toggle menu
QS Edizioni - domenica 10 novembre 2024

Studi e Analisi

Io e la professione di assistente sociale

di Saverio Proia
immagine 17 maggio - Vi è la necessità di delineare come far evolvere la professione di assistente sociale dopo oltre 30 anni della sua istituzione ordinistica precisando quali modalità e contenuti proporre per adeguare la legge istitutiva della professione per meglio rispondere sia ai vecchi ma soprattutto ai nuovi bisogni di salute. Non solo per valorizzare chi la esercita ma anche e soprattutto nell’interesse dei cittadini ed in particolare delle fasce più deboli
Tra le oltre trenta professioni della salute c’è una “storica” quella dell’assistente sociale che sta recuperando il ruolo e le competenze proprie che, invece, progressivamente sono state e sono svolte da altre professioni e le sta recuperando con una certa accelerazione dopo anni di stasi o di arretramento…a guisa di lupo o di lonza che riacquista i territori da cui l’umano animale l’aveva cacciati…direbbe il poeta.

Oggi gli assistenti sociali sono al 91% donne e la metà sotto i 44 anni; in sanità sono oltre 6400 e 8400 nelle cooperative che si occupano anche di interventi sociosanitari; specie con la legislazione durante e post COVID sia negli enti locali che in sanità sono state avviate assunzioni e stabilizzazioni di assistenti sociali e previsti gli standards ottimali ancora adeguatamente non colmati.

Il mio primo incontro con la professione sociosanitaria di assistente sociale avvenne il 2 gennaio 1971, me lo ricordo bene perché fu il mio primo giorno di assunzione alla Sezione territoriale dell’INAM (il più grande ente mutualistico che garantiva l’assistenza sanitaria prima del SSN, notizia fornita, ovviamente ai giovani) del Lido di Roma e mi presentarono i responsabili: il Capo Sezione, amministrativo, il Primo Medico, il responsabile sanitario, l’assistente sociale, responsabile del servizio sociale e la caposala, coordinatrice degli infermieri e delle altre professioni sanitarie che, ante legge 42/99, venivano chiamate ancora “ausiliarie”

Erano questi i quattro centri di potere che dirigevano l'assistenza territoriale in quel determinato quadrante della città di Roma, un modello di staff dirigenziale apicale al Direttore Generale che poi anni e anni dopo si ripeterà nel Servizio Sanitario Nazionale con la previsione nelle Asl più avanzate di una Direzione Strategica che comprendesse quella sanitaria, quella amministrativa ma anche quella sociosanitaria.

Il successivo impatto con la professione di assistente sociale fu nel più precedente incarico di Segretario nazionale della Federazione dei lavoratori della Sanità CGIL-CISL-UIL negli anni ottanta dell’altro secolo (allora c’era ancora l’unità sindacale) allorché si realizzò il nuovo stato giuridico del personale del SSN che vide la collocazione incongrua dell’assistente sociale nel ruolo tecnico (l’uscita da questo ruolo fu conquistata dopo 40 anni) ma, tuttavia, con il DM 821, che definiva i nuovi profili professionali delle UU.SS.LL., il profilo di assistente sociale pur essendo allora non laureato nel senso attuale della parola ma, di norma, con una formazione triennale successiva al diploma di maturità, fu l'unico che nella declaratoria dei profili risultò poter avere relazioni dirette apporti con le altre amministrazioni e quindi rappresentare l’USL nei rapporti con gli enti locali, il ministero di Giustizia e quant’altro.

L’unico impatto negativo, per fortuna risolto nel tempo, avvenne in sede di stipula del primo contratto nazionale del personale del SSN, le cui trattative, allora, si svolgevano al Ministero della funzione pubblica: in quella fase le varie sigle sindacali proponevano di spostare dal sesto, oggi C, al settimo, oggi D, alcuni profili specie quelli che avevano la scuola diretta a fini speciali come per esempio gli assistenti sociali e alcuni tecnici di laboratorio o tecnici della riabilitazione, cioè tutti quei profili formati con corsi post secondaria superiore…alla fine erano esclusi solo gli infermieri…

La categoria degli e delle assistenti sociali diede vita ad un forte movimento per evidenziare la propria differenza formativa ed ordinamentale rispetto alle altre professioni sanitarie del comparto in particolare degli infermieri, che, allora, erano formati dalle Regioni senza il requisito del diploma di maturità ed erano, per legge, ancora “ausiliarie” al medico.

