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Elezioni Usa. Mingardi: "Obama è crollato proprio sulla sanità". Ma i tea party in Italia non nasceranno mai


Intervista esclusiva al direttore dell'Istituto Bruno Leoni, uno dei più autorevoli think tank liberali italiani. "Hanno ragione i repubblicani, la riforma Obama è veramente un mostro". Chi l'ha bocciata è proprio quella stessa middle class a cui si pensava di applicarla". Una grande vittoria del movimento dei tea party che ha giocato sulla convinzione radicata in Usa che "nessun pasto è mai gratis". E i tea party in Italia? "Non nasceranno mai, ed è un peccato".

05 NOV - Tra le cause della sconfitta di Obama alle ultime elezioni di midterm negli Usa, per molti osservatori, c'è ai primi posti la riforma sanitaria fortissimamente voluta dalla presidenza. Per capire perché gli americani hanno detto no all'assistenza sanitaria per tutti e soprattutto per sondare quale potrebbe essere a questo punto il destino di uno dei cavalli di battaglia di Obama, abbiamo intervistato uno dei pochi pensatori liberali in attività nel nostro Paese. Alberto Mingardi, direttore generale dell'Istituto Bruno Leoni ed editorialista di autorevoli quotidiani italiani e statunitensi.

Dott. Mingardi, il repubblicano John Boehner, a breve nuovo speaker alla Camera Usa, ha definito la riforma sanitaria di Obama “una mostrosuità”. Nonostante questo il presidente Obama ha aperto al confronto. Qual è la sua lettura, la riforma è a rischio?
E’ ancora presto per esprimere giudizi: stiamo parlando di un’elezione che si è svolta martedì. I repubblicani dovranno prendere le misure, e ci vorrà del tempo. Tuttavia. se la situazione del Senato va in stallo i repubblicani potranno incidere punto su punto sulla forma di questo strepitoso mostro legislativo.

Anche lei la definisce “mostro”?
La definisco mostro al di là dei contenuti, perchè è una riforma di straordinaria complessità e di grandissima complicazione. Stiamo parlando di un tomo di 2800 pagine. Se il diavolo è nei dettagli, Obamacare è per forza diabolica.

Come crede che reagiranno i repubblicani?
Nello scorso agosto, il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo significativamente intitolato “Puttin the brakes at the Obamacare”, (Metti freni alla riforma Obama). L’autrice era Grace-Marie Turner presidente del Galen Institute, un think thank di area conservatrice che si occupa specificamente di temi legati alla sanità. Turner ha, di fatto, prodotto un memo indirizzato al partito repubblicano su come affrontare Obamacare - scritto già allora pensando all’eventualità il Partito Repubblicano potesse espugnare almeno una delle due camere.
Le strategie che la Turner propone sono diverse: dalla diminuzione degli stanziamenti per alcune voci di spesa, a un “fine tuning” di alcune delle nuove regolamentazioni poste in essere - a quello che forse è il suo suggerimento più “politico”, cioè procrastinare e cercare di diluire nel tempo l’entrata in vigore della riforma.
Sullo sfondo, però, resta un convitato di pietra. La grande questione è in realtà come Obamacare influirà sul mercato del lavoro negli Stati Uniti:  cambierà la struttura dei benefit, e secondo tutte le stime cresceranno i costi della sanità per le imprese (le grandi ma soprattutto le medie), con contraccolpi che oggi nessuno sa prevedere in dettaglio. La riforma non sfiora uno dei cardini del sistema americano, cioè l'esenzione fiscale dei costi dell'assicurazione sanitaria qualora essa sia fornita dal datore di lavoro. Questo semplice dato di fatto è all’origine di molte distorsioni.

