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Tbc, individuato un nuovo test diagnostico sperimentale tutto italiano


23 MAR - gn="left"> Individuato un nuovo test diagnostico sperimentale in grado di distinguere rapidamente i soggetti con tubercolosi attiva da quelli con infezione tubercolare latente. Se i risultati dello studio preliminare saranno confermati da un campione di popolazione più ampio, il nuovo sistema diagnostico, tutto italiano, potrebbe consentire di stabilire più efficaci strategie di controllo della diffusione della grave e riemergente patologia.

È quanto ha dimostrato un gruppo di ricercatori dell’Università Cattolica di Roma, dell’Istituto Nazionale di Malattie Infettive “L. Spallanzani” di Roma e dell’Università degli Studi di Sassari, in uno studio in uscita sulla rivista internazionale PLoS One, comunicato alla vigilia del World TB Day.

La diagnosi di infezione da Mycobacterium tuberculosis, batterio anche noto come bacillo di Koch, viene ancora oggi eseguita mediante il test intradermico della tubercolina, sviluppato agli inizi del XX secolo, usato come mezzo di screening per determinare la diffusione dell’infezione nella popolazione.

“Il test della tubercolina – spiega Delia Goletti, ‘corresponding’ dell’articolo in press su PLoS One e che con Enrico Girardi ha coordinato la sperimentazione presso l’Istituto Nazionale di Malattie Infettive ‘L. Spallanzani’ di Roma – presenta numerosi svantaggi, primo tra tutti non è in grado di distinguere tra infezione da Micobatteri ambientali (in genere non pericolosi per l’uomo) e da M. tuberculosis. Recentemente è stato introdotto un nuovo test, che prevede un prelievo di sangue, basato su proteine specifiche di Mycobacterium tuberculosis. Il nuovo test ematico, che prende il nome di test di ristimolazione linfocitaria con antigeni specifici basato sul rilascio di interferon-γ, è in grado di identificare in modo selettivo coloro che hanno tubercolosi, e quindi questo è un avanzamento rispetto alla tubercolina.

Tuttavia, ha aggiunto Goletti “il test di ristimolazione linfocitaria, così come il test della tubercolina, non è in grado di distinguere i soggetti con infezione tubercolare latente da quelli con malattia tubercolare attiva (polmonare o extra-polmonare), e quindi malati”.

“I risultati del nostro studio - afferma Giovanni Delogu, primo autore dell’articolo, che assieme a Giovanni Fadda ha coordinato il gruppo di ricerca presso l’Istituto di Microbiologia dell’Università Cattolica di Roma - dimostrano che è possibile distinguere i soggetti infettati da quelli malati, utilizzando un test in cui il sangue prelevato dal paziente viene messo a contatto con una proteina del bacillo, chiamata Hbha”. La proteina che può essere utilizzata con successo in questi test, secondo Delogu, deve avere caratteristiche particolari e per tali motivi è difficile da produrre: “Ebbene, il nostro gruppo di ricerca ha sviluppato un protocollo sperimentale innovativo per ottenere quantità elevate di proteina in tempi rapidi e con costi limitati, aprendo la possibilità all’utilizzo di questo test su larga scala”.

“In questo studio abbiamo ideato un algoritmo diagnostico innovativo, che prevede l’utilizzo della risposta alla proteina Hbha in combinazione con i test di stimolazione linfocitaria con antigeni specifici attualmente disponibili, e i risultati ottenuti hanno dimostrato che la risposta all’Hbha si associa allo stadio di infezione tubercolare latente e che ci permette di distinguere rapidamente coloro che necessitano o meno di una terapia per tubercolosi attiva“, conclude Goletti.

“La proteina Hbha funge quindi da cosiddetto biomarker di infezione tubercolare latente e quindi per certi versi di protezione alla diffusione della Tbc. Sarà importante comprendere quali sono i meccanismi che si innescano durante l’infezione e che possono determinare la comparsa o meno della malattia”, afferma Stefania Zanetti, ordinario di Microbiologia all’Università degli Studi di Sassari.

“Questi risultati – concludono i ricercatori – aprono la strada a uno studio multicentrico che in futuro pensiamo di estendere a un numero maggiore di pazienti, privilegiando alcune categorie a rischio, in cui è più urgente e complicato fare diagnosi. Pensiamo per esempio ai soggetti immunocompromessi, ai bambini e alle persone che vivono in Paesi in via di sviluppo”.

23 marzo 2011
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