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Lunedì 12 NOVEMBRE 2018
“La contenzione fisica non è un atto terapeutico”. La Cassazione sul caso “Mastrogiovanni”

La vicenda del maestro elementare Franco Mastrogiovanni morto nel 2009 dopo 82 ore di contenzione nell'ospedale di Vallo di Lucania, lascia in eredità insegnamenti importanti, pur nella estrema mitezza di pene irrogate, a fronte di un fatto – o di fatti – di estrema gravità che non fanno certo onore al Servizio sanitario nazionale

La vicenda di Franco Mastrogiovanni è giunta, dunque, alla conclusione.
Il “maestro più alto del mondo” era stato sottoposto nel 2009 a un trattamento sanitario obbligatorio, ricoverato in SPDC a Vallo della Lucania, viene prima sedato farmacologicamente (contenzione farmacologica) e successivamente anche meccanicamente, attraverso “fascette dotate di viti di fissaggio applicate ai quattro arti e fissate alle sbarre del letto”.
 
Mastrogiovanni non viene più liberato dalla contenzione e dopo oltre ottanta ore ne viene constatato il decesso. La causa di morte viene riscontrata in un edema polmonare.
Coinvolti come imputati  ben diciassette tra medici e infermieri per sequestro di persona (art. 605 cp), morte come conseguenza di altro reato (art. 586 cp) e, limitatamente ai medici, falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cp).
 
In primo grado, il Tribunale di Vallo della Lucania condanna solo i medici; la Corte di appello di Salernoin condanna anche gli infermieri. La Cassazione ha sostanzialmente confermato l’impianto della sentenza di appello.
 
Vicenda complessa che ha avuto come particolarità la videogistrazione di tutto l’evento: il reparto, infatti, era dotato di un impianto di videosorveglianza e videoregistrazione che – in evidente contraddizione con la legge sulla privacy (di cui non si è discusso) – ha mostrato un eccezionale documento che ha permesso di ricostruire tutta la vicenda.
 
A livello mediatico si registra anche la presenza del film “87 ore” di Costanza Quatriglio.
 
Analizzeremo la lunga sentenza della Cassazione – V sezione, sentenza 20 giugno 2018,  n. 50497 - concentrandoci sulla “natura della contenzione” approfondita per la prima volta in modo ampio dai giudici di legittimità, sul reato di sequestro di persona e sulle conseguenze nei confronti di medici e infermieri coinvolti e, infine, sul falso in atto pubblico.
 
La sentenza ha una eccezionale importanza e implicherà un ripensamento di molte prassi nelle organizzazioni sanitarie in relazione alle motivazioni addotte dai supremi giudici.
 
La natura della contenzione
Secondo la Corte di cassazione la contenzione non ha natura di “atto medico” secondo l’impostazione classica che di questo da la giurisprudenza, in quanto quest’ultimo ha la finalità di realizzare un “beneficio per la salute, bene tutelato dall’articolo 32 della Costituzione, che consente di fornire copertura costituzionale all’atto medico”.
 
L'uso della contenzione meccanica, sostengono i supremi giudici, concretizza l’utilizzo di un di un “presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce materialmente l'effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente”.
La contenzione svolge una mera funzione di tipo "cautelare", essendo diretto a salvaguardare l'integrità fisica del paziente, o di coloro che vengono a contatto con quest'ultimo, allorquando ricorra una situazione di concreto pericolo per l'incolumità dei medesimi”.
 
La Cassazione ha voluto ricordare anche la legge 180/1978, c.d. legge Basaglia, che ha superato l’impostazione custodialistica della psichiatria, pur ricordando che nella previgente legislazione manicomiale non era previsto certo un utilizzo indiscriminato della contenzione.
 
Nella analisi della natura della contenzione la Cassazione cita i codici deontologici delle professioni interessate – art. 51 Codice Fnomceo, 2014 e art.  30  Fn Ipasvi (oggi Fnopi) 2009 che delimitano l’utilizzo della contenzione a situazioni eccezionali.
I supremi giudici, inoltre, respingono la tesi che fa discendere la liceità della contenzione dalla posizione di garanzia dei professionisti sanitari (medici e infermieri).
 
La liceità dell’uso dei mezzi contenitivi viene scriminata (giustificata) solo nelle ipotesi previste dall’articolo 54 del codice penale che, per la comprensione del commento, è utile riportare.
 
