toggle menu
QS Edizioni - martedì 30 aprile 2024

Lettere al Direttore

Vaccini. Gli infermieri, le punizioni e gli obblighi

di Marcella Gostinelli
8 maggio - Gentile Direttore,
le scrivo per esprimere un mio parere sulla questione dei vaccini e sui doveri degli infermieri. Premetto che io non sono contro i vaccini e quindi contemporaneamente sono favorevole alle vaccinazioni, non di massa, ma previa personalizzazione della profilassi, in particolare quando non vi siano stati di urgenza- emergenza.

Non sconsiglierei mai di fare una vaccinazione ritenuta necessaria e accettata da un cittadino che si presenta per farla , e dunque protocollata ,e non perché protocollata o perché questo atteggiamento è oggi punibile ,o perché io pensi che vaccinarsi sia bene,ma perché ritengo che “sconsigliare” non sia la cosa giusta, mai.

Allo stesso modo non obbligherei chi pensa di non doversi vaccinare, senza prima capire il perché di quella scelta e senza prima aver provato a persuaderlo. Sono convinta che infermieri esperti abbiano strumenti formativi, conoscitivi ed attuativi necessari per decodificare un sintomo,un malessere o un atteggiamento, una decisione, una opinione altrui che siano fuori da un protocollo di cura e che per questo siano anche capaci di interpretarlo, rendendolo chiaro e comprensibile al sistema di cura ed alla persona stessa che lo porta.
 
La prevenzione, la salute, la malattia, la cura, la guarigione, sono processi culturali complessi che vanno oltre il mero raggiungimento di un obiettivo terapeutico inteso in termini biomedici; eredità di una concezione riduzionistica e dicotomica dell’essere umano .

L’antropologia medica prima e la scienza transculturale poi ci insegnano che la malattia non è mai una realtà oggettiva in sé, separata da chi ha quella malattia, come vorrebbe la biomedicina; sappiamo bene che la malattia non è una entità da studiare separatamente dal soggetto che ne fa esperienza, come qualcosa a se stante. Arthur Kleinman (psichiatra professore di antropologia medica all’università di Harvad) scrive che in realtà la malattia è “ la presenza in una vita o in un mondo sociale”, cioè è un aspetto vitale e il suo significato è molto più ampio di quello puramente fisiologico e include una pluralità di fattori legati anche al significato culturale che si da alla medicina attuale e alla prevenzione delle malattie, all’esperienza che si fa, da sani e da malati, nell’attuale paradigma medico. Pertanto, non è possibile separare la malattia dai processi sociali della persona che ne fa esperienza, o che tenta di prevenirla o curarla, in quanto essa e il suo significato sono profondamente introiettati.

A seguito di queste considerazioni e riflessioni credo che sarebbe utile ed opportuno che gli infermieri, quelli esperti in assistenza transculturale, venissero impiegati per conoscere i modelli esplicativi di salute e malattia della propria comunità. Occorrerebbero servizi di accoglienza di 2 livello nella comunità,gestiti e governati da infermieri esperti, per capire cioè quanto i modelli di elaborazione cognitiva o le modalità di percepire le vaccinazioni, la prevenzione, e la cura quindi, differiscano da quelli scientificamente accettati; con la competenza nella comunicazione interpersonale, acquisita con lo studio della scienza transculturale, avvicinare poi “la cultura popolare, familiare (ilness) all’ambito specialistico e scientifico della pratica medica professionale (desease)”, (Cristina Balestri, 2010). In sostanza, gli infermieri esperti dovrebbero avvicinare due linguaggi apparentemente antitetici, l’uno teorico-razionale l’altro concreto e personale, rendendoli possibili.
 
L’infermiere di comunità avrebbe in questo momento il compito di indagare e problematizzare le condizioni sociali che sono alla base di atteggiamenti contrari alle vaccinazioni, attraverso l’assistenza narrativa o strumenti di tipo antropologico come la griglia di Helman. Occorre, cioè, che qualcuno indaghi sulle cause sociali, politiche, emotive, culturali di certe opinioni fuori dai “protocolli” e le rimuova attraverso vicinanza, comprensione e sviluppo di fiducia, rivisitando perciò ed anche il concetto di efficacia terapeutica.
 
La metodologia transcultura non dovrebbe servire solo per attraversare le culture degli immigrati, ma le culture e le subculture di cui tutti siamo portatori, e penso anche alla utilità di questa metodologia in ambito oncologico e non solo.

Inoltre, concludo dicendo che invece di punire i professionisti medici o infermieri che si mostrano riflessivi circa la vaccinazione di massa indiscriminata, dovremmo innovare la gestione del personale, attraverso il diversity management, imparando a gestire cioè le diversità per conoscere cosa ci allontana dall’atteggiamento scientifico e se davvero ci allontana. Dovremmo, perciò, cambiare anche i modelli organizzativi ed assistenziali e riconoscere davvero la natura relazionale dell’assistenza e della cura più in generale.

Punendo ed obbligando soltanto non si rivedono le nostre e le altrui dinamiche etnoassistenziali, non si rendono coscienti i cittadini sul significato delle vaccinazioni e la risposta al significato dato è un fenomeno complesso e non richiede per essere compreso un pensiero mediocre.

Marcella Gostinelli,
Infermiera Master in Assistenza transculturale
8 maggio 2017
© QS Edizioni - Riproduzione riservata