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QS Edizioni - sabato 18 maggio 2024

I migliori progetti di ricerca. Dalle malattie metaboliche ai tumori, passando per l'invecchiamento attivo

21 maggio - ►Nutrizione e malattie metaboliche. Risultati preliminari suggeriscono che una dieta ad alto indice glicemico, inattiva in parte l’insulina con aumentato rischio di obesità, diabete e iniziali deficit cognitivi. 
Si è ormai consolidata l’idea che le calorie non sono tutte uguali e che, a parità di apporto calorico, diversi nutrienti hanno differenti effetti sull’organismo e sul suo stato di salute a breve e lungo termine. Dati preliminari di studi in corso presso Università Cattolica e Gemelli di Roma, per esempio, suggeriscono che una dieta ad “alto indice glicemico” (ovvero ricca di carboidrati rapidamente assorbibili, come le bevande zuccherate, bibite e succhi di frutta, o i dolci che fanno salire rapidamente la glicemia, zucchero nel sangue, e quindi provocano brusche oscillazioni glicemiche) può causare una condizione di parziale inattivazione dell’insulina (ormone che regola la glicemia), con conseguente incremento del rischio di obesità, insulino-resistenza, diabete e iniziali e precoci specifici deficit cognitivi, spiega Andrea Giaccari, Dirigente Medico Endocrinologia e Malattie del Metabolismo del Policlinico A. Gemelli (UOC). Le conclusioni ottenute in questi anni di ricerca in questo campo sono state possibili grazie all’aggregazione delle competenze di ricercatori provenienti da campi anche molto diversi fra loro, e proprio la multidisciplinarietà degli studi condotti (molecolare, clinica, epidemiologica) ne rappresenta l’unicità ed il valore aggiunto.
Dello stesso parere è Claudio Grassi, Direttore dell’Istituto di Fisiologia Umana della Cattolica, che collabora con diversi ricercatori in più ambiti e discipline: “con la biochimica clinica stiamo arruolando tutte le persone che per vario motivo eseguono una curva glicemica, un esame che vede come oscilla nel tempo la glicemia in risposta a ingestione di zucchero. Ogni singolo paziente compila un complesso questionario che ci permette di sapere l’esatta composizione della sua dieta ed esegue una serie di test cognitivi”.
Da risultati preliminari sembra che le persone che seguono una dieta ad alto indice glicemico abbiano già piccoli deficit cognitivi (di grado subclinico, ovvero “ai limiti della norma”). Contestualmente, Grassi sta validando l’ipotesi su diversi modelli sperimentali, cosa che permetterà anche di capire i possibili meccanismi molecolari coinvolti.
Per valutare se i processi molecolari indotti da una dieta ad alto indice glicemico siano in qualche modo riconoscibili con un semplice prelievo di sangue attraverso la ricerca di particolari biomarcatori, alcuni pazienti saranno nuovamente visitati. Ciò permetterebbe dei test di diagnosi precoce atti a fermare il deterioramento cognitivo dieta-dipendente.
“Il nostro Ateneo - spiega Giaccari - sta sviluppando ricerche su come l’organismo umano sia in grado di difendersi da un'alimentazione non corretta e come questa capacità vari da individuo a individuo. Non a caso, anche a parità di fattori di rischio (ad esempio condizione di obesità) solo alcune persone sviluppano alterazioni metaboliche che portano al diabete.
Nutrizione e malattie infiammatorie: L’obesità è uno ‘stato infiammatorio cronico’ che porta con sé il rischio di molte gravi malattie non solo di tipo infiammatorio ma anche degenerative: i ricercatori della Cattolica di Roma sono attivissimi negli studi volti a scoprire i meccanismi molecolari che mediano l’azione infiammatoria dei chili di troppo. Queste ricerche hanno permesso anche di studiare quali sono i cibi con proprietà antinfiammatorie e antiossidanti che è più opportuno assumere e di dimostrare che malattie anche gravi come l’artrite reumatoide migliorano con il calo di peso, modificando alcuni biomarcatori specifici della obesità e della infiammazione legati all'obesità. I ricercatori hanno anche stilato un decalogo alimentare contro le malattie reumatiche.
