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I Forum di QS. Quale ospedale per l’Italia? Maffei: “DM 70: da correggere, ma indispensabile”

di Claudio Maria Maffei

Se il DM 70 va cambiato occorre dire come e se non va più bene va detto con cosa sostituirlo. Io penso vada cambiato e al più presto perché mentre qui dibattiamo la politica in molte Regioni cita la revisione in corso del DM 70 come liberatoria per la riapertura dei piccoli ospedali

25 GIU - L’interessante dibattito sull’ospedale avviato dal Direttore  e subito lanciato dal “solito” stimolante  e provocatorio intervento di Ivan Cavicchi, mi suggerisce una considerazione di partenza.
 
Dal mio punto di vista nell’attuale contesto storico che vede nel PNRR una occasione di ripensamento complessivo del sistema salute e quindi anche del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), l’obiettivo è di fornire elementi utili in tempo utile per adattare le progettualità del PNRR ai “reali” bisogni della nostra sanità. In questa ottica la principale domanda cui rispondere prima possibile è: quanti e quali ospedali in Italia? A questa domanda ha già risposto qualche anno fa il DM 70 del 2015. Ed è appunto di questo Decreto che parlerò.
 
Il DM 70 per come viene descritto in alcuni interventi (peraltro assolutamente interessanti in termini di riflessione generale sull’ospedale) sembra sia stato scritto nel ’70 tanto da meritare nell’intervento del prof. Cognetti la definizione di “obsoleto”.  In quello di Cavicchi, più articolato, il DM 70 del 2015 viene considerato solo come  finalizzato  a riparametrare il sistema ospedaliero ereditato dal passato per contenerlo al “minimo” e comprimerlo al “necessario” e al “sufficiente” di fatto replicando le logiche usate dalla riforma ospedaliera di 43 anni fa, la famosa Legge Mariotti  del 1968.
 
Viene inoltre accusato di “imporre alle regioni delle restrizioni ignorando le tante specificità e diversità dei territori”. Quanto al modello delle reti cliniche “hub and spoke”, sarebbe vecchio anche quello di 43 anni. Per motivi che mi sfuggono si tende a parlare del DM ’70 come se fosse un trattato ideologico sull’ospedale e non un documento tecnico sulle reti ospedaliere (e non solo).
 
Mi permetto allora di (ri)trattare il DM 70 in 12 punti.
 
1. Il DM 70 va letto e studiato per intero sia nella sua formulazione che nella sua applicazione. Se ne parla troppo spesso in base al racconto che se ne fa. Il DM 70 fornisce un riferimento tecnicamente motivato attraverso criteri e standard sia per il  ridisegno della rete ospedaliera che per quello  della rete dell’emergenza/urgenza  e dei servizi per la continuità ospedale-territorio compresi gli ospedali di comunità. Fornisce anche dei riferimenti per gli standard generali di qualità degli ospedali in funzione del loro livello di complessità.
 
2. Il DM 70 non c’entra niente con la riforma ospedaliera del 1968, a meno di non considerare come criterio di assimilazione il fatto che entrambi parlino di  “dimensioni” diverse delle diverse tioologie di ospedale e che entrambi prevedano “discipline” diverse in funzione della tipologia di ospedale. Sarebbe come dire che lancio del peso e salto in alto sono la  stessa pratica sportiva perché si misurano in entrambi i casi le performance degli atleti in metri e centimetri.
 
3. Il DM 70 non fornisce appigli al concetto di “ospedale al minimo” cui fanno riferimento sia Cavicchi che Cognetti attribuendone l’origine al Decreto. Si parla di “minimo” solo con riferimenti ai volumi di attività necessari alla loro esecuzione in sicurezza e al bacino di utenza delle stesse discipline. In realtà si tratta di minimi finalizzati al massimo della efficacia e sicurezza degli interventi e al massimo della efficienza della organizzazione.
 
4. Non è vero come a proposito del DM 70 scrive Murianache “esso seppur aveva dei parametri di riferimento quali-quantitativi di efficienza organizzativa e professionale non è stato mai di fatto applicato e non ha apportato quella selezione che si proponeva”. A mio parere in base ai dati è stato applicato come qualunque altro atto di indirizzo nazionale in modo disomogeneo ed incompleto nelle varie Regioni. Ma che sia stato applicato lo dimostra il Programma Nazionale Esiti. Questo programma è nato  contestualmente alle “origini” del  Decreto Balduzzi nel 2012 ed i suoi datihanno evidenziato un significativo impatto sulla organizzazione e sugli esiti della assistenza ospedaliera nel periodo 2012-2019 grazie proprio alla adozione dei criteri fatti propri dal DM 70.
 
5. Il modello hub and spoke non c’entra niente con la classificazione per livelli di complessità degli ospedali, essendo esplicitamente riferito alla costruzione di reti cliniche per patologia. E non voleva essere una novità, visto che in Emilia-Romagna la sua adozione risale al Piano Sanitario Regionale 1999-2001. Il DM 70 lo ha fatto suo introducendo il modello delle reti cliniche per patologia e fornendo  i riferimenti per le tre reti delle emergenze cardiologiche, del trauma e dell’ictus. E’ anche grazie a questo modello che il Programma Nazionale Esiti ha documentato un miglioramento degli esiti sia per l’infarto che per l’ictus nel periodo 2012-2019.
 
