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QS Edizioni - venerdì 3 maggio 2024

Scienza e Farmaci

Aids. Curata la prima neonata da madre sieropositiva

immagine 4 marzo - Il risultato ottenuto negli Stati Uniti: la bambina ha iniziato la terapia antiretrovirale entro le prime 30 ore di vita e gli scienziati hanno osservato la remissione totale dell’infezione. A 10 mesi dall’interruzione del trattamento, il virus risulta ancora non rilevabile nel sangue della piccola.
Quando si parla di scoperte che potrebbero toccare la vita di milioni di persone malate, in questo caso i 34 milioni di sieropositivi che convivono oggi con l’Aids nel mondo o quantomeno dei loro figli, bisogna sempre essere cauti. Tuttavia, proprio per la portata che potrebbe avere, una nuova ricerca del Johns Hopkins Children's Center, dello University of Mississippi Medical Center e della University of Massachusetts Medical School sta facendo in queste ore il giro del mondo: questi scienziati statunitensi sarebbero riusciti a “curare” per la prima volta una bambina nata sieropositiva, eliminando del tutto il virus Hiv dal suo organismo. Il risultato, presentato durante la Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections (CROI) di Atlanta, se confermato potrebbe significare l’eliminazione dell’infezione in tutti i neonati da madri sieropositive.
 
Una vera e propria remissione dell’infezione, ottenuta grazie alla somministrazione della terapia antiretrovirale entro le prime trenta ore di vita: i test effettuati hanno dimostrato che la presenza virale nel sangue della piccola paziente è diminuito progressivamente fino a risultare non più rilevabile dopo 29 giorni dalla nascita. La terapia è stata portata aventi fino ai 18 mesi di età, e ad oggi – dopo 10 mesi dalla sua sospensione – il virus continua a non essere rilevabile con i test standard, né la bambina presenta gli anticorpi all’Hiv che di solito segnano la presenza del virus nell’organismo. “Questo risultato suggerisce non solo che è possibile far guarire questi bambini, ma anche che è possibile ottenere una remissione completa a lungo termine: questa bambina sembrerebbe aver evitato la terapia a vita che tutti gli altri sieropositivi devono seguire”, ha spiegato Deborah Persaud, autrice principale dello studio. “In altre parole pensiamo di aver trovato una ‘cura funzionale’ alla malattia, ovvero un metodo che non elimina del tutto il virus, che seppure non visibile coi test normali può essere rilevato con strumenti ultrasensibili, ma che permetta di mantenere i risultati per tutta la vita, senza bisogno di continuare la terapia”. Gli scienziati sostengono che sia stato proprio l’inizio tempestivo di questo trattamento a salvare la bimba, poiché questo avrebbe evitato la formazione di “riserve” di virus più resistenti e difficili da eliminare, come le cellule infette dormienti che reinnescano l’infezione nei pazienti adulti che smettono di assumere i farmaci.
 
Al momento, la terapia standard per i neonati a rischio – ovvero quelli nati da madri che non hanno avuto la possibilità di fare test per infezioni o il cui status di sieropositività è stato scoperto solo a ridosso del parto – ricevono un cocktail di antivirali a basse dosi per le prime sei settimane di vita nel tentativo di prevenire lo sviluppo di infezioni, e iniziano la vera e propria terapia solo se e quando l’infezione viene diagnosticata. “Nonostante dobbiamo ancora verificare che l’inizio tempestivo della terapia possa beneficiare tutti i neonati da madri sieropositive, pensiamo che nel frattempo questo debba essere consigliato a tutti i bambini a rischio, visti gli incredibili benefici che gli antiretrovirali hanno dimostrato”, ha aggiunto Persaud. “La prevenzione per ora rimane la nostra migliore opzione di cura, e ad oggi abbiamo gli strumenti per prevenire le infezioni da madre a figlio nel 98% dei casi”.
 
“La completa eradicazione del virus rimane il nostro obiettivo primario”, ha concluso Katherine Luzuriaga, a capo di uno dei team di ricerca. “Tuttavia, questa rimane per ora lontana, e per questo le migliori chance che abbiamo arrivano proprio dall’uso di terapie antiretrovirali in maniera ‘aggressiva’, con la tempistica corretta sui pazienti a rischio”.
 
Laura Berardi
4 marzo 2013
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