“L’incidenza delle malattie infiammatorie e, di quelle degenerative, è in progressivo aumento nel mondo occidentale, di pari passo con l’aumento di obesità e sovrappeso nella popolazione generale, dovuto anche ad uno squilibrio nutrizionale sia quantitativo che qualitativo”, spiega Elisa Gremese, del Dipartimento di Scienze Mediche del Gemelli. Lo stretto legame fra obesità e malattie infiammatorie è dato dal fatto che l’obesità è ormai riconosciuta come una condizione di infiammazione cronica, in quanto il tessuto adiposo, al pari di un organo endocrino, produce molecole coinvolte, oltre che nei processi metabolici, nei processi infiammatori cronici ed immunitari (“meta-infiammazione”). Diverse evidenze sostengono il fatto che l’obesità sia un fattore di rischio per molte malattie infiammatorie e autoimmuni, in termini di incidenza, gravità di malattia e outcome, nonché per il rischio cardiovascolare globale che ne consegue.
Inoltre, dati preliminari mostrano che il solo calo ponderale in pazienti obesi con artrite reumatoide in fase di attività moderata, sottoposti a regime dietetico adeguato senza modificazioni della terapia di fondo, comporta un miglioramento dell’attività di malattia e dell’infiammazione sistemica, consensualmente al calo di peso.
È importante, dunque, privilegiare cibi utili oltre che a dimagrire anche a proteggere dal rischio infiammatorio e vascolare quali quelli ricchi in sostanze antiossidanti (pesce, olio extravergine di oliva, ciliegie, broccoli, latticini, tè verde, pane integrale, ananas, aglio, nocciole: Decalogo alimentare per i pazienti reumatici come suggerito dalla Arthritis Foundation - US).

Obesità e salute del cuore - l’infiammazione gioca un ruolo centrale nello sviluppo dell’aterosclerosi e di conseguenza delle malattie cardiovascolari, che rappresentano la maggiore causa di mortalità a livello globale. “Numerosi studi del nostro ateneo – Gremese - si sono focalizzati sui rapporti tra obesità, ed in particolare l’obesità severa, e malattie cardiovascolari, mostrando che i ‘grandi obesi’ hanno più infiammazione di obesi e sovrappeso ma diversa attivazione del sistema immune, hanno più cellule progenitrici endoteliali nel sangue (cellule con potenziali capacità ‘riparatorie’, verosimilmente prodotte in modo compensatorio) e risulterebbero quindi parzialmente protetti negli effetti vascolari a medio termine”. Che l’obesità rappresenti però un fattore di rischio è supportato da altro studio dei ricercatori della Cattolica che hanno osservato come un calo ponderale significativo dopo chirurgia bariatrica nei ‘grandi obesi’ favorisca un rimodellamento cardiaco positivo.

I rapporti tra nutrizione e rischio cardiovascolare sono influenzati in modo importante anche dal transito dei nutrienti nel tratto gastroenterico. Altri studi hanno dimostrato che la permeabilità intestinale aumenta nei soggetti con aterosclerosi coronarica e/o infarto suggerendo una correlazione tra i due fenomeni e rafforzando l’ipotesi di un ruolo centrale della nutrizione e delle patologie dell’alimentazione nella patogenesi dell’infiammazione vascolare. I risultati prodotti dai ricercatori dell’UCSC hanno quindi dimostrato che il quadro fisiopatologico nel quale si muovono i rapporti tra alimentazione e cuore sono più complessi del semplice aumento di tessuto adiposo, ma coinvolgono fenomeni come l’infiammazione sistemica e locale, le cellule progenitrici endoteliali, la qualità della alimentazione e l’integrità della barriera intestinale. Le ulteriori ricerche in corso su questi aspetti possono pertanto portare all’individuazione di nuovi importanti obiettivi terapeutici che hanno come oggetto fattori protettivi generati dal tessuto adiposo e la preservazione dell’integrità della barriera intestinale.