Il primo comma dell’articolo 54 cp testualmente recita:
“Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
 
Gli elementi portanti dello stato di necessità sono quindi:
a) il pericolo attuale di un danno grave alla persona;
b) le inevitabilità altrimenti del pericolo;
c) la proporzionalità del fatto
 
Il pericolo deve essere “attuale” e cioè è da considerarsi “inammissibile” l’applicazione della contenzione in via “precauzionale” sulla base della “astratta possibilità o anche mera probabilità di un danno grave alla persona”. Occorre il riscontro degli elementi obiettivi che devono essere indicati in “modo puntuale e dettagliato”. Inoltre la valutazione dell’attualità del pericolo deve sussistere nel tempo e implica, quindi, un “costante monitoraggio del paziente”, con riscontro in cartella clinica di tale monitoraggio.
 
Interessanti sono le notazioni che i giudici operano sul secondo requisito: l’inevitabilità altrimenti del pericolo”. Questa sussiste quando “non vi sia la possibilità di salvaguardare la salute del paziente con strumenti alternativi, la cui valutazione di inidoneità è rimessa al prudente apprezzamento del medico”. Uno stringente richiamo al ruolo professionale del tutto condivisibile.
 
Ultimo requisito la “proporzionalità”. E’ inerente alle “modalità di applicazione della contenzione “essendo evidente che, per la sua estrema invasività, tale presidio deve essere applicato, oltre che nei limiti dello stretto necessario, verificando, anche in conseguenza dell'evoluzione clinica, se sia sufficiente il blocco solo di alcuni arti o se il pericolo di pregiudizio sia tale da imporre il blocco ad entrambi i polsi e caviglie”. Anche queste valutazioni dovranno essere valutate dal medico, “anche sinteticamente”, e motivate in cartella clinica “fornendo tutti gli elementi obiettivi che hanno reso in concreto inevitabile il suo utilizzo”.
 
La compilazione della cartella degli elementi della contenzione si rende necessaria, sono sempre le parole dei giudici, a tutela del paziente e dello stesso medico.
 
La Cassazione sposa quindi la tesi della contenzione come atto soggetto a prescrizione medica – ancorché sprovvisto di qualunque finalità di carattere terapeutico – da confermarsi di volta in volta al cambio del medico in servizio per la verifica dei requisiti sopra riportati e indicanti lo stato di necessità. La prescrizione deve essere dettagliata, per dare conto dei motivi che hanno portato alla scelta di “prescrivere tale presidio”. Il termine “presidio”, è evidente, non ha natura tecnica e indica tutti gli strumenti della contenzione meccanica.
 
Fuori da questi elementi la contenzione è illecita e “il medico e il personale sanitario” che la applicano, prescindendone, “sottopongono il paziente a una illegittima privazione della libertà personale”, integrando quindi gli estremi del reato di sequestro di persona, ex art. 605 cp.
 
La contenzione di Franco Mastrogiovanni
Come nel precedente giudizio di merito i giudici stigmatizzano il comportamento dei medici sotto il duplice profilo: di prescrizione, senza adeguata motivazione della contenzione per il medico prescrittore e per la mancata rivalutazione della prescrizione per i medici subentranti nel turno.
 
La difesa dei medici ha seguito una tradizione della psichiatria novecentesca che pensavamo – a quaranta anni dall’entrata in vigore delle legge 180, ben superata – arrivando ad affermare:
1. la contenzione non ha – come affermato dalla Corte di appello di Salerno – una mera finalità cautelare essendo bensì funzionale alla cura del paziente psichiatrico in adempimento agli obblighi di garanzia e protezione gravante sul personale sanitario;
2. la contenzione meccanica è funzionale alla salvaguardia dell’incolumità fisica del paziente psichiatrico fino a quando la somministrazione degli psicofarmaci (e quindi un’altra tipologia di contenzione) non abbia effetto;
3. la contenzione è “terapia meccanica”.
Quello che è emerso chiaramente da tutti i gradi di giudizio è stato incontrovertibile: il motivo dell’agitazione di Franco Mastrogiovanni non è stata la motivazione della contenzione bensì il contrario: l’agitazione era il frutto della contenzione estremamente protratta – oltre ottanta ore – e invasiva e che aveva già causato “numerose abrasioni e profonde escoriazioni che  nessun operatore sanitario si era occupato di medicare adeguatamente”.
 
E’ stato quindi disposto un utilizzo della contenzione per “uso precauzionale” senza che ne sussistessero i motivi e senza che il paziente venisse rivalutato.
Una delle motivazioni addotte, il pericolo di cadute, sussisteva solo sulla carta” senza alcuna evidenza scientifica.
 
Il sequestro di persona e la responsabilità di medici e infermieri
Il reato di sequestro di persona, previsto dall’articolo 605 cp, è a “dolo generico” ed è stato in primo luogo dimostrato dalla mancata annotazione in cartella clinica.  Inoltre è emerso che all’ospedale di Vallo della Lucania la contenzione non fosse esattamente una “extrema ratio” ma un modo usuale per assistere i pazienti psichiatrici.
 
