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Farmacie di comunità, il labile confine fra commercio e sanità

di Livio Garattini e Alessandro Nobili

Qualsiasi iniziativa mirata a estendere i servizi sanitari offerti dalle farmacie nell’assistenza territoriale va guardata con molta circospezione alla luce dell’attuale quadro normativo (pharmaceutical care o farmacia dei servizi che sia), anche in prospettiva della riforma di tutto il settore delle cure primarie (vedi PNRR). Seppur consapevoli del ruolo chiave che le farmacie di prossimità possono svolgere in questo nuovo scenario

13 SET - La farmacia è una disciplina relativamente recente sotto il profilo storico, che sta un po’ a metà strada fra chimica e sanità, essendo legata indissolubilmente al farmaco, dallo sviluppo alla produzione per finire con la sua distribuzione. Peraltro, a partire dagli anni cinquanta del millennio scorso il ruolo del farmacista è radicalmente mutato con l’avvento della produzione di massa da parte dell’industria farmaceutica. Fino ad allora, infatti, il farmacista era solito anche produrli i farmaci nel proprio laboratorio, mentre da molto meno di un secolo la sua attività sul farmaco si è sostanzialmente ristretta alla distribuzione anche nelle farmacie territoriali, altrimenti dette di comunità, tuttora il luogo di lavoro di gran lunga prevalente dei laureati in farmacia. Infatti, dopo medici e infermieri, i farmacisti di comunità rappresentano il terzo gruppo più numeroso di professionisti sanitari in Europa.

Come conseguenza, la laurea in farmacia è stata oggetto di dibattito e tentativi di riforma all’inizio del nuovo millennio, con proposte contrastanti anche a livello di UE. Tanto per capirci, la durata stessa del corso di laurea varia ancora del doppio in Europa, da 3 anni per quella breve (come per tutte le altre lauree ad eccezione di medicina e veterinaria) nei Paesi Scandinavi a 6 per qualsiasi laureato in Francia e Olanda, con l’Italia che è stato l’unico Paese dell’Europa Occidentale ad averla ulteriormente allungata (da 4 a 5 anni) negli anni novanta.

A questa situazione assai eterogenea nella formazione a livello europeo non si può non associare quella altrettanto confusa della regolamentazione delle farmacie territoriali, quasi ovunque esercizi commerciali di successo. Tale regolamentazione è giustificata dal fatto che la dispensazione del farmaco viene considerata un servizio di interesse pubblico, in quanto riferita a un prodotto essenziale per la salute umana. Gli oggetti più importanti di tutte le normative nazionali sono il diritto alla proprietà dell’esercizio e il margine alla distribuzione sui farmaci rimborsabili.

A grandi linee, si oscilla fra l’approccio liberale di Olanda e Regno Unito, dove la maggior parte delle farmacie è di proprietà di grandi catene e i sistemi sanitari riconoscono solamente una (modesta) tariffa fissa per dispensazione, a quello strettamente regolamentato di Francia e Spagna, dove (come da noi) la maggioranza delle farmacie è tuttora di proprietà di singoli farmacisti (nonostante qualche timida liberalizzazione) e il margine alla distribuzione è ancora sostanzialmente legato al livello del prezzo (seppure in modo sempre meno progressivo) e, quindi, più alto è il prezzo del farmaco più il farmacista ci guadagna. Nel nostro Paese la categoria dei farmacisti titolari di farmacia è da tempo fra quelle col reddito medio dichiarato fra i più elevati, insieme ai notai, e in ambedue i casi l’attività professionale si tramanda quasi sempre di generazione in generazione.

Questa lunga premessa istituzionale ci è sembrata necessaria per inquadrare in modo adeguato l’oramai annoso dibattito sul doppio ruolo di operatori sanitari e commerciali contemporaneamente giocato dai farmacisti di comunità, in primis i titolari di farmacia, anche se si estende in modo subordinato ai farmacisti dipendenti in negozio. Questo doppio ruolo solleva inevitabilmente un conflitto di interessi nell’agire quotidiano di tutti i farmacisti quando hanno l’opportunità di influenzare le scelte dei propri clienti anche nel campo dei farmaci, dalle scelte sui farmaci fuori brevetto (c.d. genericabili) a quelle sui farmaci da banco (senza ricetta medica).

