nazionale.
 
Tutto questo presuppone  che:
- sempre più la missione assistenziale del singolo ospedale sia parte di una missione assistenziale più complessiva regionale e nazionale.
 
- si adotti una visione più sistemica basata sulla centralità di quella formidabile innovazione (adottata dalla Sanità italiana, poi assunta in Costituzione) costituita dalla teoria e pratica dei LEA (= LEP nel campo della tutela della salute, stando alla terminologia  utilizzata nella Costituzione).
 
Questo presupposto si è rivelato spesso non confermato per motivazioni che,  al di là di volontà politiche locali, regionali e nazionali troppo sensibili a spinte localistiche o a gruppi di pressione di vario tipo, erano anche espressione di una incapacità o di un ritardo su due fronti; quello della programmazione e verifica e quello del lavoro in rete.
 
La programmazione  ospedaliera
Non vi è mai stata una specifica ed organica programmazione ospedaliera nazionale perché la ritardata applicazione dell’articolo 27 della legge 132/1968 ha coinciso con il processo generale di regionalizzazione avviato nel decennio successivo alla sua emanazione e continuato attraverso la legge 833/1978, il decreto legislativo 502/1992  e il decreto legislativo 299/1999. Ciò che in realtà si è praticata è stata la fissazione di alcuni parametri nazionali da applicarsi alla programmazione ospedaliera delle singole regioni. La sommatoria delle programmazioni regionali ha, impropriamente, costituito la programmazione nazionale.
 
È vero, comunque, che non  sono mancati provvedimenti o atti nazionali che in qualche modo hanno offerto elementi di programmazione ospedaliera nazionale.
 
Cito i seguenti:
- la legge 595 del 1985 recante  Norme per la programmazione sanitaria e per il piano sanitario triennale 1986-88 che all’art 10  dettava disposizioni particolari in materia di organizzazione degli ospedali
 
- l’art. 20 della legge finanziaria 67/88, con cui  il legislatore ha autorizzato l’esecuzione della Prima Fase del Programma straordinario di ristrutturazione edilizia e di ammodernamento tecnologico del patrimonio sanitario pubblico
 
- il DM 13 settembre  1988
 
- la legge 135 del 1990
 
- il Decreto legislativo  502 del 1992
 
- il Decreto legislativo  299 del 1999
 
- il DPCM 29 novembre  2001 , in materia di definizione dei Livelli essenziali di assistenza  e il successivo DPCM 12 gennaio 2017, in alcuni articoli dedicati ai LEA ospedalieri
 
- il DM 70 del 2015
 
Ulteriori indicazioni in materia di programmazione e organizzazione delle attività ospedaliere sono state fornite:
-  dai Piani Sanitari Nazionali  (i Piani per i trienni 1994-1996; 1998-2000;  2003-2005 ;PSN 2006-2008). Ad essi aggiungerei lo schema di  PSN 2011-2013 che pur non esitato in un DPR ha meritato l’approvazione della Conferenza delle Regioni e del Consiglio dei Ministri)
 
- dai vari Patti per la salute triennali
 
- da alcune leggi di settore (es. di contrasto al dolore in ospedale)
 
- dai provvedimenti con cui è decisa l’assegnazione delle risorse per l’art, 20 della legge 67/1988  già citata.
 
Non c’è spazio in questa sede per ricostruire tutto il percorso. Più utile è cercare di capire quali elementi hanno recentemente condizionato la situazione attuale.
 
Penso al Piano Sanitario Nazionale 2006-2008 che nel paragrafo 3.1 afferma: “Occorre tener presente l’esigenza di aggiustamenti strutturali dell’offerta. In particolare, a fronte delle nuove esigenze emergenti (innalzamento dell’età media della popolazione e necessità di maggiori risorse) si impone una ristrutturazione della rete ospedaliera per acuti con adeguati investimenti e un impegno contemporaneo di valorizzazione del territorio”.
 
