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13 OTTOBRE 2024
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I Forum di QS. Quale ospedale per l’Italia? Gerli: “Il problema ‘numero 1’ è la governance”

di Roberto Gerli

Quando si pretende non di governare la complessità ma di amministrarla si nega l’essenza epistemica dell’ospedale. Naturalmente a scapito dei malati. Non va dimenticato mai che l’ospedale rispetto a tutti gli altri servizi del territorio è soprattutto alta complessità clinica

29 GIU - Ho letto con grande interesse le argomentazioni del Prof. Ivan Cavicchi nel suo recente articolo che pone le basi per una discussione aperta a tutti coloro che guardano a nuove prospettive della nostra Sanità pubblica.
 
Benché si ritenga inconfutabile l’affermazione che Il nostro sistema sanitario nazionale resti uno dei migliori a livello mondiale con il suo approccio universalistico, è altrettanto indubbio che esso è stato messo a dura prova in questi ultimi 18 mesi dalla devastante pandemia da SARS-Cov2. Quest’ultima ha infatti contribuito in modo determinante a mettere a nudo una serie di rilevanti criticità nella organizzazione assistenziale così come è stata impostata in tutti questi anni.
 
Se ciò ha portato a tutte le problematiche ed ai riflessi effetti negativi che sono davanti agli occhi di tutti, sarebbe estremamente utile sfruttare le esperienze accumulate in questi mesi da tutti noi, medici operanti a livello ospedaliero, territoriale e di Medicina Generale, per trasformare vicende così negative in spunti di riflessione che possano portare al raggiungimento di obiettivi comuni positivi e concreti.
 
Bisognerebbe in altri termini, cercare di trovare soluzioni alle difficoltà sopra accennate con cambiamenti che potranno servire in un prossimo futuro non solo ad evitare le drammatiche situazioni che si sono create durante le diverse ondate pandemiche, ma anche a ripensare l’organizzazione sanitaria così come impostata oggi e che ha mostrato tutti i suoi limiti.
 
Le forti criticità emerse nell’ambito della Medicina Generale e nella medicina territoriale, con Colleghi non supportati in modo adeguato soprattutto nei primi periodi, e che sono poi risultate tra quelle più rilevanti per la congestione delle strutture ospedaliere che si sono venute a creare, hanno certamente messo in primo piano la necessità di un diverso modo di approccio alla interazione tra territorio ed ospedale. Ma le più rilevanti problematiche sono sorte proprio nell’ambito ospedaliero, laddove il pressing dell’emergenza sanitaria ha indotto alla rapida chiusura della maggioranza dei reparti soprattutto dell’area medica.
 
Le conseguenze di tali scelte sono davanti agli occhi di tutti con i danni gravissimi, come ricordato giustamente nel suo intervento da Francesco Cognetti, prodotti ad esempio ai pazienti affetti da patologie croniche come quelle onco-ematologiche e cardiologiche. Ma credo che quando si parla di malattie croniche non si possa prescindere dal ricordare quelle reumatologiche, per le quali i ritardi diagnostici e la mancanza di monitoraggio delle terapie in atto hanno portato, anche in questo caso, a progressioni di malattia non facili da recuperare oltre che allo sviluppo di effetti avversi farmacologici, che non si sarebbero verificati con un normale follow-up clinico.
 
Tra le diverse proposte di superamento delle suddette criticità, l’idea di creare una interconnessione di tipo funzionale tra territorio ed ospedale, ma anche all’interno degli ospedali, con lo sviluppo di organizzazioni multidisciplinari in un ambito dipartimentale, è senz’altro condivisibile.
 
Non è un caso a mio avviso che il Ministero della Salute, con nota 8 giugno 2021, nell’ambito del Programma nazionale della ricerca sanitaria 2020-2022 (PNRS), ad integrazione delle iniziative previste dal Programma Nazionale per la Ricerca (PNR) 2021-2027 e dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), evidenzi tra le strategie per la ricerca per il SSN proprio la interdisciplinarietà.
 
Nello specifico, tale nota sottolinea che “occorre rendere le discipline specifiche maggiormente trasversali avendo riguardo dei c.d. “agnostic treatments” e del riposizionamento dei farmaci. Questa considerazione nasce da quanto emerso con la cura delle infiammazioni causate da Covid-19, che presentano basi molecolari simili ad altre patologie non infettive”.
 
In tale contesto, se si considera che quasi la metà delle terapie dei trial approvati da AIFA per il trattamento dell’infezione da SARS-CoV-2 prendono in considerazioni trattamenti comunemente usati in ambito reumatologico, e che, a parte gli anticorpi monoclonali per una piccola nicchia di soggetti, l’unico trattamento a livello domiciliare per la COVID-19 che ha trovato qualche base scientifica di potenziale ampio utilizzo, è quello con la colchicina (Tardif, Lancet May 27, 2021), farmaco impiegato da decenni in Reumatologia, si potrebbe immaginare che proprio una interazione interdisciplinare avrebbe forse consentito di evitare molti errori compiuti in questo periodo.
 