Il movimento da loro creato, in quel momento sembrava aver ottenuto la garanzia dai sindacati nazionali del comparto sanità che il profilo di assistente sociale sarebbe stato spostato al settimo livello e per dare loro, le segreterie nazionali del sindacato unitario mi inviarono a fare un comizio a piazza San Apostoli a centinaia di assistenti sociali assicurando che mai il sindacato avrebbe firmato un contratto in cui alle assistenti sociali non fosse garantito il settimo livello, quello che nella PA è quello dei laureati.

Ma, evidentemente mi fu fatta fare la figura dello specchietto per le allodole: infatti, mentre arringavo la folla, ignaro completamente di quello che, invece stava, nello stesso tempo, facendo il sindacato unitario, le cui segreterie nazionali, invece, in contemporanea firmavano la stipula del contratto nazionale sancendo la permanenza per gli assistenti sociali, esclusi i coordinatori, al sesto livello.

È facile immaginare quale rancore da parte delle assistenti sociali si scatenò nei miei confronti, pur essendo del tutto innocente su questa vicenda, in quanto io esso, come gli assistenti sociali, ero stato raggirato e questo rancore o diffidenza continuò per tanto tempo sino a che, finito il periodo del distacco sindacale durato più di vent’anni, mi ritrovai a fare il dirigente sociologo alla mia ASL.

In questa Azienda chiesi alla allora direttrice generale che, per favore, di essere destinato in un ufficio ove non ci fossero assistenti sociali, invece mi ritrovai all’URP aziendale, il cui organico era composto, allora, da due bravissime assistenti sociali e una dirigente psicologa…da quella fase ricominciai a ricostruire un rapporto con la professione di assistente sociale e far calare lentamente ma progressivamente la loro diffidenza o ostilità nei mei confronti.

Come è noto ai più, fui successivamente comandato al Ministero della Salute ove iniziò, finalmente, il mio “riscatto” nei confronti delle assistenti sociali: dopo un colloquio con l’indimenticabile Fiorella Cava, convinsi l’allora Direttore generale delle professioni sanitarie di quel dicastero ad avere un incontro con il CNOAS, superando il fatto che fosse un ordine vigilato dal Ministero di Giustizia ricordandogli che la professione di assistente sociale svolgeva e svolge un ruolo importante determinante nel SSN tant’è che era già presente in sanità prima della legge 833/78, sin dalle tempi della riforma ospedaliera Mariotti e non solo nel sistema mutualistico.

Così il nuovo rapporto istituzionale tra CNOAS e Ministero della Salute fu suggellato da una visita che l’allora summenzionato Direttore Generale compì proprio nella sede dell’Ordine Nazionale Assistenti sociali e da lì il rapporto si intensificò sino a dar vita ad uno specifico tavolo di lavoro, da me coordinato, composto da tutte le rappresentanze professionali e sindacali della professione di assistente sociale con il mandato di delineare il ruolo, la funzione e l’organizzazione del Servizio Sociale Professionale nel SSN.

Questo tavolo di lavoro produsse un documento finale completo ed organico condiviso, concertato e sottoscritto da tutte le rappresentanze sindacali organistiche associative della professione di assistente sociale, tutt’ora ritenuto valido tant’è che ancora nei confronti di Regioni e Aziende sanitarie viene rivendicato come le dieci tavole dei comandamenti per dar vita alla strategia, contestualizzandola quando necessario, per dar corpo al Servizio Sociale Professionale.

Risolto contrattualmente, avvalendosi della legge 251/00, il passaggio di tutte le professioni sanitarie e quella di assistente sociale dal livello dei diplomati (prima sesto ora C), a quello dei laureati (prima settimo ora D) rimaneva da risolvere il problema del dirigente assistente sociale per il quale la suddetta legge 251/00 non ha previsto le norme per l’assunzione a tempo indeterminato nonché l'esatto inquadramento giuridico nel SSN del tutto incongruo in quanto il loro inserimento nel ruolo tecnico nel 1979, prima della legge che istituì il relativo ordine professionale e casomai sarebbe dovuto essere quello professionale anch’esso però limitante per le funzioni di tutela della salute biopsicosociale che anche le e gli assistenti sociali svolgono.

Così, pertanto, si rese necessario dare esatta collocazione giuridica della professione…(né cane né lupo diceva il pellicano a Balto nell’omonimo cartoon) così si realizzò l’esatta definizione, quanto mai completa e competente, ottenuta grazie all’emendamento dell’ onorevole Lenzi in sede di approvazione della legge di riforma delle professioni sanitarie, la legge 3/18 c.d. legge Lorenzin, con cui contestualizzandola fu rivitalizzata e attuata l’area delle professioni sociosanitarie, già prevista nel d.lgs. 502/92.