Penso alla più articolata e politicamente impegnativa previsione contenuta nello schema di Piano Sanitario Nazionale 2011-2013, che qui di nuovo citiamo nei limiti di quanto più sopra precisato. In quel documento si evidenziava la continua emersione di nuove problematiche e patologie e dell’effetto indotto dal miglioramento della medicina e conseguenza della continua evoluzione del concetto di salute e del modo di percepirla da parte della società.
 
In primo piano le due grandi sfide assistenziali che hanno caratterizzato gli ultimi cicli della programmazione nazionale.
Venivano in quella fase evidenziate le seguenti criticità, presenti nelle Regioni in maniera difforme: carenza di posti letto per post-acuti; carenza di posti letto per comi e stati vegetativi, carenza di strutture per mielo-lesioni carenza di posti letto per hospice, carenza di posti letto per RSA, carenze nell'ambito dell'offerta rivolta alla salute mentale.
 
Le linee di intervento finalizzate al miglioramento dell' offerta dei servizi venivano individuate in: una forte valorizzazione delle attività di prevenzione, una realtà ospedaliera più orientata alla medio-alta intensità di cure, una serie di azioni rivolte alla soluzione del problema degli anziani e della non autosufficienza, un sistema di emergenza più sicuro, un ulteriore potenziamento della risposta diagnostica, un incremento significativo dei sistemi di accesso alle prestazioni, attraverso lo sviluppo di strumenti di innovazione tecnologica.
 

Abbiamo ricordato queste valutazioni condivise anche dalle Regioni per sostenere che non ci sono alibi rispetto al ritardo che si sta accumulando sulle cose da fare. I contenuti, pur tra mille incertezze, sono stati delineati e occorre solo tradurli in una programmazione credibile  finanziata su base poliennale  e attuarli.
 
Naturalmente  quando si dice che la programmazione deve essere credibile ci si riferisce non solo alle spese  di investimento, ma anche alla spesa corrente e quindi alla rivalutazione del livello annuale di finanziamento del SSN. Tale rivalutazione dovrebbe riguardare la quota di risorse che, liberatesi a seguito di manovre per il recupero di diseconomie in alcuni settori assistenziali e in alcune regioni,  avrebbe dovuto essere rifinalizzata  per supportare la copertura piena  dei livelli essenziali di assistenza in campo sanitario.
 
La nuova frontiera: l’integrazione. 
Lo spostamento della missione assistenziale degli ospedali verso le acuzie non contraddice anzi deve  accompagnarsi  ad una partecipazione dei servizi  ospedalieri ai processi di presa in carico dei pazienti acuti e cronici basati sulla integrazione a tutto campo dei servizi territoriali e ospedalieri.
 
Non è il caso di affrontare nel dettaglio  il tema della integrazione assistenziale, ci limitiamo qui a sottolinearne il carattere fortemente innovativo e l’efficacia nel conseguire importanti miglioramenti nello stato di salute di singoli assistiti e dei gruppi di popolazione a rischio.
 
Per farlo facciamo riferimento a materiali di approfondimento e studio già disponibili presso organismi del servizio sanitario nazionale. Tra i diversi contribuiti disponibili ci riferiremo a due in  particolare:
- il primo è il progetto IGEA che ha prodotto un inquadramento teorico e applicativo dell’Integrazione. Lo studio ed il progetto sono stati prodotti sulla base di una collaborazione tra Ministero della salute e l’Istituto  superiore di Sanità. Vedi il sito :     https://www.epicentro.iss.it/igea/ 
 
- il secondo  si riferisce ai documenti che sono stati prodotti  nella realtà bolognese sotto il titolo: Forme di integrazione nell'Area metropolitana di Bologna. Il materiale è consultabile sul sito della Conferenza territoriale sociale e sanitaria metropolitana di Bologna.
 
Per quanto riguarda il primo lavoro, di esso segnaliamo:  
- la definizione di gestione integrata come l'approccio organizzativo, propositivo e multifattoriale all'assistenza sanitaria fornita a tutti i membri di una popolazione affetti da una specifica patologia
 
- il ricorso al Disease Management (DM) e al Chronic Care Model (CCM), e ai principi di cui questi approcci sono portatori, come  il quadro logico-concettuale di riferimento per chiunque lavori nel campo della gestione delle patologie croniche
 
- la sperimentazione dell’integrazione per la presa in carico dei  pazienti portatori di diabete
 
- la messa a disposizione di strumenti e metodologie per implementare nelle varie realtà locali il modello di integrazione proposto 
 
- la indicazione di alcuni prerequisiti o strumenti base di cui dotarsi.
 