Ritengo che la Reumatologia rappresenti un esempio emblematico di come una disciplina medica possa trarre, ma anche fornire, enormi vantaggi da una vera organizzazione funzionale dipartimentale, sia all’interno degli ospedali che a livello ospedale-territorio. Essa è una delle branche specialistiche mediche di maggior respiro internistico, ma che ha una assoluta necessità di interazione con un certo numero di discipline di altre aree specialistiche.
 
Basti pensare alla indispensabile interazione con cardiologi, pneumologi, nefrologi, gastroenterologi, dermatologi, ortopedici, fisiatri ed altri, che a loro volte hanno molto spesso necessità delle competenze del Reumatologo.
 
Nella maggior parte dei casi, gli attuali reparti di Reumatologia sono spesso soverchiati da ricoveri internistici generici, mentre in altre situazioni i reumatologi sono chiamati come consulenti nei diversi reparti di degenza di area medica. Se nel primo caso non viene consentito di sfruttare al meglio le competenze specialistiche, nel secondo si ottengono solo ritardi di diagnosi, prolungamento delle degenze ed aumento conseguente dei costi.     
 
I grandissimi progressi che ha visto la Reumatologia protagonista negli ultimi anni dal punto di vista diagnostico e terapeutico, con conseguente enorme impatto sulla prognosi di moltissime affezioni, hanno offerto grandi potenzialità di intervento per lo specialista e condotto ad un cambiamento radicale delle prospettive assistenziali per i pazienti con malattie reumatologiche.  Sarebbe quindi un valore aggiunto di grande rilievo se tali potenzialità venissero sfruttate in modo diverso sia internamente agli ospedali, ma anche nella rete Medico di Medicina Generale/specialista territoriale/ospedale.
 
Ciò proprio attraverso delle “aggregazioni funzionali” delle diverse specialistiche che, pur nel mantenimento delle proprie autonomie, possano integrarsi e rendersi complementari nell’interesse del paziente. Non da trascurare, in questo scenario, l’idea della creazione in quest’ottica di posti letto dedicati, come realizzato in molte sedi europee e solo in pochissime sedi italiane, che possano quindi avvalersi di competenze specifiche ma nel contempo cooperare con le altre specialistiche in uno spirito di reale organizzazione funzionale dipartimentale.
 
Tutto ciò peraltro non può prescindere da investimenti che inevitabilmente riportano al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che, come ricordato dal Prof. Cavicchi, nel punto M6.5.2 prevede una spesa di 8,6 miliardi di Euro destinata all’edilizia sanitaria, l’adeguamento del parco tecnologico, il miglioramento dellagovernance degli IRCCS ed al rafforzamento degli strumenti per raccolta, elaborazione ed analisi dei dati.
 
Certamente l’investimento sulle tecnologie è atto dovuto. In campo reumatologico, ci sono due esempi calzanti su tutti. Il primo è l’impiego dell’ecografia che ha dato una svolta in ambito assistenziale diagnostico ed interventistico e che dovrebbe ormai essere alla portata di tutti per gli indiscutibili vantaggi che può portare, ma che non è attuata in moltissimi Centri per motivi pratici ed economici. Il secondo è quello più generale dell’inserimento delle prestazioni di telemedicina, nell’agenda di governo e regioni come previsto dalla conferenza Stato-Regioni, e che è attualmente tra i più frequenti oggetti di discussione in ambito politico, ma che spesso viene affrontato senza precise cognizioni sul reale significato e sulle problematiche connesse alla sua attuazione.
 
La Società Italiana di Reumatologia si è mossa con grande anticipo su questa tematica sin dalla fine di marzo 2020, fornendo una piattaforma adatta alle proprie esigenze specialistiche e che è a disposizione gratuitamente di tutti i Centri italiani. Le criticità tuttavia che emergono sono molteplici. Tra queste si deve sottolineare innanzitutto che non tutte le Regioni hanno sinora riconosciuto tali prestazioni, che sono comunque time-consuming. Esistono inoltre gravi carenze nell’armamentario informatico di molti ospedali e non vi sono ancora azioni concrete tese a far interagire le diverse piattaforme, cosa fondamentale ad esempio per la comunicazione ospedale-territorio. L’educazione informatica del personale medico, ma soprattutto della popolazione che dovrebbe sfruttare tali prestazioni non è certo l’ultimo dei problemi.
 