Al di là del fatto che (ovviamente) qualsiasi farmacista può comunque fornire un valido servizio clinico ai propri pazienti a titolo individuale, la prova più evidente di quanto sia concreto il conflitto di interessi a livello di categoria professionale è costituita dalla commercializzazione di prodotti che addirittura cozzano con i contenuti della loro formazione accademica, classicamente i prodotti fitoterapici e omeopatici come esempi più eclatanti. D’altronde, è proprio il monopolio detenuto sulla distribuzione dei farmaci rimborsabili con ricetta a costituire il vero vantaggio di marketing delle farmacie rispetto a qualsiasi altro tipo di negozio al dettaglio esistente. Infatti tale monopolio permette alle farmacie di poter attrarre a costo zero in negozio potenziali clienti per convincerli ad acquistare i (sempre più) numerosi prodotti “salutistici” commercializzati al di là dei farmaci, dagli integratori ai dietetici e ai cosmetici tanto per citarne alcuni. E non è un caso che qualsiasi tentativo di liberalizzazione venga fin da subito guardato con sospetto dall’associazione di categoria dei titolari, quasi fosse una sorta di “cavallo di Troia” per ledere i vantaggi di posizione acquisiti nel tempo dalle tradizionali farmacie di comunità.

Tornando in Italia, basti pensare che siamo l’unico Paese in cui non è concesso dispensare farmaci su ricetta a un laureato in farmacia qualora venga assunto in una parafarmacia o in un corner della salute degli ipermercati, ambedue categorie di negozi costretti per legge ad assumerne almeno uno. Difficile trovare una spiegazione logica a una limitazione professionale così irrazionale, se non quella della difesa dei privilegi finanziari acquisiti nel tempo dalla categoria delle farmacie tradizionali. Come è altrettanto difficile trovare una giustificazione logica sotto il profilo economico al fatto che il margine alla distribuzione dei farmaci su ricetta sia tuttora collegato ai loro prezzi, visto che, diversamente da qualsiasi altro tipo di negozio, la fornitura alle farmacie da parte dei grossisti è pressoché quotidiana e quindi i loro costi di scorta (gli unici che giustificherebbero tale modalità di remunerazione) sono irrilevanti.

Concludendo, siamo dell’opinione che qualsiasi iniziativa mirata a estendere i servizi sanitari offerti dalle farmacie nell’assistenza territoriale vada guardata con molta circospezione alla luce dell’attuale quadro normativo (pharmaceutical care o farmacia dei servizi che sia), anche in prospettiva della riforma di tutto il settore delle cure primarie (vedi PNRR). Seppur consapevoli del ruolo chiave che le farmacie di prossimità possono svolgere in questo nuovo scenario, soprattutto per quanto concerne il monitoraggio dei malati cronici, ci sono dei nodi a monte che vanno definitivamente sciolti in modo razionale, a partire dalla durata della laurea per proseguire con la titolarità del negozio e il margine alla distribuzione. E’ infatti legittimo chiedersi innanzitutto se, per dispensare farmaci, sia tuttora necessario conseguire una laurea di cinque anni con tanti esami in discipline scientifiche (biologia, chimica, fisica ecc.) prima di entrare nel mercato del lavoro delle farmacie, e non siano invece più che sufficienti tre come per qualsiasi altra laurea, così limitando in prospettiva anche il senso di frustrazione che molti farmacisti dipendenti hanno nel loro agire quotidiano.

Quanto alla titolarità, sembra oramai quasi del tutto inutile sottolineare come la presenza di un laureato in farmacia per dispensare farmaci non implichi al contempo che il negozio sia di proprietà di un farmacista, come avviene da decenni in Inghilterra. Infine, limitandoci ai farmaci rimborsabili, è legittimo chiedersi perché il SSN continui a pagare una percentuale (elevata) sul prezzo alle farmacie (eccezion fatta per la distribuzione in nome e per conto), e non semplicemente una quota fissa (ridotta) per ricetta, non fosse altro che per farsi riconoscere sotto il profilo economico l’indiscutibile vantaggio di marketing che il monopolio del servizio pubblico di dispensazione concede loro.

Infine, pensiamo non debba nemmeno trarre in inganno quanto accaduto di recente in piena pandemia, quando la farmacia è diventata molto spesso l’unico effettivo punto di riferimento sanitario per i cittadini al di fuori degli ospedali. Tale situazione non va considerata affatto eccezionale, in quanto poter tenere il negozio aperto è la conditio sine qua non di qualunque esercizio commerciale, come dimostra in modo evidente la rabbia di tutti i negozianti costretti ad abbassare la saracinesca durante il lock down. Così come non ci si deve nemmeno scandalizzare più di tanto di fronte alle repentine impennate di prezzo di prodotti scarsi e quindi molto ricercati (vedi le mascherine e i detergenti) riscontrate in tante farmacie della penisola fino a qualche tempo fa, quando la maggior parte degli altri tipi di negozi che li commercializzano era ancora chiusa. Piuttosto, quella che ha funzionato poco e male nell’assistenza territoriale del nostro SSN è stata la medicina generale, o di famiglia che dir si voglia, altra categoria professionale che merita tutto un ragionamento a parte in un prossimo contributo.

Livio Garattini
Alessandro Nobili

Istituto Mario Negri IRCCS


13 settembre 2021
© Riproduzione riservata


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