ll fumatore incallito ammalatosi e poi morto di cancro ai polmoni – prima della conclusione della causa - non ha diritto ad alcun risarcimento da parte della multinazionale del tabacco e dei Monopoli dello Stato.
Confermando così il giudizio del Tribunale e della Corte d’Appello che avevano bocciato la richiesta ritenendo il vizio del fumo “un atto di volizione libero”.
La Cassazione (sentenza n. 11272/2018 della terza sezione civile) ha respinto il ricorso contro le aziende produttrci e il ministero della Salute. Per la Cassazione che il fumo sia dannoso è un fatto notorio dagli anni 70, non vale neppure l'accusa del ricorrente alla casa produttrice di aver inserito nelle sigarette delle sostanze che danno assuefazione, perché secondo i giudici non annullano la volontà.
Danno escluso per il ricorrente, ancora di più perché tabagista incallito, che aveva iniziato a fumare da ragazzo (due pacchetti di Malboro al giorno) quando ancora non c'erano le avvertenze sulla nocività del “vizio”. L'accusa del ricorrente al ministero della salute era di non aver vigilato sulla salute pubblica obbligando le multinazionali e lo stato da offrire un prodotto più “naturale”.
Il fatto
Il ricorrente aveva cominciato da giovane a fumare due pacchetti di sigarette al giorno e questa abitudine aveva determinato la formazione di un carcinoma al lobo inferiore del polmone sinistro. La sua dichiarazione è stata di aver cominciato a prendere coscienza dei rischi legati al fumo solo dopo i primi sintomi della malattia e avrebbe provato a smettere di fumare, senza riuscirci per il forte bisogno di sigarette.
Successivamente, una volta appurata la sua condizione fisica e dopo che i medici lo avevano ben edotto sulle conseguenze a cui stava andando incontro, aveva smesso di fumare, ma ha anche imputato ai produttori delle sigarette la causa della sua condizione, affermando che nel prodotto sarebbero state inserite sostanze “tali da generare uno stato di bisogno imperioso con dipendenza fisica e psichica tali da indurlo a diventare un tabagista incallito”.
Per queste ragioni ha citato in giudizio il monopolio di Stato, i produttori delle sigarette e il ministero della Salute per aver omesso di salvaguardare la salute pubblica non obbligando le multinazionali e lo Stato stesso a offrire un prodotto più naturale, privo di rischi per la salute e di quelle sostanze che producono assuefazione.
Aveva anche chiesto che fosse accertato e dichiarato che le sigarette da lui fumate contenevano sostanze nocive all'organismo che procuravano nel tempo assuefazione e per questo che fosse accertato e dichiarato che lui non aveva mai prestato un libero consenso acquistando le sigarette, ma di essere stato “viziato e carpito dai convenuti con raggiri e dolo”. Aveva infine chiesto che fosse accertato il nesso di causalità tra il carcinoma e il fumo costante di sigarette e che quindi fossero condannati i soggetti da lui accusati al risarcimento del danno subito.
La sentenza
Prima il Tribunale, poi la Corte di Appello hanno respinto la richiesta per “insussistenza del nesso di causa fra le pretese condotte illegittime dei convenuti ed il danno, alla stregua dell'individuazione del principio di diritto della causa prossima di rilievo”.
Secondo la Corte la dannosità del fumo costituisce da lunghissimo tempo un dato di comune esperienza perché anche in Italia era conosciuta dagli anni 70 la circostanza che “l'inalazione da fumo fosse dannosa alla salute e provocasse il cancro, poteva ritenersi un dato di comune esperienza. Campagne pubblicitarie promosse da organizzazioni non lucrative lanciarono in quegli anni moniti di qualche risonanza”.
La Corte quindi ha ritenuto che la circostanza che il fumo faccia male alla salute è un fatto socialmente notorio, anche se per ragioni culturali, sociali o di costume il vizio del fumo era più accettato.
E la Corte ha sostenuto anche che la nicotina non può annullare la capacità di autodeterminazione del soggetto ‘costringendolo’ a fumare, senza possibilità di smettere, dai due ai quattro pacchetti al giorno.
La Cassazione dà ragione alla Corte di Appello e nella sua sentenza sottolinea che “nell'accertamento della responsabilità civile il primo presupposto da verificare è l'esistenza del nesso eziologico tra quello che s'assume essere il comportamento potenzialmente dannoso e il danno che si assume esserne derivato. Una volta verificato che il nesso non sussiste non ha più rilevanza né l'accertamento di un'eventuale colpa, né l'accertamento di una eventuale responsabilità cd. speciale (con tutto quello che ne consegue in ordine all'inversione dell'onere probatorio)”.
E ha giudicato il vizio continuato “un atto di volizione libero, consapevole ed autonomo di soggetto dotato di capacità di agire, quale, appunto, la scelta di fumare nonostante la notoria nocività del fumo”.
In ogni caso secondo la Cassazione, tutti i motivi del ricorso “sarebbero ugualmente inammissibili in quanto volti ad ottenere una nuova e diversa valutazione dei dati processuali e a contestare sul piano meramente fattuale - al di là della veste formale conferita alla censura - il contenuto della motivazione della sentenza di appello che appare, di converso, immune da vizi logico-giuridici”.
Quindi la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nei confronti dei produttori delle sigarette …. e al pagamento delle spese anche nei confronti dell'Agenzia dei Tabacchi e dei Monopoli.