Ritengo sia indubbio che lo sviluppo della tecnologia informatica, sia essa espressa come televisita, telemonitoraggio o teleconsulenza, sia una delle sfide più rilevati per il nostro futuro e rappresenterà una delle innovazioni chiave in ambito assistenziale ospedaliero aldilà dell’emergenza pandemica, ma si dovrà anche comprendere che essa non potrà essere un sostituto della visita medica in presenza, ma una fondamentale integrazione ad essa.
 
Tuttavia, la considerazione più rilevante è che tutto ciò che si è discusso non può prescindere per la sua realizzazione dal capitale umano, sia in termini qualitativi che quantitativi.
 
La priorità sulla formazione specialistica dei giovani medici è improcrastinabile e non mi soffermo certo sul problema ben conosciuto del numero di ingressi annuale che sta penalizzando molte discipline, inclusa la Reumatologia che appare purtroppo tra quelle meno considerate. La carenza di medici, soprattutto in alcune aree specialistiche, problema cronico frutto di politiche miranti solo al risvolto squisitamente economico ed a cui tutti si erano purtroppo adattati, è stata messa a nudo dall’emergenza pandemica. Essa va risolta al più presto, ma guardando all’intero patrimonio specialistico delle diverse specialità mediche e non orientandosi in modo settoriale sulla base di determinate contingenze. La spesa in tale ottica potrebbe però essere contenuta attraverso l’organizzazione funzionale a cui si è accennato sopra, che potrà rappresentare un modo per evitare tagli del personale, con una rimodulazione dello stesso secondo necessità.
 
Mi trovo perfettamente allineato nell’affermare con forza che tutto ciò dovrebbe concretizzarsi attraverso una diretta partecipazione nelle scelte e nella governance degli operatori sanitari che con la loro esperienza diretta sul campo potranno dare quel contributo decisivo allo sviluppo di un sistema sanitario che, pur mantenendo tutto ciò che di buono ha portato sinora, dovrà avere quell’impulso che sarà chiave nell’ottenere ciò a cui la maggior parte di noi ambisce.  
 
A questo proposito trovo davvero importante quanto, a proposito di governance, il prof Cavicchi scrive nel punto 8 del suo articolo e cioè che “l’alta complessità di un ospedale non si governa in modo monocratico ma in modo partecipato diffuso e decentrato.”
 
Intendendo per governance l'insieme dei principi, delle regole delle procedure e dei modi che riguardano la gestione e il governo di un ospedale,  il punto 8  per me ha tre importanti  significati:
- prima di ogni cosa non sono generiche ragioni di democrazia partecipativa  a suggerire il coinvolgimento dei medici nella gestione di un ospedale e della sanità  ma fondamentali ragioni epistemologiche;
 
- seconda cosa la probabilità di ben governare un ospedale cioè di fare scelte organizzative  giuste e opportune dipende dal grado di conoscenza, in possesso della governance  cioè ,dalla sua completezza e dalla sua estensione,  condizione necessaria per rispondere in modo adeguato alla complessità  della domanda di cura;
 
- il grado di adeguatezza delle conoscenze non riguarda in prima istanza l’amministrazione del sistema ( bilanci, costi, spese ecc), ma prima di tutto la capacità del servizio a soddisfare una domanda di cura complessa entro un quadro di possibilità economiche o come dice il prof Cavicchi entro un quadro di “compossibilità”.

 
 
E’ inutile sottolineare che tutto questo discorso implica una rivalutazione  a livello della gestione del ruolo e dell’importanza  della clinica, conoscenza che negli anni passati in nome di un discutibile primato della gestione aziendale   è stata troppe volte ignorata e sacrificata. In un ospedale la  gestione  non può essere considerate una variabile indipendente dalla clinica.
 
Quando si pretende non di governare la complessità ma di amministrarla si nega  l’essenza  epistemica dell’ospedale. Naturalmente a scapito dei malati. Non va dimenticato mai che l’ospedale rispetto a tutti gli altri servizi del territorio  è soprattutto alta complessità clinica.
 
Si ha un bel parlare di prossimità  di territorio,  il cui ruolo sia chiaro resta essenziale, ma quando si sta veramente male mi riferisco im primis alla mia disciplina ma anche a tutte le altre,  anche con il miglior territorio del mondo anche con quello più prossimo e integrato  si va sempre e comunque in ospedale.
 
Cioè si accede a un grado di complessità clinica superiore.
 
 
Roberto Gerli
Presidente della Società Italiana di Reumatologia (SIR)
 
Vedi gli altri articoli del Forum Ospedali: Fassari, CavicchiCognettiPalermo e TroisePalumboMurianaQuiciFnopiPizzaMaceroniMariniMaffeiMonacoBibbolinoPetrini e Vergallo, Cavalli.

29 giugno 2021
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