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QS Edizioni - lunedì 29 aprile 2024

Studi e Analisi

La missione 5 del Pnrr e i Distretti

di Ivan Cavicchi
immagine 24 maggio - L’impressione che prevale, è quella della contro riforma cioè che i Distretti nel PNRR sono di fatto ridotti alle “case di comunità”. Gran parte dell’art 3-quater della 229 finisce di fatto nelle case di comunità la cui gestione resta a mio parere ancora un mistero. L’idea di “casa” varrebbe come la riduzione dell’idea di distretto a “struttura” poliambulatoriale (un revival della cara vecchia Inam)
Ho letto quanto sostenuto da Paolo Da Col e Antonino Trimarchi (i due sono miei amici che considero grandi esperti di distretti) su “anziani non autosufficienti” e “disabili” (QS, 13 maggio 2021 e 23 maggio 2021) che ricordo sono questioni affrontate nella missione 5 del  PNRR (inclusione e coesione).
 
Lungi da me l’idea di spegnere gli entusiasmi di nessuno ma la mia impressione è che prima  di parlare, a proposito di missione 5,  di “scenari incoraggianti” sarebbe bene chiarire meglio cosa  si intende  per “scenario” (quindi quale futuro per la sanità)e comprendere,  meglio alcune cose preliminari.
 
Le questioni sulle quali vorrei dei chiarimenti sono essenzialmente tre: distretto, gestione, integrazione socio-sanitaria,
 
Distretto
Ho l’impressione che i miei amici e prima di loro il presidente di Card Gennaro Volpe (QS, 15 maggio 2020), diano per scontato non solo la conferma dei distretti così come configurati, da ultimo dalla legge 229, ma addirittura il loro rilancio.
 
In realtà, tanto nella missione 5 che in quella 6, la parola “distretto” non compare mai  e da nessuna parte del PNRR si parla  di ridefinirli e o di rilanciarli.
 
L’impressione che prevale, è quella della contro riforma cioè che i distretti nel PNRR sono  di fatto ridotti alle  “case di comunità”. Gran parte  dell’art 3-quater della 229  finisce di fatto nelle case di comunità la cui gestione resta a mio parere ancora un mistero. L’idea di “casa” varrebbe come la riduzione dell’idea di distretto a “struttura” poliambulatoriale (un revival della cara vecchia  Inam).
 
Il distretto classico per me andrebbe ripensato ma non liquidato. Personalmente a più riprese ho parlato di “distretto di comunità”. Ragionando sulle esperienze fatte  in questi anni (non tutte esaltanti) penso che dialogicamente una comunità di cittadini  relativa ad un territorio debba corrispondere a una comunità di professioni relative ad un sistema integrato di servizi .
 
Per me nel distretto di comunità:
- la professione, il lavoro, viene prima della struttura. Distretto servizio e lavoro sono la stessa cosa,
- il distretto prevalentemente è un sistema centrifugo di professioni mobili,
- la comunità è assistita anche in modo telematico e se è il caso anche da tecnologie sanitarie mobili trasferibili al domicilio del malato o prossime al suo luogo di vita.
 
Nella missione 6 si parla di “reti di prossimità”, ma nonostante quello che pensa il mio amico Cozza (QS, 28 aprile 2021) con questa espressione non si intendono le  “relazioni”  che intendiamo lui ed  io tra comunità e professioni e professioni e professioni, o tra servizi e servizi, ma si intendono “strutture” sparse (come ai tempi delle mutue) che erogano “prestazioni  sul territorio” come se il territorio fosse un ospedale.
 
La “casa della salute” è descritta  come  il flacone di sapone sul mio lavabo in bagno cioè un dispositivo che eroga qualcosa. Quindi un erogatore.
 
Dopo una pandemia ho dei dubbi a pensare  ad una “rete di prossimità”  come se fosse un dispensario di prestazioni sparso nel territorio.
 
Ma non voglio farla lunga: vorrei sapere  se le missioni 5 e  6 rientrano in una qualche organizzazione distrettuale e a quali condizioni. Oppure se il distretto è liquidato e se c’è una nuova organizzazione territoriale alla quale riferirci.
 
Gestione
La grande perplessità sulla missione 5, quindi in particolare gli interventi previsti sull’anziano non autosufficiente  e sul disabile, riguarda  la “gestione” del servizio che si deve assicurare.
 
Chi gestisce questo particolare genere di assistenza all’anziano non autosufficiente e al disabile? L’azienda pubblica in forma diretta o altri soggetti non pubblici in forma indiretta?
 
La domanda è tutt’altro che ideologica  e non centra niente con la mia preferenza  per il pubblico, ma riguarda la qualità delle prassi.
 
In base alla mia esperienza io so che:
- il tipo di gestione alla fine definisce la natura del servizio,
- la natura del servizio alla fine definisce  le modalità operative,
- le modalità operative  le prassi.
 
Quindi le prassi dipendono dal tipo di gestione che si ha:
- un conto è lo Stato che assiste direttamente  un anziano non autosufficiente con una rete di servizi,
- un conto è il privato che  vende prestazioni attraverso un servizio.
 
