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QS Edizioni - lunedì 29 aprile 2024

Lettere al Direttore

Medici e infermieri. Stavolta non sono d’accordo con Cavicchi

di Marcella Gostinelli
22 aprile - Gentile Direttore,
le scrivo a seguito degli ultimi articoli del Prof. Cavicchi sul rapporto medici e infermieri e sulle soluzioni per risolvere l’attuale situazione di crisi. Sono d’accordo con tutte le premesse che Cavicchi fa e proprio per questo non capisco le sue conclusioni: “governo clinico al medico e gestione integrata della cura all’infermiere”. Percepisco queste conclusioni come il tentativo, benevolo, impegnato e serio, di una mediazione che, a mio umile avviso, non aiuta, come vorrebbe, a cambiare davvero. I medici e gli infermieri non dovrebbero essere “accontentati”, ma dovrebbero potersi comprendere, avendo cura gli uni degli altri ed il sistema di loro. Cercherò di spiegarmi meglio di seguito.
 
Se si accontenta il medico dandogli, come dice Cavicchi, “la titolarità incondizionata del governo clinico”, perché la vuole, l’infermiere rinuncia ad una parte del suo potere di governo, il governo della cura infermieristica, per assumere la gestione di ciò che cura e non cura; cosi accettando, l’infermiere diviene gerente, quindi amministratore di qualcosa per conto di altri, senza nessun governo del proprio. La questione che non mi torna è dunque fra la perdita di governo e la presa della gestione. Nelle conclusioni di Cavicchi, se ho capito bene, l’infermiere, nella clinica non sceglie perché la clinica è medica, rinuncia alla scelta per ricevere, non scegliere, il potere della gestione di ciò che cura e non cura. In funzione del coinvolgimento (engagement), nell’accordo che si dovrebbe fare, verrebbe stabilito (QS, 7 aprile 2015) ciò che sarebbe esclusivo del governo clinico, ciò che sarebbe esclusivo della gestione della cura e ciò che sarebbe comune ad entrambi.
 
Il governo della cura infermieristica, e quindi di tutta quella cura clinica che non richiede la cognizione medica dove si potrebbe collocare? Nel governo clinico no, perché qui si richiede una cognizione medica, nella gestione no, perché qui  si richiede una cognizione che cura l’ordine ,l’amministrazione, ma non la clinica , negli spazi comuni no, perché mancherebbe, in questo spazio,  il governo infermieristico;  quindi,  anche con il presupposto accettato del coinvolgimento, l’infermiere  non avrebbe il potere di governare la clinica infermieristica neanche negli spazi comuni.Il presupposto del coinvolgimento reciproco,richiesto da Cavicchi, in una cultura organizzativa ancora a dominanza medica, almeno nei simboli e negli artefatti,  è da ricercare e quindi da volere e da creare;  sappiamo però  che il coinvolgimento ha lo scopo di creare legami forti che per essere tali richiedono tempo, ascolto, discussione ed analisi.Ottenuto il legame forte, o ammettendolo come presupposto già presente, il governo della cura infermieristica andrebbe comunque richiesto al medico e da questi concesso in uno spazio comune. Queste le mie perplessità.
 
Io non sono un’infermiera integralista, nel senso che non ho mai creduto che la professione infermieristica divenisse professione intellettuale rendendosi autonoma in maniera assoluta dalla professione medica, ma che lo diventasse con la conquista della possibilità di scegliere. Sono perfettamente consapevole che esiste un’area di dipendenza dal medico, che si evidenzia meglio con l’instabilità clinica del malato , che richiede un’azione subordinata alla cognizione medica e quindi ad una prescrizione, ma sono anche consapevole che esistono  aree come quella della “comprensione da parte del malato della propria  malattia o salute”, quella della sua “scelta comportamentale conseguente”  e quella  della “capacita e possibilità di azione autonoma del malato”( A.Silvestro e coll, La complessità assistenziale, MC Graw Hill,?), nelle quali l’infermiere, attraverso interventi educativi,  la presenza attenta e la supervisione scrupolosa e con metodo clinico può essere autonomo e scegliere. Inoltre, nelle fasi non liminari, prima della malattia e dopo la malattia, l’infermiere potrebbe governare processi di accoglienza capaci di determinare interventi strategici, di orientamento, di approccio proattivo alla malattia, di diagnosi di un bisogno di autocura, culturale, infermieristico non percepito e non espresso. Quindi non è una perdita da poco quella del potere politico strategico della clinica infermieristica. Forse sbaglio nel credere che la clinica non è sia solo medica?  L’infermieristica è  una scienza umanistica, pratica, prescrittiva, il cui metodo clinico è ipotetico-deduttivo, dialogico-strategico; inoltre, il processo di cura infermieristica si determina in due fasi importanti che sono la diagnosi e  la pianificazione degli obiettivi con  la valutazione dei risultati; fasi che con la gestione infermieristica della cura sarebbero sicuramente ordinati e giusti nella loro esecuzione, perché gestiti , ma che perdendo il potere del governo infermieristico perderebbero il valore sovraordinato del “bene” , dell’etica della cura ,che non è solo ordine e giustizia, divenendo pura amministrazione.
 