E non è tutto, continua Gremese: risultati di una ricerca preclinica condotta dalla nostra Università sulle malattie infiammatorie croniche intestinali mostrano il ruolo di squilibri di specifici nutrienti come il magnesio. Una carenza di magnesio, oligominerale implicato fisiologicamente nella regolazione di processi infiammatori e autoimmuni, accentua la gravità della malattia di Crohn, caratterizzata a sua volta da bassi livelli di magnesio nel sangue. L’integrazione di magnesio con la dieta può attenuare l’attività della malattia.
Ricerca oggetto di crescente interesse è lo studio del microbiota intestinale, flora batterica, implicato anche nelle malattie infiammatorie croniche. Studi preliminari che coinvolgono diversi gruppi di ricerca dell’UCSC, e che utilizzano le più moderne tecniche disponibili nella valutazione della composizione del microbiota, mostrano che pazienti con patologie simili (ad esempio le malattie infiammatorie croniche intestinali) hanno una peculiare composizione del microbiota e ulteriori studi sono indirizzati a valutare come questo possa influenzare il decorso della malattia e la risposta alle terapie. In questo campo, la conoscenza sempre più approfondita delle popolazioni batteriche che colonizzano l’apparato intestinale umano può portare alla possibilità di modularne in maniera precisa la composizione, tramite la dieta o l’utilizzo di pre o pro-biotici, intesi a selezionare un microbiota «sano» che possa contribuire attivamente alla salute dell’uomo.
La comprensione dei meccanismi fisiopatologici alla base dell'interazione tra nutrizione, obesità, infiammazione e malattia appare quindi di massima importanza per migliorare i risultati nei pazienti con patologie infiammatorie e degenerative e per definire nuove strategie di intervento per ridurre l’impatto e la progressione di tali patologie.

Nutrizione e longevità. Nel piatto i segreti dell’active ageing (invecchiamento attivo). I ricercatori al lavoro in un ampio progetto europeo contro fragilità dell’anziano e sarcopenia: esercizio fisico, intervento nutrizionale personalizzato e l’utilizzo di specifiche soluzioni tecnologiche, il mix per contrastarle con successo. Una ricerca della Facoltà di Medicina e Chirurgia della Cattolica evidenzia che 1 anziano su 3 si alimenta male e mangia anche cibo scaduto: l’importanza di programmi di educazione alimentare per tutte le età.
Nei cibi si nascondono i segreti della longevità; capire quali siano i nutrienti che rallentano i naturali processi dell’invecchiamento è dunque un obbiettivo fondamentale della ricerca sui processi fisiologici e patologici della senescenza. I ricercatori dell’Università Cattolica di Roma hanno sviluppato specifiche linee di ricerca sull’impatto della dieta su muscoli e cervello, organi fondamentali per invecchiare in salute.
“Le carenze nutrizionali e una non corretta alimentazione associate a una ridotta attività fisica - spiega Francesco Landi del Dipartimento di Geriatria, Neuroscienze e Ortopedia del Policlinico A. Gemelli - possono essere la causa dell’insorgenza di fragilità fisica e cognitiva durante l’invecchiamento.” Come contrastare: con attività fisica (almeno 30 minuti al giorno), alimentazione corretta (adeguato apporto calorico e proteico) e controllo del peso. Invecchiando si verifica una perdita di massa e forza muscolari, condizione nota come sarcopenia e associata a un rischio maggiore di eventi avversi (disabilità, riduzione della qualità della vita, perdita dell'autosufficienza, ricovero in lungo degenze o Rsa, mortalità). Allo stesso modo, la mancanza di specifici nutrienti (malnutrizione selettiva) è stata identificata come una possibile causa di deterioramento cognitivo e di demenza.
La sarcopenia e i disturbi cognitivi rappresentano le condizioni che maggiormente contribuiscono alla comparsa della “fragilità” dell’anziano.
Misure volte a favorire un adeguato apporto di calorie, proteine e leucina possano rappresentare un elemento cardine nell'ambito d’interventi nutrizionali volti a contrastare la disabilità nel soggetto anziano.
