12 aprile -
Gentile Direttore,nei loro interventi, il prof. Scorretti (
QS del 5 aprile 2024) e il prof. Cavicchi (
QS del 1 marzo 2024) avrebbero dovuto con maggior forza sottolineare che la causa (principale) della crisi della Medicina sono gli stessi medici italiani, e la loro scarsa cultura valoriale. Pur condividendo, il disincanto dell’uno, in merito al problema della responsabilità professionale medica non particolarmente risolto dalle attuali norme che non realizzano quella "no blame condition" (leggi depenalizzazione)
da taluni attesa, forse non costituzionalmente accettabile; e l’articolato invito ad una rinnovata, medicina dell’altro, in nome di una professione “impareggiabile” per sua irriducibile complessità e in grado di contenere il cittadino dall’“irragionevole eccedere nell’uso dei suoi diritti”, entrambi sottovalutano come il nocciolo della questione stia nella mancanza di autorevolezza della classe medica italiana priva di una identità etica e morale su cui ancorare la sua tecnica e da cui derivare una qualche Weltanschauung da esprimere.
Il
credere che all’aumento dei “diritti” del paziente/malato siano seguite più difficoltà per la Medicina, per la sanità e per i medici, è una scusa; ciò che è carente è il sistema valoriale medico in cui manca un “sé” che consenta il “ri-conoscere-sé”, “farsi riconoscere”, “parlare” con gli altri.
I medici, e le loro istituzioni, dovrebbero riconoscere i loro non pochi errori nell’accesso alla professione, accesso alla specialità, riforme deontologiche, riforme organizzative, le indifferenze valoriali in merito al “senso” della professione (es. insensibilità, quando non accondiscendenza, di fronte a evidenti contraddizioni o forzature politiche), ecc..
La mancata identità (etica) determina la difficoltà a “definire” e “sentire” il rapporto con l’oggetto della professione (utente, cittadino, cliente, ecc., che sia) e a declinare un “modo di essere verso di lui” e “con lui”; nonché l’incapacità di farsi carico delle responsabilità, nel bene e nel male, che l’attività verso l’altro comporta e ad intervenire individualmente e/o coralmente (come “medical community”) su questioni fondamentali per la professione e/o la sua organizzazione.
L’incapacità a “con dividere” e unificare le due posizioni, ha generato la perdita di una identità stabile e coerente (ne è esempio la necessità di riformare giuramenti e codici di comportamento con una certa frequenza
1 o di richiedere definizioni “di legge”) e la difficoltà a far convivere molteplici interessi, inconciliabili o conflittuali, con la contemporanea adesione ai valori ritenuti necessari dalla Comunità. Il “rifondare” la Medicina italiana (o i medici?) e “riscrivere” una loro deontologia o una loro “definizione professionale” o il “loro sistema”, naufraga di fronte al fatto che essi non posseggono (perché non dotati o non formati) spessore etico ed autorevolezza adeguati a resistere alle “pressioni” di quanti li chiamano ad essere esecutori di volontà altre (leggi, pazienti, parenti, ecc.) o a prestare con “abnegazione” la loro opera in modo assoluto e beneficiente.
Le riforme sono inutili, quindi, mancando “essere” per “saper essere” e “saper fare”. L’insegnare ad “essere”, purtroppo, presuppone frequentazioni che la nostra Accademia ha cessato di offrire da tempo. Né è possibile immaginare alcun “nuovo” patto tra “utente”/”cittadino”, sanitario e Stato se mancano, in chi lo propone come in chi lo realizza, valori tali da costituire validi contrappesi nei confronti dei tanti interessi presenti. La rivisitazione giuridica di una cosa non la definisce nella sua realtà ma, anzi, mostra la debolezza e la nudità del re; né le “rivisitazioni giuridiche” spengono i conflitti sociali.
L’oggetto della Medicina non è la malattia ma il malato. E i “rapporti”, contrattuali o meno, si fondano sul reciproco ri-conoscimento. L’idea del “malatismo”, come scusa per il medico, ammetterebbe una limitazione, in nome di una qualche “ragione”, al diritto alla salute declinato quotidianamente sempre più su nuovi confini tecnico/terapeutici.
È facile utilizzare il “malatismo” come scusa e confondere il fine dell’attività del medico, la salute, con l’accesso ai mezzi che egli utilizza e che il cittadino ritiene possano essergli offerti. Ma è altrettanto evidente che la perdita dell’identità etica e morale del medico ostacola quella cultura organizzativa e della sicurezza, oggi molto invocata
2, che si fonda, però, su di un saldo e robusto ordinatore valoriale quando viene riconosciuta (o richiesta?) quella autonomia e capacità in grado di influenzare la qualità e l'erogazione delle cure. Insomma: un corretto rapporto tra cittadino e medico si crea e si mantiene solo con un medico eticamente capace di dimostrarsi e di manifestare, a tutto tondo, valori e comportamenti adeguati ad assicurare qualità, certezza, erogazione delle cure.
Questo è il cratere da cui partire.
Lorenzo Ventregià incaricato di Psichiatria forense all’Università di Trieste
NOTE1. Scorretti, C., & Ventre, L. (2014). La proposta del nuovo Codice di Deontologia Medica Per quale medico? Per quale medicina?.
Medicina E Morale,
63(1). https://doi.org/10.4081/mem.2014.68
2. Ministero della Salute,
Dipartimento della Programmazione e dell’ordinamento del Servizio Sanitario Nazionale, Direzione Generale della Programmazione Sanitaria, UFFICIO III EX D.G.PROG. Manuale di formazione per il governo clinico: la sicurezza dei pazienti e degli operatori, Roma, Gennaio, 2012