Quest’area non era stata mai realizzata concretamente e evitando ulteriori deleghe a ministeri inadempienti si previse e si specificò all’articolo 5 che le professioni sociosanitarie concorrono all’attuazione del concetto di salute biopsicosociale come definito dall’Oms e quindi fu stabilito di prevedere ope legis che in quest’area era già compresi profili evidentemente già sociosanitari per ruolo e competenze tra cui la preesistente professione di assistente sociale.

Ciò non bastò per cambiare l’inquadramento giuridico e contrattuale in sanità, così nella precedente legislatura fu presentato ed approvato l’emendamento conseguente che istituì il ruolo sociosanitario liberando i 7000 assistenti sociali dipendenti del SSN dalla errata ed incongrua collocazione nel ruolo tecnico; nello stesso periodo in sede di conversione dei decreti legge COVID19 si permise l’assunzione e la successiva stabilizzazione di un numero considerevole di assistenti social e si legiferò il rapporto ottimale tra assistenti sociali e cittadini, specie negli enti locali.

Riacquistato il posto in prima fila nello scenario delle professioni per la salute, giustamente il CNOAS si è posto il problema e la conseguente prospettiva strategica per valorizzare più adeguatamente la professione di assistente sociale anche per rispondere con maggiore efficacia ed efficienza ai nuovi bisogni di salute derivanti dalla modifica nosologia e demografica del Paese, caratterizzata non solo dall’aumento delle persone in povertà e dell’emarginazione ma anche delle giovani generazioni con futuro sempre più incerto e della popolazione anziana, sempre più numerosa e con pluripatologie.

Quindi vi è la necessità di delineare come far evolvere la professione di assistente sociale dopo oltre 30 anni della sua istituzione ordinistica precisando quali modalità e contenuti proporre per adeguare la legge istitutiva della professione per meglio rispondere sia ai vecchi ma soprattutto ai nuovi bisogni di salute.

Si tratta di un percorso di confronto che il CNOAS ha già avviato rapportandosi con le Istituzioni per definire tempi e modi per raggiungere gli obiettivi di riforma e di riordino dell’impianto ordinamentale, ordinistico e formativo della professione di assistente sociale.

Siccome è fondamentale iniziare dall’organizzazione del servizio sociale vorrei evidenziare come centrale e strategico per una vera riforma del ruolo della professione sia istituire in ogni Amministrazione pubblica il Servizio Sociale Professionale diretto da un dirigente assistente sociale, sia in sanità che in qualsiasi altro comparto, affidando alla gestione diretta della professione la definizione delle funzioni e delle attività di tale servizio.

È altrettanto vero che l’assistente sociale ha una professionalità, complessa, articolata e sempre più specializzata in relazione alla specificità degli ambiti in cui interviene, per questo è quanto mai necessario prevedere all’interno dell’ordine professionale elenchi speciali per quei professionisti che abbiano acquisito competenze, più avanzate o specialistiche in determinati settori, affinché le stesse siano riconosciute e valorizzare, sia nell’organizzazione del lavoro che direttamente dalle persone che ne richiedono l’intervento. Ciò dovrà avere una ricaduta sia sugli aspetti economici e contrattuali definiti dalla normativa dei contratti collettivi nazionali di lavoro, sia in ogni comparto pubblico e privato.

È parimenti centrale e strategico che si affermi il principio che nella formazione universitaria devono essere assicurate e riconosciute la disciplina e la ricerca di servizio sociale, un numero congruo di materie specifiche, la presenza nel mondo accademico di docenti strutturati provenienti dalla professione con le competenze formative previste per l’accesso a tali ruoli, tutor e docenti di guida al tirocinio.

Debba, inoltre, previsto che - pur mantenendo l’accesso al corso di laurea magistrale anche a chi proviene da altri corsi di laurea diversi dalla triennale in servizio sociale – l’accesso all’esame di Stato per l’abilitazione alla professione di assistente sociale specialista, sezione A sia riservato a chi possiede anche la laurea triennale L39: appare lapalissiano che sia quanto mai assurdo che uno possa esercitare la parte più elevata della professione senza conoscere ed essere abilitato alle competenze previste dalla laurea di base in servizio sociale.

Sono alcuni dei punti più rilevanti per una vera e profonda riforma della professione di assistente sociale non solo per apprezzare e valorizzare chi la esercita ma anche e soprattutto nell’interesse dei cittadini ed in particolare delle fasce più deboli ed emarginate.

Saverio Proia
17 maggio 2024
© QS Edizioni - Riproduzione riservata