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QS Edizioni - giovedì 2 maggio 2024

Scienza e Farmaci

Sindrome di San Filippo. La terapia "mascherata" per colpire dove serve

immagine 11 aprile - Per far arrivare al cervello i farmaci giusti occorre ingannare le sue difese naturali. Il come, nel caso di questa grave malattia neurodegenerativa, l'hanno scoperto un team di ricercatori italiani dell'istituto Telethon di Napoli. "Abbiamo convinto il cervello ad accettare il farmaco".
Le bugie bianche dette a fin di bene, a volte, possono essere perdonate, talvolta incoraggiate. È sicuramente il caso di questo inganno “positivo”: la “falsificazione” di una chiave di accesso al cervello, che potrebbe dare speranza ai pazienti affetti da sindrome di San Filippo, grave malattia neurodegenerativa di origine genetica, fatta da un gruppo di studio italiano, coordinato da Alessandro Fraldi dell’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Napoli, condotto in collaborazione con il gruppo del direttore dell’istituto, Andrea Ballabio. La nuova strategia sviluppata dal team, che apre prospettive terapeutiche, è stata pubblicata su EMBO Molecular Medicine: l’idea è quella di ingannare con la terapia genica il sistema di difese del cervello che se in condizioni normali è essenziale al corretto funzionamento dell’organo, nel caso di questa malattia diventa un ostacolo per la cura.
 
 
La sindrome di San Filippo, detta anche mucopolisaccaridosi di tipo 3A, è una patologia dovuta a un difetto ereditario in un enzima, la sulfamidasi, deputato allo smaltimento di un particolare tipo di zucchero, che con il tempo tende ad accumularsi e a danneggiare diversi tessuti, specialmente quello nervoso. Questi pazienti vanno incontro infatti a un grave e rapido deterioramento mentale già a partire dai primi anni di vita, con disturbi del comportamento e del sonno, progressiva perdita delle capacità motorie, problemi di comunicazione, convulsioni. Al momento non esiste alcuna terapia efficace, ma soltanto una serie di interventi sui sintomi che si possono applicare per tentare di migliorare la qualità di vita di questi pazienti. Nei pazienti affetti da questa grave patologia genetica non basta somministrare dall’esterno l’enzima mancante prodotto industrialmente, perché il cervello è protetto da una sorta di barriera naturale, chiamata emato-encefalica, che come una sentinella seleziona con attenzione le sostanze che possono arrivare alle cellule nervose, bloccando quelle che riconosce come estranee. Una difesa eccezionale in condizioni normali, ma un grosso ostacolo da superare se si devono trasportare molecole terapeutiche direttamente nel cervello.
 
I ricercatori napoletani, però, non si sono persi d’animo e hanno provato ad aggirare il problema con una tecnica altamente innovativa in grado di “convincere il cervello” ad accettare il farmaco. “Abbiamo inserito il gene codificante per la versione corretta della sulfamidasi in un virus adatto alla terapia genica, che sappiamo essere sicuro e con una “simpatia” particolare per le cellule epatiche”, ha spiegato la prima autrice del lavoro, Nicolina Cristina Sorrentino. “Una volta iniettato nel sangue, infatti, questo vettore virale entra preferenzialmente nel fegato, organo che sappiamo funzionare come un vero e proprio serbatoio di enzimi per il resto dell’organismo. La particolarità del nostro metodo sta nel fatto che al gene terapeutico sono stati aggiunti due “pezzetti” speciali: uno che aumenta la secrezione dell’enzima nel sangue da parte del fegato, l’altro che rende l’enzima riconoscibile da parte della barriera emato-encefalica e ne consente così l’accesso al sistema nervoso: in pratica abbiamo sfruttato il “biglietto d’ingresso” di un’altra proteina che normalmente entra nel cervello”.
 
In questa versione “riveduta e corretta” dai ricercatori del Tigem la terapia enzimatica sostitutiva si è dimostrata in grado di raggiungere il cervello nel modello animale della sindrome di San Filippo: non solo non si sono registrati effetti tossici, ma si è riscontrata una capacità dell’enzima di raggiungere le cellule del cervello, esercitare la sua normale azione detossificante e soprattutto migliorare significativamente i sintomi della malattia, anche dal punto di vista comportamentale. “A otto mesi di distanza dalla prima somministrazione, i risultati sono molto incoraggianti e ci fanno pensare che questo approccio possa essere non solo efficace, ma anche stabile nel tempo”, ha commentato Fraldi. “Inoltre, aver dimostrato di poter superare in modo mirato la barriera protettiva del sistema nervoso offre uno spunto interessante anche per molte altre malattie neurodegenerative in cui finora non si era riusciti a somministrare una terapia se non dando dosi molto alte, che però possono in ultima analisi risultare tossiche”.
11 aprile 2013
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