Non a caso la nutrizione, e in particolare un adeguato apporto energetico e proteico giornaliero, è alla base dell’intervento del progetto europeo SPRINTT avviato nel 2014 (Sarcopenia and Physical fRailty IN older people: multi-componenT Treatment strategies), coordinato dall’Università cattolica di Roma e iniziato lo scorso anno con l’obiettivo di testare nuove strategie terapeutiche per contrastare la fragilità fisica. La sarcopenia, al centro del progetto, costituisce il bersaglio del trattamento multiplo che si avvale della combinazione di esercizio fisico, intervento nutrizionale personalizzato e l’utilizzo di specifiche soluzioni tecnologiche.
“Studi da noi condotti su modelli sperimentali – spiega Landi - hanno messo in luce che una dieta ipercalorica e i disturbi metabolici a essa correlati (quali, ad esempio, l’obesità e il diabete) impoveriscono la riserva di cellule staminali del cervello e alterano la funzione dei circuiti nervosi maturi causando un precoce deterioramento delle capacità cognitive. Di particolare interesse l’osservazione che alcuni di questi effetti siano trasmissibili alle generazioni future, come se la nostra alimentazione determinasse nella prole un imprinting in grado di influenzare non soltanto le capacità di apprendimento e memoria dell’individuo ma anche la sua suscettibilità al declino cognitivo.
“Se è nel piatto che si annidano alcuni dei segreti della longevità, capire come si nutrono gli anziani può dare delle indicazioni preziose alla ricerca”, spiega Landi. A tale scopo un recente studio ha valutato conoscenze, comportamenti e attitudini di over-65enni in fatto di alimentazione.
L’analisi è stata svolta nell’ambito del progetto di Ateneo “Fattori influenzanti un’alimentazione sicura negli anziani”, coinvolgendo circa 200 anziani (età media 74 anni), allo scopo di studiare se fattori economici, etici, socio-culturali correlino con il rischio di un’alimentazione non sicura, sia dal punto di vista nutrizionale che igienico-sanitario, nella popolazione anziana.
“È emerso che gli anziani ricevono informazioni su una corretta alimentazione principalmente da TV, giornali e internet (30%) e da professionisti sanitari (34,8%), quali dietologi e nutrizionisti. Solo il 15,4% si rivolge al medico di famiglia per avere tali informazioni.

Nutrizione e tumori: Mangiare sano serve anche a prevenire e aiutare la cura dei tumori. All’Università Cattolica vengono indagati i bersagli molecolari dei grassi omega-3, di cui è ricco il pesce, potenzialmente in grado di rallentare la crescita del cancro del colon e del melanoma. Secondo altri studi invece il consumo di alimenti contenenti vitamine del gruppo B e ricchi di carotenoidi riduce del 40% il rischio di tumore di bocca e gola. 
I tumori sono la seconda causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e in Italia vengono diagnosticati circa 1000 casi di tumore ogni giorno.
Si stima che almeno il 30% dei tumori sia causato da comportamenti alimentari errati (come consumo eccesivo di carni rosse, basso consumo di frutta e verdura). Questa quota è quindi ampiamente prevenibile con una dieta appropriata.
Ricerche effettuate presso l’Università Cattolica e il Policlinico A. Gemelli (nell’ambito del Rapporto Osservasalute, sviluppato dai ricercatori dell'Istituto di Sanità Pubblica della Cattolica) hanno evidenziato che in Italia esiste un gradiente geografico Nord-Sud nella frequenza di tumori, e questo in parte è dovuto a differenze nella tipologia e nella quantità degli alimenti consumati. Anche la crisi economica in atto incide sulle abitudini alimentari degli italiani, con tendenza al progressivo abbandono della dieta mediterranea e aumento di consumo - soprattutto tra le fasce sociali più deboli e gli anziani- di alimenti meno costosi e insalubri, che aumentano il rischio di numerose malattie tra cui i tumori.