La questione della “gestione” quindi  è politica.
La missione 5 abbina esplicitamente  l’assistenza all’anziano non autosufficiente e al disabile direttamente al terzo settore(M5C2).
In premessa del paragrafo dedicato alla missione 5  si legge  testualmente
In coerenza con gli interventi del Piano, si prevede l’accelerazione dell’attuazione della riforma del Terzo settore, al cui completamento mancano ancora importanti decreti attuativi.”
 
Sembra quindi di capire  che queste  importanti forme di assistenza per l’anziano non autosufficiente e per il disabile alla fine saranno appaltate  al terzo settore. E’ così?
 
Una inutile e dannosa dicotomia
Ho il sospetto che la decisione di appaltare al terzo settore  l’assistenza agli anziani e ai disabili  non sia del tutto estranea alla scelta tutta politica  di dividere la problematica degli anziani in due missioni (5/6). Il che  mi lascia molto perplesso.
 
Come si può pensare di dividere gli anziani in due distinte categorie, una sociale e una sanitaria, prevedendo due ministeri diversi (salute e lavoro) con diverse competenze e sancendo così ufficialmente una pericolosa dicotomia tra sociale e sanitario?
Ma soprattutto sancendo di fatto l’esistenza di due generi di tutele separate? Destinate a non integrarsi mai. I dis-abili in senso ampio da una parte e gli abili dall’altra. Ricordo che la non autosufficienza non è niente altro che una forma di disabilità.
 
Distinguere la missione 5 dalla missione 6, alla fine funziona come un atto contro-riformatore certamente necessario per ammettere forme di gestione private ma sapendo di rendere quasi impossibile l’idea di integrazione socio-sanitaria prevista dalla legge 229 (art 3 septies).
 
Non sto proponendo di tornare alla 229. Ho detto più volte che il forte carattere regressivo  di questa legge  va  superato mettendo mano ad una “quarta riforma”. L’articolo 3 septies  è rimasto in massima parte sulla carta. Per cui oggi è acqua minerale bollita.
 
Ma un conto è riformare l’idea di integrazione e un conto è rinunciarvi sancendo di fatto come fa il PNRR un sistema di “strutture” a compartimenti stagni messi teoricamente in relazione o addirittura in rete. Le dicotomie in genere  non favoriscono l’integrazione.
 
Integrazione socio-sanitaria 
Personalmente a me la pandemia ha insegnato che:
- i soggetti deboli come gli anziani  proprio in ragione dei loro bisogni complessi vanno assistiti con approcci e interventi  integrati,
- a domanda complessa si risponde con una offerta complessa,
- l’integrazione è l’unico modo per organizzare la complessità,
- per  garantire integrazione ci vuole più pubblico non meno.
 
L’affermazione del pubblico non ha nulla di ideologico ma è una questione eminentemente funzionale.
 
Ma l’integrazione dei diversi interventi, nella realtà trova forti ostacoli soprattutto nelle differenze giuridiche proprie alla gestione, ai diversi sistemi contrattuali di chi lavora, alle diverse prestazioni da assicurare, ai diversi sistemi di retribuzione delle prestazioni.
 
Sapete perché  in 40 anni siamo riusciti a integrare il nostro SSN così poco? Perché le tante differenze giuridiche che in esso esistono soprattutto a livello di gestione, di lavoro e di prassi,  alla fine  funzionano come barriere che impediscono tanto l’integrazione che la cooperazione.
 
Sono i solipsismi giuridici    di cui il sistema sanitario ancora oggi è pieno che impediscono l’integrazione.
 
Solus e ipse, "solo se stesso", significa che, se un medico di medicina generale forte della sua convenzione penserà  solo al proprio interesse difficilmente si integrerà con qualcosa di altro. Ma la stessa cosa vale per un medico ospedaliero.
Temo quindi che la missione 5 sia un solipsismo giuridico. Quindi integrazione addio. Mi dispiace per gli anziani.
 
Conclusioni
Francamente non credo che la missione 5 descriva “scenari incoraggianti” non considero “incoraggiante” appaltare l’assistenza agli anziani e ai disabili  al terzo settore e al privato e meno che mai organizzare  la disgregazione di un’ offerta di servizi che per la natura dei bisogni in ballo  dovrebbe  essere una assistenza pubblica integrata cioè complessa vale a dire “socio-sanitaria”.
 
Moralmente  mi infastidisce l’idea che i cittadini più deboli e più bisognosi, nonostante siano più bisognosi, non siano curati “pubblicamente” come gli altri cittadini.
 
Mi infastidisce che  la cura dell’anziano proprio perché è anziano non sia un compito svolto direttamente dal pubblico.
 
In questo vedo  una discriminazione politica cioè  quella tra gente:
- che se anziana  viene curata in un modo,
- se non anziana  viene curata in un altro modo.
 
Insomma per tante ragioni,  che mi ricordano brutte  cose del secolo scorso, non mi piace l’idea di uno Stato che dopo una pandemia assume il grado di abilità delle persone e non il loro grado di necessità, come un criterio di accesso o di esclusione alle pubbliche cure.
 
Ivan Cavicchi
24 maggio 2021
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