Ciascuna colpisce una persona su 2000 e perciò sono dette malattie rare (parametro dell’Unione Europea), ma sono circa 6000 e in totale i malati in Italia sarebbero oltre un milione, in Europa trenta milioni. Non c’è solo la dimensione scientifica della ricerca e della clinica, con attenzione crescente in questi anni, ma anche quella sociale relativa alle problematiche per i pazienti e le loro famiglie, compresi i rivolti psicologici. Aspetti ancora poco analizzati ma cruciali, sui quali sensibilizza il primo studio dedicato a “Costi sociali e bisogni assistenziali nelle malattie rare”, presentato a Milano e realizzato dall’Istituto Affari Sociali (IAS, ora ISFOL) con Uniamo-Federazione Italiana Malattie Rare, Orphanet, Istituto Neurologico C. Besta di Milano, Farmindustria. Lo studio pilota ha riguardato 500 persone con malattie rare, undici quelle considerate, e loro famigliari; in metà dei casi la patologia insorge in età pediatrica e in un terzo circa nella prima infanzia, se non alla nascita per i difetti genetici. Un problema è il ritardo diagnostico: “In più del 50% si è avuta la diagnosi a oltre un anno dall’esordio dei sintomi, nel 18% oltre dieci anni dopo ma quest’ultimo dato è comunque molto ridotto rispetto a pochi anni fa” premette Amedeo Spagnolo, del’ISFOL. “Il 34% però ha ricevuto altre diagnosi prima di quella corretta e il 36% di questi addirittura dieci”. Il 43% ha subito ricoveri ospedalieri, anche lunghi, e il 40% interventi chirurgici, anche ripetuti; il 22% ha avuto bisogno di assistenza domiciliare e il 78% ha fatto richiesta di invalidità. Ancora, il 9% non aveva un centro clinico di riferimento, i cui operatori sono considerate principali figure d’aiuto, seguite da specialisti, associazioni e molto più distaccati i medici di famiglia. Da notare che non più del 56% è rimasto soddisfatto da come il medico ha comunicato la diagnosi e si è fatto carico dei problemi del malato e della famiglia.
Interessante la dimensione economica: “Il 16% delle famiglie è risultato al di sotto della soglia di povertà, dato più alto di quello dell’Istat, e il 19% sulla soglia per diventarlo: totale 35%” fa notare Spagnolo. Infatti le spese sono rilevanti: quelle legate alla diagnosi per il 23% delle famiglie erano fino a 500 euro al mese e per il 44% oltre i 1000 (c’è differenza tra prima e dopo 2001, anno del DM 279 sul regime di esenzione per le patologie rare indicate), quelle relative alla cura e all’assistenza per il 75% sono state fino a 500 euro e per il 18 tra 500 e 1000 euro; altri costi elevati risultano quelli per le trasferte (viaggio, alloggio, ecc). Tanto che il 20% delle famiglie ha dovuto chiedere aiuto finanziario, soprattutto ai parenti” specifica Simone Montagnoli, dell’ISFOL. Il 22% dei pazienti ha perso o lasciato il lavoro, il 12 l’ha cambiato o ha ridotto l’orario, il 20% non lavora; notevoli i disagi lavorativi per i familiari tantopiù per i pazienti pediatrici. “Nel 40% dei casi c’è stato bisogno di supporto nelle attività pratiche, in molti casi anche di supporto psicologico. E secondo il 50% dei pazienti maggiorenni la vita di relazione della famiglia è cambiata in peggio. La mancanza del supporto psicologico, svolto essenzialmente dalle associazioni, è una criticità del sistema. Ma complessivamente è il modello di presa in carica che è carente e lancia delle sfide che forse la ricerca può aiutare a cogliere e sviluppare”. Altra criticità assistenziale è per esempio la differenza Nord-Sud, basti dire che nel Meridione il 77% dei pazienti deve spostarsi dalla propria regione per raggiungere i Centri specializzati per queste malattie.
Informazione, creazione di reti, integrazione dell’assistenza sul territorio, supporti per le famiglie, sostenibilità sono tutti obiettivi perseguibili e perseguiti, in Italia (dove nel 2007 la Conferenza Stato-Regioni ha erogato 30 milioni di euro alle Regioni per l’assistenza per le malattie rare) come nel resto d’Europa; c’è anche un progetto europeo per raccomandazioni per i paesi membri. Tutto questo tenendo conto dei risvolti economici, non solo per i sistemi sanitari ma anche per le famiglie sulle quali grava gran parte del carico, vale a dire per il nostro paese soprattutto sulle donne: in proposito, in Italia sarebbero 13 milioni le donne “caregiver” che assistono famigliari malati o anziani e che in molti casi devono ridurre o lasciare il lavoro: potrebbe esserci un nesso con il dato dell’occupazione femminile quasi in fondo alla classifica europea.
Elettra Vecchia