“Il nostro ateneo – spiega Stefania Boccia, Direttore della Sezione di Igiene, Istituto di Sanità Pubblica – è molto attivo sia sul fronte della ricerca di base sia su quella clinica”. Un gruppo di ricercatori della Cattolica è impegnato a identificare specifici bersagli molecolari degli acidi grassi omega-3, di cui sono ricchi pesci come il salmone e il pesce azzurro, sulle cellule tumorali del cancro del colon e del melanoma (tumore della pelle), nutrienti che potrebbero anche contribuire a rallentare la crescita tumorale. Con queste conoscenze in futuro tali nutrienti potrebbero essere impiegati oltre che nella prevenzione, anche nella terapia dei tumori.
“Inoltre, diversi studi condotti presso i nostri laboratori, anche in collaborazione con gruppi di ricerca internazionali, hanno messo in luce una riduzione del 40% del rischio di tumore della bocca e della gola per chi assume alimenti che contengono vitamine del gruppo B (quali carciofi, lattuga, broccoli, ma anche legumi) e carotenoidi (per esempio carote, peperoni, ma anche spinaci)”, Boccia. Si noti che il cancro della bocca e della gola, legato soprattutto al consumo di alcol e al fumo, è tra i dieci tumori più frequenti in Italia. E ancora, altri nostri studi hanno evidenziato un aumento del rischio di tumore dello stomaco e del fegato derivante dal consumo di alimenti grigliati, soprattutto in soggetti portatori di alcune varianti genetiche ‘sfavorevoli’. Questo apre la strada alla nutrigenomica, settore di studio che vede impegnati diversi ricercatori.
“Riguardo la ricerca clinica – aggiunge Boccia - studi in corso presso l’Università Cattolica stanno valutando l’effetto protettivo di alcuni composti naturali ricchi di agenti antiossidanti presenti nel tè, caffè, vino rosso e anche agrumi, nelle donne sottoposte a chemioterapia per trattamento del carcinoma della mammella, così come l’effetto protettivo rispetto alle enteriti di alcuni composti probiotici nelle persone sottoposte a radioterapia per tumori del distretto pelvico”.
E ancora, altri studi firmati Università Cattolica hanno dimostrato che nei pazienti sottoposti a chemioterapia per tumore di bocca e gola, un counselling nutrizionale svolto da nutrizionisti con identificazione dei cibi più idonei da consumare, migliora l’accettabilità del trattamento chemioterapico con ridotti effetti avversi e maggiore ‘compliance’ (aderenza) al trattamento.
“Un aspetto critico è come motivare i cittadini ad alimentarsi in maniera corretta”, conclude Boccia. Le politiche sanitarie sicuramente influenzano i consumi, agendo sui costi delle materie prime o ancora tramite gli strumenti dell‘educazione sanitaria condotta già nelle scuole primarie. Tuttavia è estremamente difficile influenzare le scelte individuali: Ed è per questo che numerose ricerche tra cui alcune condotte nel contesto del progetto europeo Marie Curie-RISE PRECeDI coordinato dalla Università Cattolica, stanno cercando di capire se nelle persone più a rischio di malattia (es. persone con familiarità per tumori o obesità) la conoscenza del proprio assetto genomico possono determinare scelte alimentari più ‘salutari’. ‘Alcuni lavori pubblicati di recente ma non condotti in Italia, mostrano che nel momento in cui un individuo scopre dall’analisi del proprio genoma di essere più o meno predisposto allo sviluppo di una certa patologia frequente in famiglia, questo determina una modifica sostanziale nel cambiamento delle abitudini alimentari, rispetto a chi non ha questa informazione aggiuntiva’, spiega la prof.sa Boccia. Servono tuttavia studi più ampi da condurre nella popolazione italiana, per capire fino a che punto la conoscenza del proprio genoma possa motivare veri cambiamenti nello stile di vita alimentare.

