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Contenere i pazienti è lecito? Il caso di Francesco Mastrogiovanni

di Luca Benci

La vicenda del maestro elementare, morto a 58 anni il 4 agosto 2009 dopo un ricovero in un Spdc in provincia di Salerno, è il simbolo di una cura psichiatrica premanicomiale o l’icona di una psichiatria attuale? E’ lo specchio di un mondo professionale e organizzativo che non cambia o un caso limite?

24 LUG - Ricordiamo la vicenda. Mastrogiovanni viene ricoverato a fine luglio del 2009 con trattamento sanitario obbligatorio in preda a “agitazione psicomotoria, alterazione comportamentale ed eteroaggressività”.
Viene prima sedato farmacologicamente (contenzione farmacologica) e successivamente anche meccanicamente attraverso “fascette dotate di viti di fissaggio applicate ai quattro arti e fissate alle sbarre del letto”. La contenzione viene effettuata con una inusuale motivazione: di polizia giudiziaria. Viene infatti richiesto un prelievo delle urine per “eseguire i prelievi richiesti dai carabinieri di Pollica finalizzati alla applicazione della sanzione amministrativa costituita dalla sospensione della patente”.  Una motivazione della contenzione di questo tipo non ha verosimilmente eguali.
 
Viene contenuto e cateterizzato. La contenzione “non viene annotata in cartella clinica, né mai lo sarà”.
Non viene alimentato, non viene idratato (nel reparto manca l’aria condizionata, è agosto e siamo in un paese dell’Italia meridionale) e dopo oltre 80 ore Franco Mastrogiovanni muore. Il tutto viene ripreso dalle telecamere della videosorveglianza (http://www.youtube.com/watch?v=JilhOC5XNrI) del reparto che testimoniano anche il momento presumibile del decesso scoperto però sei ore dopo dal personale.
Vengono condannati i medici per sequestro di persona dal Tribunale di Vallo della Lucania e vengono assolti gli infermieri.
 
La vicenda è stata ricostruita dettagliatamente nella sentenza dei giudici campani in 189 pagine di motivazioni.
Le motivazioni per la contenzione sono state spiegate nel processo dalla direzione sanitaria arrivando, in modo decisamente acrobatico, a equiparare il regime di ricovero in trattamento sanitario obbligatorio alla contenzione.  Tale assimilazione viene definita dal Tribunale campano giustamente “surreale, destituita di qualsiasi fondamento sia sul piano medico-scientifico che su quello giuridico”. Si ricorda che il principio cardine, comunque, dell’azione sanitaria è relativo alla volontarietà dei trattamenti e al recupero del consenso della persona.
I punti di interesse giuridico della sentenza sono molteplici.
Vediamone alcuni:  in primo luogo vi è una lunga analisi della liceità/illiceità dei mezzi di contenzione e della loro natura. Viene sposata dai giudici di Vallo della Lucania l’impostazione tradizionale dell’atto di contenzione come “atto medico prescrittivo di carattere prevalentemente terapeutico”. Due sottolineature quindi: necessità di prescrizione medica e atto terapeutico. Da tempo sono discusse entrambe con particolare riferimento alla illiceità tout court dei mezzi di contenzione stessi. Parte del mondo professionale e giuridico sostiene cioè la non aderenza ai principi costituzionali e professionali dell’atto di contenzione con la conseguenza del totale rifiuto dell’atto di contenzione come atto sanitario, terapeutico o assistenziale. L’altro punctum pruriens della situazione è la sua riconducibilità alla stretta decisione medica – atto medico quindi – o anche alla autonoma decisione infermieristica così come stabilito anche dal codice deontologico dell’infermiere che la ammette come “evento straordinario” sorretto non necessariamente da una prescrizione medica ma anche da “documentate valutazioni assistenziali” e quindi infermieristiche.
Il Tribunale di Vallo della Lucania come abbiamo detto rimane sulle impostazioni tradizionali e sposa il concetto di contenzione come atto medico e come atto non illecito se adeguatamente motivato, documentato e protocollato. In questi limiti se ne ammette la liceità.
La vicenda di Mastrogiovanni è realmente inspiegabile: anche ammettendo – e non vi sono assolutamente giustificazioni alla contenzione per l’effettuazione del prelievo per alcolemia e ricerca sostanze stupefacenti in modo coattivo – le ragioni iniziali della contenzione, non si comprende il motivo per cui una persona che appare in tutta evidenza dalle videocamere della sorveglianza, tranquilla, veda vedersi protratta la contenzione per oltre ottanta ore.
 
In assenza quindi di ogni causa di giustificazione giuridica e professionalesi è scelto di non curare e non assistere Mastrogiovanni bensì solo di legarlo. Una pratica che non possiamo che definire aberrante.
I giudici campani nel prosieguo della sentenza sembrano a un certo punto virare verso la illiceità della pratica contenitiva, sempre e comunque, affermando che i sanitari (rectius i medici) “non vantano né possono invocare l’esistenza di un diritto a contenere” e che “non è dato rintracciare la disposizione di legge che conferisca l’asserito diritto” arrivando però ad aprire, in generale, alla contenzione subordinandola all’insorgenza “di una situazione che richieda inderogabilmente una simile pratica”. Successivamente parlano di pratica “assolutamente ingiustificata” nel caso di specie.
La privazione della libertà personale ha portato quindi alla condanna i medici per il grave reato di sequestro di persona. Dolo professionale quindi e non colpa. Condanna difficilmente contestabile vista anche la ricostruzione della verità storica testimoniata dalle telecamere di sorveglianza.
Più complessa appare invece la causa della morte. Non è questa la sede per addentrarsi in un complesso ragionamento che porta il giudice ad argomentare per circa cento pagine. La conclusione è stata, anche in questo caso, di responsabilità: “la condotta dei sanitari è stata condizione necessaria dell’evento lesivo” superando le argomentazioni delle consulenze tecniche che sostenevano la c.d. “morte improvvisa” come causa della morte stessa.
Non sarà così facile nei gradi successivi di giudizio confermare questa impostazione e la condanna per il reato di morte come conseguenza di altro delitto.
 