6. La riduzione degli ospedali e dei posti letto per acutideterminata dall’applicazione del DM 70 non ha comportato di per sé il tracollo della sanità pubblica, tracollo che però, come ha giustamente ricordato qui su QS Geddes da Filicaiacommentando un contributo di Mapelli, è stato drammaticamente reale, ma legato ad altri fattori come la riduzione e l’invecchiamento del personale, la inadeguatezza dei  processi formativi e la carenza di pianificazione delle tecnologie. Aggiungo qui io che quel tracollo c’è stato anche per la mancanza di un contestuale potenziamento dell’assistenza territoriale. In sostanza, si è finito con l’attribuire al DM 70 le colpe di due provvedimenti che “hanno approfittato” del DM, ma che questo non includeva: l’imposizione di tetti di spesa del personale (davvero una follia) e la riduzione spesso gestita in modo tragico dalle Direzioni Aziendali del numero delle Unità Operative Complesse e Semplici.
 
7. Trattare congiuntamente riduzione degli ospedali e  dei posti letto come fossero due facce della stessa medaglia è sbagliato. La riduzione degli ospedali trova una abbondantissima giustificazione nel dimensionamento subottimale di una buona loro parte. Per i posti letto vanno  fatte considerazioni diverse. Per gli ospedali va fatto poi un ragionamento diverso a seconda che siano pubblici o privati. Prendiamo per mia comodità la situazione delle Marche, Regione con un milione e mezzo di abitanti circa e nessuna città che raggiunge i 100.000 abitanti e con solo due sopra gli 80.000. Ci sono 11 Ospedali con Dipartimenti di Emergenza e Accettazione (DEA) di I livello più uno con DEA di II livello e altri cinque ospedali con una attività di Pronto Soccorso. E’ evidente che questa frammentazione è incompatibile con le risorse umane disponibili visto che solo per far fronte alle urgenze questi ospedali assorbono una importante quota delle loro risorse. Si tenga conto che spesso questi ospedali sono vecchi, hanno dimensioni subottimali dei posti letto di area critica  e distano poche decine di chilometri l’uno dall’altro con la possibilità di identificare un nuovo sito a distanza di meno di 15 chilometri dalle sedi degli attuali ospedali confluendi. Quindi il numero degli ospedali in situazioni così (e sono tante) deve continuare ad essere ridotto.
 
8. Molto diverso è il ragionamento che va fatto per i posti letto. E’ evidente che la pandemia ha reso necessario introdurre il principio della “ridondanza” di posti letto nella offerta ospedaliera che ha bisogno di una riserva di operatività per far fronte a nuove emergenze. Questo è già stato in parte previsto dal DL 34 del maggio 2020 con l’incremento dei posti letto intensivi e seminitensivi. Ma qui va fatto un ragionamento che tiene distinti gli aspetti strutturali e quelli organizzativi: i posti letto in più “ridondanti” vanno previsti, ma va anche trovato il modo di farli funzionare con una parte del personale assegnata ad hoc e una parte che viene assegnata temporaneamente a queste aree in condizioni d’emergenza.
 
9. Il “vero” problema è – come già anticipato - che senza il contestuale potenziamento della assistenza territoriale, l’adozione delle misure previste dal DM 70 ha comportato gravi problemi in diversi territori. Anche perché il DM 70 è spesso stato usato in modo anche “brutale” per chiudere alcuni piccoli ospedali, senza però mettere mano a quelle situazioni di eccesso di strutture con DEA di primo livello, problema  da cui la politica cerca sempre di stare lontano.
 
10. Il DM 70 ha iniziato a dare una forma alla ospedalità privata che prima non aveva. Prima c’era in molte Regioni una pletora di piccole strutture che col DM 70 si sono ridotte, ma debbono ulteriormente ridursi a parità di posti letto, ed essere coinvolte nel sistema dell’emergenza-urgenza perché con l’escamotage del raggruppamento d’impresa continuano a poter essere piccole e dedicarsi di fatto spesso alla sola attività chirurgica programmata creando condizioni di lavoro così favorevoli che i medici pubblici ci vanno volentieri anche prima dell’età di pensionamento.
 
11. Descrivere con degli aggettivi il nuovo ospedale come, in modo che confermo stimolante, fa Cavicchi( “adeguato”, “compossibile”, “interconnesso”, “ad alta complessità”, “hi tech”, “ospitale”)  diventa molto più utile se accompagnato da una loro declinazione in termini di nuovi criteri e standard.
 
12. Se il DM 70 va cambiato occorre dire come e se non va più bene va detto con cosa sostituirlo. Io penso vada cambiato e al più presto perché mentre qui dibattiamo la politica in molte Regioni cita la revisione in corso del DM 70 come liberatoria per la riapertura dei piccoli ospedali. Il DM 70 va, ad esempio, secondo me  cambiato almeno in questi punti: previsione di modelli di ospedali pubblici a specifica vocazione per l’attività programmata in integrazione con altri ospedali della stessa rete a vocazione più specifica per l’emergenza-urgenza, maggiore elasticità nella composizione per discipline delle varie tipologie di ospedale e revisione della parte dedicata alle strutture private integrate nel SSN che ne preveda il maggiore coinvolgimento nella rete dell’emergenza-urgenza.
 
Ultima annotazione: ma dove sono  finiti l’ospedalocentrismo che tutti condannavamo e la centralità del territorio che tutti invocavamo? Non vorrei che la nostalgia per un ospedale “che funziona” ci facesse tornare indietro. Un ospedale che funziona ha bisogno di meno ospedali e più assistenza territoriale. Era vero e continua ad essere vero. 
 
Claudio Maria Maffei
Coordinatore scientifico Chronic-On
 
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25 giugno 2021
© Riproduzione riservata


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