Nutrizione e ricerca di base. Il cibo parla al nostro corpo oltre a nutrirlo e i diversi nutrienti contenuti negli alimenti comunicano con le nostre cellule influenzandone salute e comportamento. Ricercatori dell'Università Cattolica con i loro studi sono in prima linea nel cercare di decifrare il linguaggio ancestrale del cibo per poi trarne suggerimenti per lo sviluppo di nuovi farmaci contro malattie metaboliche gravi e diffuse come il diabete, ma anche per ritardare l'invecchiamento. È un’altra delle affascinanti linee di ricerca della Facoltà di Medicina e Chirurgia della Cattolica, che ha già dato risultati promettenti con studi molecolari, sulle malattie del metabolismo, del circolo ed infiammatorie, come anche sui tumori e l’invecchiamento.
I cibi non servono solo a nutrirci, quindi non sono solamente una fonte di energia e di materiale di costruzione di tutto ciò che serve al nostro corpo (proteine, etc), spiega Giovambattista Pani, ricercatore dell’Istituto di Patologia generale. Funzionano anche come “segnali”, come fossero ormoni, attivando un linguaggio molecolare antico presente in ogni cellula di tutti gli esseri viventi.
Le cellule del nostro corpo captano le informazioni offerte da tali segnali molecolari, per capire ad esempio se vi sia o meno abbondanza di nutrienti e utilizzano tali informazioni per modulare il proprio comportamento (regolare il metabolismo, moltiplicarsi, aumentare le proprie difese, attuare la cosiddetta “morte programmata” e molto altro). Quando questo sistema di comunicazione va in tilt possono insorgere malattie. L’esempio più classico è quello del diabete in cui le cellule, pur vivendo in un ambiente ricchissimo di glucosio, avvertono un’erronea condizione di perenne scarsità e non riescono a utilizzare lo zucchero presente nel sangue.
Grazie alle ricerche in corso presso l’Università Cattolica di Roma, spiega Pani, si cominciano a decifrare alcuni “sensori dell’abbondanza” presenti sulle nostre cellule e “sensori di carestia”.
Quello che si inizia a capire sempre meglio e' che i segnali di “fame” sono benefici per le nostre cellule e generalmente hanno un ruolo preventivo, soprattutto in relazione alle malattie legate all’invecchiamento. Al contrario, un messaggio di “troppa abbondanza” è pericoloso perché altera il metabolismo delle cellule, ne abbassa le difese, ed è soprattutto responsabile di una condizione di infiammazione cronica generalizzata oggi considerata alla base di molte delle malattie dell’anziano, dall’aterosclerosi ai tumori.
“I nutrienti, dunque, parlano un linguaggio che le nostre cellule capiscono, e che possiamo utilizzare per prevenire e curare le malattie, così come usiamo gli ormoni o i farmaci antiinfiammatori ed antitumorali”, ribadisce. Inoltre, lo studio di piccole differenze genetiche individuali (“polimorfismi genetici”) nelle molecole segnale può aiutarci a decifrare la suscettibilità di ciascuno di noi alle malattie legate alla nutrizione, in una ottica di “medicina personalizzata”.
“Tra tutti i progetti di ricerca in corso sull’influenza dei nutrienti sul nostro corpo - anticipa Pani - ve ne è uno in fase di avvio che presentiamo in occasione della giornata per la Ricerca e che riguarda la sarcopenia. Si tratta di un problema diffuso, basti pensare che praticamente tutti gli adulti, superati i 50 anni di età, perdono l’1-2% di massa muscolare ogni anno. La sarcopenia dell’anziano potrebbe forse essere considerata una forma di “diabete dei muscoli”. “In questa ricerca – spiega - ci proponiamo di valutare, studiando sia modelli animali sia individui anziani, se la “sarcopenia” sia associata a un difetto della risposta muscolare all’insulina (insulino-resistenza del muscolo), l’ormone che maggiormente presiede al trofismo muscolare e la cui disfunzione è responsabile, appunto, del diabete. Ciò potrebbe aprire a nuove strategie preventive e terapeutiche basate sul controllo del metabolismo muscolare”. La ricerca partirà il prossimo ottobre e durerà due anni.
 
21 maggio 2015
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