Altro motivo di interesse è la  “posizione processuale degli infermieri”.Assolti in quanto il processo non ha “fornito la piena prova della penale responsabilità con conseguente insussistenza della loro colpevolezza”. Il fatto è facilmente riassumibile: gli infermieri hanno legato il paziente, in cartella clinica non esiste traccia di prescrizione, non vi erano particolari motivi per legare il paziente. Non esistono attività di assistenza né generica né qualificata nei confronti di un paziente contenuto per quasi quattro giorni.
Il tutto, anche in questo caso, testimoniato dalla videoregistrazione.
Emerge una arretratezza organizzativa e professionale difficilmente riscontrabile: le cartelle cliniche erano visionate e conservate solo dai medici e questo punto ha “salvato” gli infermieri ai quali, sostiene il tribunale campano, “è rimasto occulto il principale sintomo dell’illegittimità della pratica contenitiva.” Il tutto perché la “contenzione è atto medico”. Non esisteva una cartella infermieristica ma solo un registro di rapporti e consegne e nessuno, tra i turni infermieristici, ha mai ritenuto opportuno scontenere il paziente. Inoltre, sottolinea il Tribunale, di come nel dibattimento sia emersa “l’assoluta impreparazione degli infermieri rispetto alla contenzione” e gli stessi infermieri hanno dichiarato di non “avere mai svolto specifici corsi di aggiornamento sul punto”. Di conseguenza gli infermieri sono stati assolti in base alla norma di giustificazione (c.d. scriminante) prevista dall’art. 51 sull’adempimento del dovere dovuto a un ordine del superiore.
I giudici campani argomentano che gli infermieri hanno eseguito un ordine (la contenzione)  nel convincimento delle condizioni di necessità che tale misura in genere comporta. Inoltre la motivazione fa’ leva sulla diversità di status che a livello penale intercorre tra il medico pubblico ufficiale e l’infermiere incaricato di un pubblico servizio scordando che sottolineare che tale differenza di deve alla potestà certificativa e non determina necessariamente una sovraordinazione gerarchica.
 
Si possono ricavare insegnamenti generali dal grave caso in questionesulla responsabilità – o più precisamente – irresponsabilità infermieristica? Probabilmente non moltissimi stante la peculiare arretratezza organizzativa e professionale del gruppo infermieristico del reparto di psichiatria Vallo della Lucania. Rispetto a pronunce recenti ha funzionato una linea di difesa che prevede l’autoumiliazione professionale: l’infermiere non è competente, ubbidisce e ordini del medico, non documenta il suo operato, non comprende esattamente la portata delle sue azioni neanche quando lega un paziente già sedato.
Un quadro sconfortante non solo per la gravità della situazione – Franco Mastrogiovanni è morto e morto maltrattato in un reparto che doveva proteggerlo  - ma anche per la dichiarazione di irresponsabilità per un agire che professionale non si può definire, per una disattenzione costante delle problematiche assistenziali, per non avere esercitato anche una minima obiezione a operati medici che non è retorico definire criminosi e sanzionati come tali dai giudici campani.
In questi casi era possibile invocare vari aspetti per non adempiere alle non documentate decisioni mediche: la posizione di garanzia, lo stato di necessità, le pratiche obiettive. Non sono stati invocati.
Gli infermieri hanno avuto un comportamento assolutamente appiattito alle gravi decisioni/non decisioni mediche.
Una vicenda complessa che necessita di un ampio dibattito sulla natura delle pratiche contenitive, sulla loro necessità/non necessità, sull’approfondimento del fenomeno, sul comportamento del mondo professionale e delle sue rappresentanze istituzionali.
 
Per questo il 4 ottobre a Firenze verrà tenuta una giornata di studio– programma su www.lucabenci.it - in cui medici legali, psichiatri, giuristi e infermieri si confronteranno, a partire dal caso Mastrogiovanni e da quello più recente di Stefano Cucchi.
Il dibattito nel mondo professionale. Nei codici deontologici infatti – apripista sono stati gli infermieri ancora nel lontano 1999 – sono già  presenti norme sulla contenzione nel codice dei fisioterapisti: “La contenzione è una pratica clinica eccezionale che deve salvaguardare il rispetto della dignità e della libertà della persona. Nel caso di persone incapaci, ancorché non sottoposte a misure di sostegno giuridico, la contenzione deve proporsi l’obiettivo di tutelare la salute della persona e non può essere mezzo vicariante le carenze assistenziali dell’organizzazione.”
 
Anche la Fnmceo ha preannunciato una modificaal proprio codice deontologico introducendo all’articolo 51 il seguente comma: “La contenzione fisica, farmacologica o ambientale può essere attuata solo in condizioni particolari, per documentate necessità cliniche e nel rispetto della sicurezza e della dignità del soggetto.
Riconoscimento quindi delle pratiche contenitive – in precisati limiti - come attività sanitarie.
In conclusione ritengo di non dare una risposta alle gravi domande con cui ho iniziato questo articolo.
 
E’ il mondo professionale, in primo luogo, a dovere fornire gli elementi per una risposta alle gravi domande iniziali.
Il dibattito è aperto, quindi e ci si augura il più ampio, non reticente e costruttivo possibile.
 
Luca Benci
Giurista, professore a contratto presso l’Università degli studi di Firenze

24 luglio 2013
© Riproduzione riservata


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