Ci si riferisce a:
- promuovere un’assistenza multidisciplinare
 
- disporre di sistemi informativi sostenibili e ben integrati sul territorio che incoraggino non solo la comunicazione tra medici, ma anche tra medici e pazienti per ottenere un’assistenza coordinata e a lungo termine
 
- promuovere l’autogestione dei pazienti quale componente essenziale dell’assistenza ai malati cronici.
 
- sperimentare nuove formule organizzative dell’assistenza basate sul concreto affermarsi di una gestione integrata, costruita sulla falsa riga di percorsi assistenziali condivisi che mettano in luce e valorizzino i contributi delle varie componenti e dei vari attori assistenziali lungo il continuum di cura del paziente. Il presupposto è l’assunzione di un approccio sistemico e integrato che implichi un’azione coordinata tra tutte le componenti e tra tutti gli attori del sistema assistenziale che, con responsabilità diverse, devono essere chiamati a sviluppare interventi mirati verso comuni obiettivi su un “patto di cura” condiviso con il cittadino e i suoi eventuali caregiver.

 
Per quanto riguarda il  secondo lavoro, si segnalano i seguenti elementi potenzialmente utili a quanti sono impegnati sul fronte della integrazione:
- il poter consultare un’ampia analisi di quanto accade in altri Paesi sui modelli organizzativi per le cure ospedaliere e il loro collegamento con le cure territoriali, che  evidenzierebbe la opportunità di attenuare il principio per cui  “biggest is best”, in quanto, grazie all’integrazione,  e solo in presenza di essa, in  ambito ospedaliero “small can work”;
 
- la parola d’ordine  fare rete: a) tra i servizi territoriali con la centralità del ruolo dei medici di famiglia; b) tra gli ospedali, compresi gli ospedali di insegnamento, esportando le migliori pratiche; c) tra ospedali e servizi territoriali, con un modello  organizzativo in cui le reti territoriali si coordinano con le reti ospedaliere, soprattutto con i dipartimenti ospedalieri più generalisti orientati alla continuità assistenziale;
 
- la scrupolosa analisi delle modalità (e delle difficoltà), non solo tecniche ma anche amministrative con cui può essere realizzata l’integrazione a livello istituzionale, con una tassonomia delle varie tipologie di integrazione tra le diversificate istituzioni titolari di funzioni sanitarie e sociali e con un’attenzione particolare ai Dipartimenti.
 
Ulteriori considerazioni
Le valutazioni e la ricostruzione del percorso evolutivo che ho fin qui richiamato vanno integrate con ulteriori aspetti, sia per loro intrinseca rilevanza sia per accettare l’invito al confronto che ci viene dagli otto punti su cui l’articolo di apertura del forum propone un cambiamento. Cavicchi pone il problema del D.M. 70 del 2015, proponendo di metterlo da parte.
 
Su questo bisogna ricordare che fondamentalmente il percorso che ha portato all’adozione di questo D.M. è stato attivato per corrispondere a una esigenza vera.
 
Questa esigenza è chiaramente espressa nel già citato documento costituito dallo schema di PSN 2011-2013 che recita:
“L'individuazione dei Livelli essenziali comporta anche la determinazione di alcune caratteristiche essenziali delle attività, dei servizi e delle prestazioni tali per cui, in loro assenza, la prestazione o il servizio non possa essere qualificato come tale. Queste caratteristiche possono riguardare, ad esempio, il tempo minimo di durata di una prestazione, la dotazione tecnologica minima necessaria per garantire la sua qualità, la presenza o la disponibilità in servizio di personale qualitativamente e quantitativamente adeguato, la garanzia di accesso al servizio per appuntamento, e così via. Questa tematica si avvicina a quella della valutazione e del monitoraggio dei servizi sanitari attraverso la fissazione di "standard" o "parametri di riferimento" ma attiene, in questa prospettiva, alla individuazione di requisiti "qualificanti" della specifica attività e si colloca quindi a pieno titolo all' interno della definizione dei Livelli.
L'uniforme applicazione dei LEA a livello nazionale deve comunque salvaguardare le specificità territoriali, in rispondenza alle analisi dei bisogni di ciascun contesto locale.”