Tutto ciò che l’infermiere può fare si evidenzia poco e solo in alcune realtà, è vero, ma questo è quanto potrebbe determinarsi e questo è quanto dovrebbero ricercare, Ipasvi e sindacati insieme, incontrandosi. Questa, secondo me è la postausiliarità. Perché rinunciarci? Gli infermieri debbono, perciò e finalmente, poter diagnosticare e curare con l’etica della cura individuando ed esercitando poteri, politiche e mezzi necessari per poterlo fare sia in ospedale che nella comunità supportati da Oss (operatori socio sanitari) e continuare a supportare la diagnosi e la cura medica, supportati entrambi da Oss.  Senza questa condizione teorico- pratica , chiara e inequivocabile, gli infermieri non possono scrivere alcun documento o patto che non  penalizzi loro stessi  e la loro opera. Mediando i poteri dei professionisti della salute, nello stato attuale, senza che prima, questi, abbiano avuto cura di loro stessi, non riusciremo a cambiare come vorremmo. Il malato chiede che il sistema dimostri di aver cura di chi lo cura e che questi abbiano cura di loro stessi.
 
Il tema della cura nel nostro sistema non viene proprio affrontato, quasi come se la questione della cura fosse marginale. In realtà è un’attività importante che riguarda ogni aspetto del nostro vivere insieme.Socrate, nel pensiero filosofico greco, rimprovera Alcibiade, un giovane che ambiva a diventare governante, di non aver abbastanza cura di sé.Alcibiade, ambizioso, allora gli chiede in cosa consista aver cura di sè. Socrate risponde che l’aver cura è prendersi cura dell’anima, facendogli intendere che è un’azione che riguarda la nostra parte spirituale innanzitutto e non solo l’accudimento del corpo appunto, ma prendersi cura della sostanza nella quale noi esseri umani ci identifichiamo. Nel 1927 Heidegger racconta una favola, la favola della cura, dove la cura medesima viene narrata come l’azione, l’atto di una persona che impasta l’argilla, l’atto di qualcuno che dà una forma e che soprattutto agisce. (Luigina Martori, 2015). La cura è dunque anche un concetto pratico: impasta, agisce e dà una forma. Se questo è un senso possibile della cura possiamo dire che fra medici e infermieri, fra il sistema ed i suoi professionisti c’è una frattura perché c’è una mancata presa in cura gli uni degli altri. La cura crea sempre autocura o cura sui e proprio per questo sbroglia libera le potenzialità dei soggetti.
 
Suggerirei, quindi, agli infermieri di ritrovarsi in spazi di discussione dove  potranno mettere ordine alle loro cose e prendersene cura ; successivamente mi piacerebbe che incontrassero in altri spazi di discussione i loro colleghi medici, i quali si sono incontrati prima in altri spazi a loro volta,  ed insieme decidessero, contesto per contesto, cultura organizzativa per cultura organizzativa, i loro artefatti, i loro linguaggi, i modi ed i tempi delle loro reciproche autonomie in attività situate quotidiane, realizzando  insieme organizzazioni interconnesse . Dentro queste organizzazioni proporrei quello che G.Devereux in Francia definì il metodo complementarista.
 
Per ora vi dico solo che è un metodo, ma anche la posizione interiore di colui che ascolta, non esiste in questo metodo la necessità di avere un governo unico,  ma situazioni di grande pluralità culturale dove ognuno è autorevole non di per sé, ma grazie al’altro che riconosce e rispetta come altro da sé.
 
Marcella Gostinelli
Infermiera
22 aprile 2015
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