La mancata annotazione in cartella e la “piena consapevolezza da parte dei medici di aver applicato la contenzione in difetto dei presupposti di effettiva necessità e straordinarietà” che si è concretizzata nell’avere “privato Mastrogiovanni della libertà al di fuori dei casi di effettiva necessità sopra esaminati”.
 
Ha aggravato il fatto che ai familiari è stato impedito di visitare Franco Mastrogiovanni durante il ricovero.
 
Per quanto riguarda la posizione degli infermieri la Corte ha escluso che il loro comportamento fosse scriminato dall’adempimento del dovere, in quanto tale previsione è riferibile a contesti gerarchici ben diversi da quelli ospedalieri come gli ambienti militari, caratterizzati dalla insindacabilità degli ordini.
 
L’organizzazione in sanità tra personale medico e “paramedico” (è l’espressione utilizzata dalla Cassazione. Sottolineiamo che si è occupata del caso, vista la particolarità dei reati contestati, la V sezione penale e non la IV notoriamente specializzata in responsabilità sanitaria) è “improntata a una collaborazione funzionale nell’interesse del paziente ed una cooperazione diretta al puntuale e corretto adempimento delle prescrizioni medico-diagnostiche”.
 
La prescrizione di una contenzione non può quindi configurarsi come “ordine gerarchico” e l’infermiere ha il dovere di sottrarsi a tale disposizione per il dovere di protezione dovuto all’obbligo di garanzia in capo all’infermiere stesso (e che la difesa degli stessi ha tentato di negare).
 
Le fonti di riferimento citate dai giudici sono due: la legge 251/2000 e il codice deontologico dell’infermiere e che attribuiscono agli infermieri “obblighi giuridici autonomi rispetto a quelli del medico”.
 
Compete quindi al medico disporre e mantenere la contenzione mentre spetta all’infermiere di "adoperarsi" per verificare, non solo che si faccia un uso "straordinario" del mezzo contenitivo, ma che tale presidio si fondi su una prescrizione medica.
 
La Cassazione ritiene corretta la ricostruzione del rapporto che deve intercorrere tra medici e infermieri in caso di contenzione fisica operato dalla Corte di appello di Salerno che ha escluso l’adempimento del dovere in merito all’ordine del medico di contenere.
 
Si legge nella sentenza che “gli infermieri che si erano avvicendati nei turni si erano limitati ad eseguire l'ordine meramente verbale di contenere i pazienti ed a tollerare il mantenimento di una situazione penalmente rilevante di privazione della libertà personale che potevano, e dovevano, far cessare alla luce degli obblighi giuridici discendenti dalle sopra esaminate norme deontologiche”.
 
In virtù di questo “l'infermiere, in considerazione dei comportamenti attivi imposti dalle norme sopra esaminate, non è certo un soggetto che deve accettare passivamente le sue decisioni, ma deve comunque autonomamente tutelare la salute ed il benessere dei pazienti”.
 
L’autonomia è riconosciuta dalla legge 251/00 e dall’articolo 30 del codice deontologico che afferma che dispone che "l'infermiere si adopera affinché il ricorso alla contenzione sia un evento straordinario, sostenuto da prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali". Si richiede quindi, agli infermieri, un comportamento attivo  di verifica della legittimità dell'uso della contenzione affinché la stessa sia circoscritta ad evento "straordinario" e non costituisca, conseguentemente, un regime "ordinario", consueto, di trattamento del paziente psichiatrico.
 
Lo stesso codice, sottolinea la Cassazione, prevede altresì uno specifico obbligo di protezione del paziente mediante la segnalazione all'autorità competente eventuali maltrattamenti o privazioni (comprensive a maggior ragione di quelle della libertà personale).
 
Tali obblighi propri devono portare anche, se necessario, a situazioni di “segnalazione e denuncia” delle violazioni eventualmente riscontrate.
Ricordiamo che la Corte di appello di Salerno aveva precisato che “l'obbligo di attivarsi per farcessare la coercizione era ancor più stringente proprio per gli infermieri in quanto più frequentemente a contatto diretto con il paziente ed in grado di constatare da vicino le sofferenze che la limitazione meccanica gli cagionava”.
 
Morte come conseguenza di altro reato
In primo e in secondo grado era stata riconosciuto il reato previsto dall’articolo 586 del codice penale in quanto si riteneva sussistente il nesso di causa tra la contenzione e la causa di morte (edema polmonare) riconosciuta come non sussistente.
Dato che, sul punto. è intervenuta la prescrizione. il reato è stato dichiarato estinto senza l’opportunità di rinviare al giudice di merito per l’accertamento del nesso di causa.
Sono fatti salvi gli effetti civilistici con il rinvio al giudice civile competente per valore.
 
