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QS Edizioni - sabato 4 maggio 2024

Governo e Parlamento

Stabilità. Perché l’Italia (ma non solo lei) decide di abbassare i finanziamenti alla sanità?

di Fabrizio Gianfrate
immagine 11 novembre - Avviene in Italia ma anche in UK o Germania, Spagna, Francia, Canada, Australia, Giappone. Le motivazioni sono allora strategiche. Imperniate su due tendenze crescenti in molti dei Paesi avanzati. Una macroeconomica, l’altra socioculturale, entrambe supportate da tattiche contingenti di casa nostra
“I mangiatori di spade sono degli imbroglioni, per inghiottire la spada usano un trucco: prima ingoiano il fodero!”. La sottile battuta di Groucho Marx calza a pennello su come il Fondo Sanitario Nazionale è trattato nella Legge di Stabilità: più 1,3 miliardi, meno 2,1; uno in più del 2015 (per gli italiani), due in meno sul DEF (per l’EU). E tra 2017 e 2019, 17 miliardi in meno alle Regioni, buona parte dalla sanità. Un finto trucco, quindi non un trucco, un falso illusionismo, che quindi è reale.
 
Il FSN è un settimo della spesa pubblica alla quale però “paga” più del doppio della sua “spending review”, un terzo circa, senza parlare di quei tagli alle Regioni nel biennio a venire. FSN, ricordiamolo, già sotto finanziato rispetto ai maggiori Paesi OCSE, con l’Italia dalla quota di anziani tra le maggiori al mondo, a raddoppiare nel ventennio futuro la quota di PIL necessaria.
 
Eppure il legislatore decide alla fine d’intervenire restrittivamente. Avviene in Italia ma anche in UK o Germania, Spagna, Francia, Canada, Australia, Giappone. Le motivazioni sono allora strategiche. Imperniate su due tendenze crescenti in molti dei Paesi avanzati. Una macroeconomica, l’altra socioculturale, entrambe supportate da tattiche contingenti di casa nostra.
 
La prima tendenza, macroeconomica, comune a diversi Paesi OCSE, legge la sanità come spesa prevalente per gli anziani, la parte della società che “costa molto e non produce PIL”. La supremazia degli obiettivi economici spinge in diversi Paesi Governi di destra e di sinistra (o sedicenti tali) a spendere in aree più produttive. Infatti, “meglio meno Imu sui macchinari imbullonati che più risorse alla sanità” racconta la legge di stabilità. Non è una battuta alla Jannacci ma è proprio quanto prescrive la legge.
 
Sono scelte tese a competere economicamente sui mercati globali con quei Paesi emergenti a basso costo di manifattura che fanno proprio del “damping” sociale e produttivo i loro punti di forza (con buona pace di Marx, l’altro, Karl, quello de “Il Capitale” e della lotta di classe). È quello che gli elettori desiderano dai loro eletti? Probabilmente sì, se ragioniamo sulla seconda tendenza, quella socioculturale.
 
È quella del sentire comune individualista e aggressivo ormai maggioritario e pervasivo nella nostra società. Lo storico carattere solidaristico del SSN non rispecchia più la nostra società, quello che siamo diventati. Un “mood” individualista che annulla quel senso di appartenenza che era storico sostegno politico alle tradizionali politiche di welfare. Emblematico in tal senso la scelta di tagliare la Tasi a spese, di fatto, del ridotto aumento alla sanità: “meglio meno Tasi per me che più sanità per tutti” reclama l’elettore medio, infatti intercettato astutamente dal legislatore al Governo nella, già citata, legge di stabilità.
 
Complesse le ragioni di questa mutazione antropologica degli ultimi vent’anni. Hanno giocato un ruolo di rilievo sia una spinta socio-politica divisiva in alcune aree “ricche” del Paese sia l’imporsi mediatico di modelli di riferimento comportamentale individualistico-competitivi basati su superficialità estetica e banale aggressività interessatamente indotti. Variabili rese più forti e incidenti dalla lenta ma progressiva riduzione del ruolo virtuoso dei tradizionali strumenti di crescita culturale e civica, dalla scuola alle variegate aggregazioni civiche.
 
Sono poi favorenti alle politiche di taglio alcuni corollari propri di casa nostra. Il Governo può accollare alle Regioni le conseguenze operative e fiscali delle sue scelte, Regioni rese più indifese anche dall’impopolarità dell’endemico malaffare.
Pesa poi la ridotta forza degli operatori, litigiosi tra loro come capponi manzoniani, un “divide et impera” vantaggioso per chi comanda, pure nel già generale indebolimento del lavoro dipendente e del sindacato.
Non ultimo contribuisce il relativo incentivo alla spesa privata conseguente i tagli alla pubblica: l’iniquità per reddito derivante è in buona misura ormai equiparabile dato l’elevato livello raggiunto da ticket e compartecipazioni alla spesa nel SSN.
 
Insomma, la tendenza generale a ridurre la spesa sanitaria pubblica risponde non tanto e non solo a esigenze esogene di bilancio, come le richieste EU, ma anche a scelte macroeconomiche “anti-welfaristiche” di (presunta) competitività e, più in profondità, a richiami endogeni di ben definite preferenze collettive di convivenza civica divisive e individualistiche.
 
Uno scenario hobbesiano in cui, pur nonostante i crescenti bisogni sanitari, non deve quindi stupire il ridimensionamento del welfare sanitario. Insomma, dei due Marx, Groucho e Karl, trova asilo solo il primo. Anche se da ridere, francamente, ce n’è ben poco.
 
Prof. Fabrizio Gianfrate
Economia Sanitaria
11 novembre 2015
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