Taglio del nastro all’ospedale di Treviso del nuovo Centro per il trapianto di midollo osseo allogenico che sarà operativo dal prossimo autunno con una trentina di trapianti l’anno.
“Un progetto fortemente voluto dalla regione Veneto – ha detto il presidente Luca Zaia – d’ora in poi i pazienti di Treviso e Belluno non dovranno più emigrare per curarsi”.
A dirigere la nuova struttura all’avanguardia a Ca’ Foncello sarà Marta Stanzani, specialista in Ematologia con esperienza ultraventennale presso il Centro Trapianto di Midollo Osseo Allogenico dell’Istituto di Ematologia e Oncologia “L. e A. Seràgnoli” dell’Università di Bologna. Saranno messe a disposizione del Centro quattro camere, ricavate nella prima fase negli ambienti già esistenti al Ca’ Foncello, ristrutturati per soddisfare i requisiti strutturali richiesti, e successivamente presso la Cittadella della Salute.
“L’inaugurazione di oggi è la prova provata che le idee nascono dei territori – ha aggiunto il Governatore – la nostra è la filosofia della piccola Atene. A Treviso non c’era l’università di medicina e ora abbiamo vari corsi di laurea. Così cresce l’ospedale, sempre grazie alle associazioni e ai volontari, e cresce la comunità, al punto da attirare luminari di fama internazionale. Mi riferisco al prof. Damiano Rondelli, tra i maggiori esperti internazionali nell’ambito di questa complessa procedura terapeutica. Direttore della Divisione di Ematologia/Oncologia e Responsabile del Centro trapianti dell’Università dell’Illinois, Rondelli – ha spiegato Zaia – monitorerà per i primi due anni lo sviluppo e la crescita della nuova Unità di trapianto di midollo osseo allogenico trevigiana; inoltre coordinerà un piano di training a Chicago per i medici, infermieri e biologi maggiormente coinvolti nel programma di trapianto, infine svilupperà un percorso di formazione attraverso un programma di educazione continua”.
Prevedere l’efficacia terapeutica di farmaci, anche sperimentali utilizzando parti dello stesso tessuto neoplastico (organoide), è il focus target su cui sta lavorando il Working Group Melanoma di Alleanza Contro il Cancro, la Rete Oncologica Nazionale fondata dal ministero della Salute
Predire, su pazienti affetti da melanoma, l’efficacia terapeutica di farmaci, anche sperimentali, anche non necessariamente disegnati per quello specifico tumore, utilizzando parti dello stesso tessuto neoplastico (organoide).
Questo il focus target su cui sta lavorando, in collaborazione con diversi Istituti associati, il Working Group Melanoma di Alleanza Contro il Cancro, la Rete Oncologica Nazionale fondata dal ministero della Salute presieduta dal prof. Ruggero De Maria.
“Predire un percorso terapeutico significa, da un lato, far guadagnare tempo prezioso al paziente evitandogli terapie che non funzionerebbero e, dall’altro, risparmiare ingenti risorse dirottabili altrove” spiega Giandomenico Russo, già Direttore Scientifico dell’IDI di Roma e coordinatore del WG, secondo il quale “la sempre maggiore disponibilità di terapie nel prossimo futuro, rende questo progetto particolarmente importante”.
La coltura organoide, modello innovativo in uso nella ricerca biomedica che riproduce in vitro la struttura tridimensionale di organi e tessuti umani, ha sostituito quella cellulare “che non consentiva di riproporre condizioni di sperimentazione attendibili a causa dell’assenza di microambiente nativo costituito da altre popolazioni cellulari (immunitarie, collagene, fibroblasti, ecc.)”.
Gli Istituti coinvolti – Idi e Ifo di Roma, Irccs Giovanni Paolo II di Bari, IEO e Istituto Nazionale Tumori di Milano e Irccs Irst Dino Amadori di Meldola, tutti associati alla Rete – stanno applicando quattro differenti tecnologie di tipo organoide “per individuare la soluzione migliore”.
“Nella prima – spiega Russo – il tessuto viene imbevuto in particelle di collagene; nella seconda è posizionato in una camera micro-fluidica dove vengono somministrate sostanze differenti; nella terza vengono mescolate cellule della cute con quelle tumorali; nella quarta viene utilizzato un bioreattore – sorta di cilindro rotante – dove le cellule cancerogene vengono fatte crescere affinché si stabilizzino con quelle accessorie. Non potendole portare a più lunga coltura di una decina di giorni, vi è la necessità di trattarle farmacologicamente con i vari protocolli esistenti in quel momento per il melanoma o, anche, non specificamente disegnati per la cura di questa patologia”.
Le analisi successive forniranno risposte a una serie di domande: le cellule melanomatose sono state eliminate o hanno resistito ai trattamenti? L’analisi genetica preventiva mirata alla personalizzazione terapeutica - su cellule tumorali e accessorie - ci dice che una risposta a nuove combinazioni di farmaci è possibile? In caso affermativo si potrà procedere sul paziente, soprattutto quelli in fase terminale sui quali non si dispone più di farmaci ufficiali utilizzabili.
“I melanomi – commenta il Presidente di ACC, Ruggero De Maria – creano attorno a loro un ambiente protettivo che occorre riprodurre fedelmente in laboratorio per comprendere come individuare le migliori combinazioni terapeutiche per ciascun paziente; il lavoro del Working Group della Rete è fondamentale perché utilizza una serie di nuove tecnologie per riprodurre fedelmente i tumori dei diversi pazienti e il loro microambiente protettivo, in modo da poter sviluppare rapidamente – ha concluso – terapie personalizzate e molto più efficaci”.