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I servizi sociali e la chimera del superamento della “spesa storica”

di Ettore Jorio

Il metodo fino ad oggi utilizzato per finanziare i servizi sociali basato sui questionari è fallito perché mancano nelle amministrazioni locali la cultura, la coscienza e gli strumenti necessari, in primis la contabilità analitica, indispensabile per la rilevazione dei fabbisogni da soddisfare

28 GIU - La notizia di qualche giorno fa, rappresentata in una dichiarazione della viceministra Castelli del 18 giugno, ha riguardato un sedicente superamento della spesa storica in materia di funzioni sociali dei Comuni finanziati a partire dall’anno in corso con il ricorso al criterio del fabbisogno standard. Uno degli strumenti di finanziamento introdotti nell’ordinamento dalla legge delega n. 42/2009 attuativa dell’art 119 della Costituzione, cui hanno fatto seguito, per interessamento al tema, i decreti legislativi nn. 216/2000, 23/2011 e 68/2011. Ma dove?
 
E’ vero che dell’argomento se n’è parlato e deciso, appena due giorni prima (16 giugno 2021), in seno alla «commissione tecnica per i fabbisogni standard» del Mef, ancorché rispettivamente in modo improprio e difforme dalle regole attuative del federalismo fiscale. Un documento scritto e interpretato in un modo alquanto caotico, peraltro ben distante dalle coordinate legislative ribadite qualche giorno prima (26 maggio 2021) dalla ministra Gelmini nel corso dell’audizione alla Commissione tecnica paritetica per l'attuazione del federalismo fiscale (Copaff).
 
La conclusione del procedimento è avvenuta esprimendo la volontà di confermare l’affidamento del sistema di rilevazione e determinazione sancito dal d.lgs. 216/2010, basato sull’invio di quei questionari che hanno registrato sino ad oggi un mega-flop. Di fatto, aggiungendo alla spesa storica la solita prebenda discriminata per aree geografiche.
 
Questo non è affatto un superamento della stessa, bensì una «spesa storica rafforzata»! Un aggettivo che assumiamo a prestito dalla moda in uso per attribuire significato alle solite inutilità delle decisioni delle politiche clientelari messe in piedi per attenuare la voce del comune dissenso in materia di welfare, che è arrivata ad essere urlata nella terribile pandemia che ha afflitto la nazione intera, specie quella più debole lasciata da sola a patire. Ovviamente, una modalità accentuata in prossimità di importanti appuntamenti elettorali, del tipo di quelli che vedranno al voto autunnale cinque città metropolitane, una regione (la Calabria) e 1.175 altri comuni. Insomma, un bell’esame per la politica!
 
L’inadeguatezza delle rilevazioni
Relativamente al ruolo e all’efficacia del metodo utilizzato fondato sulle rilevazioni mediante questionari, c’è da dire che esso è sino ad oggi fallito perché mancano nelle amministrazioni locali la cultura, la coscienza e gli strumenti necessari, in primis la contabilità analitica, indispensabile per la rilevazione dei fabbisogni da soddisfare. Basti pensare che siffatti limiti non hanno fatto rilevare sino ad oggi persino il fabbisogno epidemiologico indispensabile per programmare la salute della collettività, perfezionata «ad orecchio».
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Troppa confusione su cosa sia il welfare assistenziale
Con riferimento ai fabbisogni standard riferibili agli enti locali, a tutte le iniziative intraprese dal 2010 in poi (si badi bene, sono trascorsi 10 anni!) ne è conseguito il nulla assoluto. Un epilogo sostanzialmente confermato nella nota conclusiva dei lavori della anzidetta Commissione tecnica del 16 giugno scorso, nella quale ci si è limitati esclusivamente a decidere la mera ripartizione - peraltro assai discriminata - di quanto assegnato con il comma 792 legge di bilancio 2021, anch’esso figlio della trascuratezza rimediale che si regala da oltre un decennio all’assistenza delle persone.
 
In essa, infatti, si fa esplicito cenno a processi di revisione dei valori (per l’appunto monetari) dei coefficienti di riparto quantificati, quali fabbisogni aggiuntivi per servizi sociali, in coerenza con la “nuova” metodologia (quale?). Così non deve essere, anche perché diversamente disciplinata nella sua attuazione, attesa la competenza residuale esclusiva delle Regioni.
 
Il metodo è quello dei costi/fabbisogni standard assicurati dalla perequazione
Il recente incremento dei Lea  (dpcm 12 gennaio 2017) - intervenuto a seguito della confluenza in essi dei livelli essenziali di assistenza sociale (i cosiddetti Liveas), che ha anche comportato che le funzioni fondamentali dei Comuni, di cui alla lettera g) dell’art. 21 della legge 42/2009, afferenti al settore sociale siano da considerarsi al di là di quelle individuate nella precedente lettera c) comprendenti, tra l’altro, i servizi per gli asili nido (cui la nota del viceministro fa esplicito riferimento) - esige un diverso trattamento finanziario.
 
Non già determinato con il fabbisogno di tipo quantitativo  - ovverosia monetario (così come definito dalla stessa Commissione Mef), nel senso della sua determinazione economica ottenuta (si fa per dire!) dagli esiti dei menzionati questionari - bensì attraverso il binomio costo-fabbisogno standard qualitativo (leggasi in proposito l’atto di intesa, ai sensi dell’art. 13, comma 5, del d.lgs. 68/2011 della Conferenza unificata del 7 maggio 2015, concernente, per l’appunto: “Prime indicazioni per un percorso finalizzato alla rilevazione della spesa sociale, dei fabbisogni e dei costi standard dei servizi ed interventi aventi caratteristiche di generalità e permanenza all’interno delle Regioni e delle Province e degli EE.LL. nell’ambito delle politiche locali”).
 
Un criterio, quest’ultimo, con il quale adeguare, a realtà godibile, il costo standard, preventivamente e scientificamente determinato per prestazioni da erogare sulla base dell’età dei destinatari delle stesse, che sarebbero da ottimizzare in relazione agli indici di deprivazione socio-economica, che costituiscono le vere cause di necessità dell’intervento del welfare assistenziale. In quanto tali assistite dalla perequazione al 100%, ovverosia con il concorso dello Stato sino al raggiungimento del budget della relativa spesa presuntivamente determinato, altrimenti non autonomamente sostenibile con il gettito locale di riferimento.
 
La perequazione è la garanzia per le Regioni deboli
In buona sostanza, utilizzando le procedure vigenti dal 2010/2011, cui non si è fatto colpevolmente ricorso sino ad oggi neppure per la sanità, si sarebbero dovuti finanziare i Lea secondo il fabbisogno attualizzato «per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119, comma 4, Cost.)». Una regola ineludibile anche per l’assistenza sociale dal momento che i suoi livelli di assistenza specifica sono in essi confluiti e quindi assolutamente compresi.
 
A prevalere deve essere la ragione pubblica
Concludendo, sarebbe davvero un bel guaio se la politica continuasse a ragionare e decidere in modo inverso. A proposito, basti pensare ai guai sopportati durante il Covid 19 dall’assoluta assenza della dovuta assistenza sociale ai disabili e agli anziani, assistenza domiciliare e persino quella assicurata ai ricoverati nelle Rsa. L’attuale errore di ipotesi di metodologia del finanziamento sarebbe peraltro funzionale a stravolgere tutti gli sforzi fin qui impiegati per generare, finalmente, l’integrazione sociosanitaria, senza la quale tutto andrà sempre peggio.
 
Ettore Jorio
Università della Calabria

28 giugno 2021
© Riproduzione riservata


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