Falso ideologico
La mancata annotazione in cartella clinica ha portato, ai medici, la condanna per falso ideologico in atto pubblico “per omissione”. I medici ospedalieri, in qualità di pubblici ufficiali, incorrono nel reato in questione quando consapevolmente omettano di annotare fatti rilevanti “sotto il profilo clinico, diagnostico, terapeutico, assistenziale, avvenuti o caduti sotto la sua diretta percezione”.
 
Anche in questo caso la difesa dei medici non ha certo fornito le argomentazioni migliori arrivando a negare che la contenzione debba essere annotata in cartella clinica, che non costituiva un comportamento voluto ma una mera dimenticanza, che sussistesse l’obbligo di annotazione solo di inizio e fine della contenzione e non anche del suo mantenimento e altre risibili argomentazioni.
Rettamente i supremi giudici hanno affermato che “la contenzione è una pratica assistenziale-prescrittiva, pur non terapeutica, che richiede la valutazione del paziente, l'eventuale attuazione di azioni alternative, una valutazione prognostica su possibili esiti del trattamento, la sua rivalutazione.
 
Obbligo di prescrizione– ancorché questa espressione appaia contraddittoria rispetto a un’attività non terapeutica – ab origine e successive verbalizzazioni per il mantenimento della contenzione.
 
Conclusioni
La sentenza della Cassazione ha affrontato in modo ampio, ma non esaustivo, la scivolosa questione della contenzione.
In base agli insegnamenti dei giudici dobbiamo sinteticamente ricordare:

  1. la contenzione non è una pratica di carattere sanitario, non è un’attività medica, non ha una finalità di carattere terapeutico;
  2. nonostante il punto sub a) la contenzione deve comunque essere prescritta dal medico in quanto ha natura “assistenziale prescrittiva” che richiede la “valutazione del paziente, l'eventuale attuazione di azioni alternative, una valutazione prognostica”;
  3. la contenzione è una pratica eccezionale che può essere giustificata solo con il ricorso allo stato di necessità, ex art. 54 cp;
  4. compete al medico prescrivere la contenzione e compete ai medici che si alternano nei turni e nelle guardie riconfermare la contenzione dopo valutazione e procedere all’annotazione in cartella clinica che serve (anche) per la dimostrazione degli elementi che portano allo stato di necessità;
  5. la prescrizione  della contenzione non è da considerarsi un “ordine gerarchico” rivolto agli infermieri dal medico;
  6. compete agli infermieri la verifica della correttezza della contenzione come obbligo giuridico e deontologico autonomo e diverso da quello del medico.



 
In assenza di questi presupposti la contenzione diventa abusiva e integra gli estremi del reato di sequestro di persona.
 
A fronte di questa ampia disamina non possiamo certo affermare di esser in presenza di un’analisi esaustiva.
 
L’analisi della Cassazione è limitata, infatti, alla contenzione meccanica in un contesto psichiatrico ospedaliero. Resta fuori dall’analisi la contenzione manuale, farmacologica e ambientale.
 
La contenzione manuale, pur essendo di breve, talvolta brevissima durata, è verosimilmente la più pericolosa e la più invasiva. La contenzione farmacologica sfugge spesso alle analisi, ma non è certo priva di pericolosità come alcune vicende recenti dimostrano. Meno problemi complessivi pone la contenzione ambientale. Si tratta di quell’insieme di ritenute di porte e finestre apposte in determinati ambienti residenziali e psichiatrici. Della contenzione ambientale troviamo traccia solo nel codice di deontologia medica.
 
L’analisi della Cassazione non entra inoltre – e non aveva motivo per farlo – nella contenzione nell’anziano e nei contesti residenziali che non è certo sempre sovrapponibile alla contenzione nei contesti psichiatrici avendo proprie peculiarità. In questi caso la mera trasposizione dei principi della Cassazione a impronta fortemente medico-centrica, nella decisione, rischiano di renderli inapplicabili.
 
Rimane inoltre scoperto l’utilizzo della contenzione negli ambienti intensivistici e nelle sale operatorie, altri setting che meritano un deciso approfondimento.
Deve essere approfondita la strada di emanare linee guida o, quanto meno, buone pratiche clinico-assistenziali, in ossequio alla legge c.d. Gelli per la regolamentazione professionale del fenomeno.
 
La vicenda Mastrogiovanni lascia in eredità insegnamenti importanti, pur nella estrema mitezza di pene irrogate, a fronte di un fatto – o di fatti – di estrema gravità che non fanno certo onore al Servizio sanitario nazionale.
 
Luca Benci
Giurista
 
 

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