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QS Edizioni - lunedì 29 aprile 2024

Studi e Analisi

Il territorio “disarmato” nella guerra al Coronavirus

di Carla Collicelli
immagine 30 marzo - Se i presidi sanitari territoriali per la prevenzione e le cure primarie fossero stati più adeguatamente preparati e riforniti di personale e strumenti di buon livello, si sarebbero potute forse evitare alcune delle situazioni più critiche, come quelle delle morti a casa in solitudine e senza assistenza, e quelle delle difficoltà psico-sociali, prima ancora che cliniche, di tanti cittadini e di tante famiglie.
La tempesta sanitaria che ha investito l’Italia e il mondo con il Covid-19 sta cambiando la prospettiva epidemiologica sulla base della quale occorre lavorare per definire scenari e organizzazione dell’assistenza sanitaria. Dal punto di vista epidemiologico è emerso infatti il peso delle nuove patologie infettive anche nei paesi sviluppati, e quello del sommarsi di questa emergenza ai problemi sottostanti delle patologie croniche, in crescita soprattutto nelle fasce di età più avanzate, ma anche in quelle intermedie.
 
Un fenomeno che, assieme al prolungamento della vita di molti disabili, costituisce quello che viene chiamato il doppio carico di malattia della modernità. E dal punto di vista dell’organizzazione sanitaria, le difficoltà che si stanno incontrando nel far fronte alla epidemia, soprattutto nelle regioni settentrionali e soprattutto in Lombardia, hanno messo bene in evidenza, se ancora non fosse sufficientemente chiaro, quali rischi derivano dalla riduzione dei posti letto e del personale ospedaliero, oltre che dalla mancanza di una strategia solida di pronto intervento in casi di emergenza improvvisa, anche attraverso la predisposizione d scorte di materiale sanitario necessario in queste situazioni.
 
Le analisi prodotte dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) con l’Oecd Health Statistics, richiamate anche ampiamente nella Settima Relazione CNEL sulla qualità dei servizi della PA, mostrano ad esempio come in Italia la spesa sanitaria totale (pubblica e privata) in percentuale del Prodotto Interno Lordo (PIL) continui a mostrare un andamento decrescente, collocandosi ormai al di sotto della media europea. In termini di spesa pubblica pro-capite, secondo questa stessa fonte l’Italia si colloca addirittura in prima posizione in Europa per il valore più basso ($ 3.391 vs un medium di $ 3.978).
 
E particolarmente negativa risulta la situazione se confrontiamo l’Italia con i paesi del G7, rispetto ai quali si colloca all’ultimo posto per la spesa pubblica ed al secondo per la spesa di tasca propria da parte di famiglie e cittadini (Out of pocket). Tutto ciò si rispecchia nella situazione delle risorse a livello ospedaliero. Il numero dei posti letto, infatti, è passato da 311.000 nel 1998 a 191.000 nel 2017, e tra 2010 e 2019 si sono persi 43.386 dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, di cui 7.625 medici e 12.556 infermieri.
 
Ma sarebbe riduttivo fermarsi a questi aspetti, che pure sono essenziali per far fronte alla parte più grave dell’epidemia, quella dei contagiati che devono essere ricoverati, in quanto alcuni altri elementi della attuale emergenza richiamano all’attenzione l’importanza altrettanto significativa della medicina del territorio e dell’integrazione socio-sanitaria, anche in situazioni di pandemia infettiva.
 
Il primo di questi fattori riguarda il fatto che, stando alle informazioni ad oggi disponibili, il contagio rapido e drammatico che si è riscontrato in alcune zone della Lombardia sarebbe avvenuto anche o soprattutto in ambito ospedaliero. Se ci fosse stato, quindi, un sistema adeguato di monitoraggio e di assistenza socio-sanitaria sul territorio si sarebbe potuto quanto meno contenere l’impatto del contagio ospedaliero, con tutte le sue conseguenze.
 
Il secondo fattore riguarda le enormi difficoltà riscontrate nelle zone di maggiore impatto della pandemia per quanto riguarda l’assistenza nei confronti dei pazienti non ospedalizzati, con sintomatologia più o meno grave, spesso lasciati soli, a volte seguiti attraverso un monitoraggio a distanza di debole incisività, e spesso con l’unico presidio disponibile costituito da medici di medicina generale lontani e sovraccarichi, e da familiari preoccupati e per lo più inermi.
 
Anche in questo caso se i presidi sanitari territoriali per la prevenzione e le cure primarie fossero stati più adeguatamente preparati e riforniti di personale e strumenti di buon livello, si sarebbero potute forse evitare alcune delle situazioni più critiche, come quelle delle morti a casa in solitudine e senza assistenza, e quelle delle difficoltà psico-sociali, prima ancora che cliniche, di tanti cittadini e di tante famiglie.
 
Un terzo fattore riguarda la rete della medicina di base e le difficoltà dei medici di medicina generale. Anch’essi decisamente impreparati e poco attrezzati, come essi stessi hanno evidenziato.
 
Come hanno scritto i medici dell’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo il 21 marzo scorso, non abbiamo capito ancora a fondo quanto sia importante la dimensione della comunità in sanità, e non solo per le patologie croniche e le disabilità, come è abbastanza chiaro a tutti, ma anche di fronte ad una crisi pandemica di tipo infettivo, che è anche e soprattutto una crisi umanitaria, che tocca tutta la popolazione e richiede un approccio comunitario di popolazione e di territorio (Nacoti M. ed altri (2020), At the Epicenter of the Covid-19 Pandemic and Humanitarian Crises in Italy: Changing Perspectives on Preparation and Mitigation).
 
Per spiegare questo aspetto i medici del Papa Giovanni dicono che la strategia sanitaria centrata sul paziente, sulla base della quale si è lavorato prevalentemente fino ad oggi, deve essere affiancata da una altrettanto decisa strategia centrata sulla comunità e sul territorio. Intendendo per comunità e per territorio una sanità pubblica che comprenda la prevenzione estesa anche e soprattutto ad ambiti non sanitari e la stretta collaborazione tra settore sociale e settore sanitario.
 
Il che significa anche medicina di iniziativa e monitoraggio a tappeto delle condizioni di salute sul territorio, non solo e non tanto per produrre informazioni e raccomandazioni che calano dall’alto e possono non essere recepite né applicate, quanto soprattutto per produrre azioni ed interventi concreti che facciano fronte ad una situazione critica che non può trovare risposta solo a livello ospedaliero.
 
Anche l’accesso alle cure specialistiche e intensive dell’ospedale dovrebbe trovare aggancio, in questa visione, con le funzioni di controllo e di assistenza diffusa sul territorio. Ed è proprio la pandemia che ci affligge che ha reso particolarmente evidente che i rischi, le criticità e la domanda di intervento riguardano tutta la popolazione di un territorio e di un paese, e non sola la punta dell’iceberg costituita dai casi più gravi, che necessitano di ricovero e di terapia intensiva.
 
Carla Collicelli
CNR-ITB Roma
 
30 marzo 2020
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