 
Ed è stata soprattutto questa consapevolezza che ha portato all’emanazione del DM. Il quale avrebbe dovuto essere affiancato da altri documenti in grado di fornire al sistema i necessari strumenti di programmazione ospedaliera nazionale  e di omogeneità nel modo con cui nelle singole regioni viene gestita la funzione ospedaliera. La mancata predisposizione e implementazione di questi altri documenti ha caricato il DM di contenuti che lo hanno appesantito e in parte rifinalizzato.
 
Qui c’è un legame con la proposta 5 di Cavicchi e credo vi sia spazio per forti possibili miglioramenti: mi pare che il tema sia quello di incrementare la sensibilità di alcuni indicatori, di discriminare meglio, di dare un senso più complessivo, un miglior equilibrio tra valutazione dei singoli eventi clinici e della  missione assistenziale complessivamente assolta. Insomma, c’è materia di lavoro da fare e allora si faccia.
 
Il problema è quello più complessivo del ruolo e del modo di lavorare dell’ospedale.
Prima di chiudere con un riferimento alle altre proposte di approfondimento avanzate da  Cavicchi occorre fare una precisazione.  Qui ci stiamo limitando ad una parte del problema ospedale, consapevoli della grande rilevanza per gli ospedali di altre tematiche, che pure andranno affrontate, quali il rapporto con le tecnologie sanitarie, la possibilità di partecipare a progetti di ricerca, il rapporto con l’Università, la formazione,  le modalità di remunerazione delle prestazioni, il rapporto tra professione medica e le altre professioni sanitarie, la tematica della libera professione, il rischio clinico.
 
Le altre proposte di Cavicchi sono legate da un filo che porta a un ripensamento ed anche ad una riscoperta di alcune prassi che sono state accantonate, mentre non tutte le nuove prassi si stanno rivelando adeguate. Nei punti 3 e 4 colgo l’eco di posizioni che chiedono con forza che l’incremento dei costi ospedalieri sia controllato più che da misure amministrative da una buona pratica medica e assistenziale e chiedono anche che l’ospedale non rinunci a quelle “piccole gentilezze” che qualificano e rendono prezioso il rapporto con il paziente “ospitato” o “accolto” più che ricoverato (vedi Granaglia che ci parla di  Montori,  consultabile al link).
 
Cavicchi sottolinea il carattere anche culturale di queste questioni e ciò implica un terreno di iniziativa che solo in parte si avvantaggia di strumenti regolamentari o normativi, necessari ma non sufficienti.
 
Sul punto 6 occorre essere più specifici. Lo dico perché un approfondimento potrebbe farsi partendo dal fatto che nel tempo sono cambiate alcune cose nell’ordinamento contabile e il richiamo al concetto di  beni  immateriali può forse indicare una strada.
 
Chiudo con il punto 8, concordando che in questa fase è veramente grave la sostanziale assenza di strumenti, modi e occasioni con cui i medici e le professioni possano incidere sulle scelte aziendali. Una carenza e una disomogeneità riguarda anche il rapporto con le associazioni dei pazienti e dei familiari. Anche la sostanziale prevalente assenza di qualsiasi forma di dialogo con le amministrazioni locali è negativa. Quando facciamo ricorso a riferimenti di altri Paesi (prevalentemente inglesi o statunitensi) dovremmo citare anche quel gioco di “checks and balances” che caratterizza molte qualificate esperienze di quelle realtà.
 
Filippo Palumbo
Già Direttore generale e Capodipartimento della Programmazione sanitaria del Ministero della salute

 
Vedi gli altri articoli del Forum Ospedali: Fassari, CavicchiCognetti, Palermo e Troise.

17 giugno 2021
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