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QS Edizioni - venerdì 17 maggio 2024

Scienza e Farmaci

Vicini ad un test per diagnosticare la sindrome da stanchezza cronica

di Maria Rita Montebelli
immagine 29 giugno - Un team di ricercatori della Cornell University di New York ha individuato dei biomarcatori specifici per questa malattia nelle feci e nel sangue dei pazienti. Due le conseguenze principali: si prendono ulteriormente le distanze dall’idea della natura ‘psicologica’ della sindrome da stanchezza cronica e si aprono nuovi scenari sulla sua eziologia. Ancora una volta ad essere chiamato in causa è il microbiota intestinale, selezionato in modalità ‘pro-infiammatoria’ in questi pazienti.
Si chiama sindrome da fatica cronica, è una condizione misteriosa che porta ad un affaticamento debilitante in riposta a sforzi di minima entità ed è molto difficile da diagnosticare. Per farlo bisogna avere la fortuna di imbattersi in un esperto che, effettuando una serie di test indaginosi, dopo un intervallo cospicuo di tempo porgerà al paziente, spesso in giovane età, questa diagnosi che rimane per molti fraintesa o mal interpretata.
 
Ma le cose a breve potrebbero cambiare, grazie ad una ricerca della Cornell University, pubblicata su Microbiome. Gli autori sostengono di aver individuato dei marcatori biologici della encefalomielite mialgica/sindrome da stanchezza cronica (ME/CFS) a livello dei batteri intestinali, oltre ad un aumento dei livelli di agenti infiammatori microbici nel sangue (I-FABP, intestinal fatty acid-binding protein), LPS (lipopolysaccharide), LPS-binding protein, soluble CD14 (sCD14) e proteina C reattiva.

Insomma, un esame delle feci e un prelievo di sangue potrebbero consentire un giorno di diagnosticare nell’83% dei pazienti questa malattia ancora largamente ‘incompresa’.

Una ricerca che offre dunque una diagnosi non invasiva e allo stesso tempo fa fare un notevole passo avanti nella comprensione delle cause della malattia.
 
“Il nostro studio dimostra che il microbiota intestinale nei soggetti con sindrome da stanchezza cronica non è normale – afferma la professoressa Maureen Hanson, Dipartimento di Biologia Molecolare e Genetica alla Cornell – e che probabilmente conduce a sintomatologia gastrointestinale (molto frequente in questi pazienti) e infiammatoria in chi è colpito da questa malattia. Aver rintracciato un’alterazione biologica in questi pazienti fornisce inoltre ulteriori prove del fatto che l’idea che questa malattia sia di origine psicologica è del tutto ridicola”.
 
Per questo studio i ricercatori americani hanno reclutato 48 soggetti affetti da ME/CFS e 39 controlli dei quali sono stati esaminati campioni di feci e di sangue. In particolare, i ricercatori hanno sequenziato il DNA microbico dei campioni fecali alla ricerca di diversi tipi di batteri noti per la loro azione anti-infiammatoria. In generale, gli studiosi hanno evidenziato che nei soggetti con sindrome da stanchezza cronica, la diversità delle specie batteriche presenti era estremamente ridotta e che erano presenti un minor numero di specie batteriche dotate di attività anti-infiammatoria, rispetto ai soggetti in buona salute. Una caratteristica questa già riscontrata in passato nei soggetti con morbo di Crohn e con retto colite ulcerosa.
 
Sempre in questo studio i ricercatori hanno scoperto dei marcatori infiammatori specifici nel sangue dei pazienti ME/CSF, probabilmente legati al passaggio dei batteri dall’intestino al sangue. E una volta entrati in circolo, questi batteri scatenerebbero una risposta immunitaria, responsabile del peggioramento dei sintomi.
 
Naturalmente, come già per le malattie infiammatorie intestinale, resta ancora da dimostrare se l’alterazione del microbiota intestinale sia causa e non piuttosto conseguenza della malattia, insomma se viene ‘prima l’uovo o la gallina’. Per questo, gli autori di questo studio sono già a caccia di particolari batteri o miceti nell’intestino di questi pazienti, per verificare se possano rivestire un preciso significato eziologico.
 
Secondo i ricercatori della Cornell, in futuro questa tecnica diagnostica potrebbe andare ad affiancare e ad affinare le altre diagnosi non invasive attualmente disponibili. Ma non solo. Riuscire a capire cosa succede a questi microbi e ai pazienti che ne sono portatori potrebbe portare i medici a consigliare delle modifiche della dieta o ad utilizzare prebiotici (ad esempio le fibre dietetiche) o probiotici, come complemento terapeutico in questa patologia.
 
Maria Rita Montebelli
29 giugno 2016
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