Ma Obamacare gli americani l’hanno capita? Glielo chiedo perchè il NYT ieri diceva che i democratici non l’hanno saputa vendere.
Si può dire di Obamacare quello che si può dire della legge “'Dodd-Frank” (la risposta di Obama alla sollecitazione di dare nuove regole al mondo della finanza). La legge “Dodd-Frank” è una legge incomprensibile in cui c’è tutto, ci sono norme per qualsiasi ambito della vita finanziaria, c’è una ridda di codicilli talora in contraddizione l’uno con l’altro, e ovviamente nei dettagli s’annida anche la “manina” degli interessi particolari.
Una riforma di questo genere è talmente complessa ed estesa che nessuno, neanche lo staff del presidente ha idea di quali saranno effettivamente i costi per il cittadino americano. Vale però la pena ricordare che il CBO, l’ufficio budget del Congresso, stima che la riforma della sanità potrebbe costare nel primo decennio circa 600 miliardi di dollari più degli 800 indicati da Obama. Una cifra, per l’appunto, mostruosa.
In più non ha toccato le due cose su cui anche gli stessi americani di orientamento conservatore erano disposti a mettere mano. La prima, le restrizioni alla concorrenza nell’ambito alla competizione fra imprese assicurative. Anzi, se è vero che le imprese assicurative dovranno assicurare tutti, e non potranno rifiutarsi di concedere una copertura a causa delle “condizioni pre-esistenti”, riceveranno in cambio importanti sussidi. Le barriere inter-statali alla concorrenza fra assicurazioni invece non vengono toccate.
Né si è messo mano ad un serio tentativo di ridurre i costi legati alla malpractice e al contenzioso medico legale.
 Obamacare è stata percepita dagli elettori sostanzialmente come un colpo di paletta dato nella sabbia che conduce a un pozzo senza fondo. È stata vista come l’apertura di una ulteriore voragine nella già precaria finanza pubblica americana. Tra l’altro, dal punto di vista politico, la battaglia è stata condotta in un modo terrificante: approvata attraverso escamotage legislativi, non condivisa nel suo complesso con la società e fortemente condizionata da gruppi d’interesse che sono saltati sulla macchina del presidente.
In più la riforma è arrivata in un periodo in cui gli Stati Uniti erano sotto una sberla terrificante con gli oneri dei piani di stimolo, i bailout (salvataggi finanziari) il tutto in un clima di straordinaria incertezza economica. Obama ha pensato che per avere successo dovesse fare tutto e presto, ma non ha tenuto conto delle circostanze.

Ma la tutela di quei trenta-quaranta milioni di cittadini che finalmente hanno una copertura sanitaria, non conta?
Rendiamoci conto che, funzioni bene o funzioni male, il sistema americano per come esisteva, con Medicare e Medicaid, copriva già le due principali categorie a rischio e rispetto alle quali tipicamente si chiede un intervento solidaristico degli stato: ovvero gli anziani e i poveri. A rimanere non assicurate erano persone che decidevano consapevolmente di non volere assicurarsi (giovani e magari persone molto abbienti), persone “between jobs” ovvero non povere ma temporaneamente disoccupate, e persone della “bassa classe media”, ovvero che svolgono mansioni per le quali il datore di lavoro non offre un’assicurazione medica.
A monte il sistema americano è viziato da un principio che, visto con gli occhi di oggi, appare assurdo ma che negli anni ’50 è stata una grande idea, cioè legare l’assicurazione medica al posto di lavoro trattandola sostanzialmente come un benefit, grazie all’esenzione fiscale.
Il sogno di offrire una copertura gratuita è il tentativo di costruire qualcosa che somigli sempre di più allo Stato sociale di marca europea. Chi sono i grandi utilizzatori dello stato sociale? Le classi medie. Ma negli Stati Uniti proprio la classe media si è ribellata a questa idea.
 
Per noi europei abituati allo stato sociale è inconcepibile.
“Nessun pasto è gratis”. Gli americani lo capiscono, a differenza di molti europei (non di tutti gli europei: la reputazione dello Stato sociale non è particolarmente alta neanche da noi) sanno che lo Stato non trova i soldi sotto gli alberi.
Nel dibattito su Obamacare, gli elettori americani hanno intuito sostanzialmente due cose. Con grande intelligente: si tratta di cose difficili da legare, istintivamente, alla promessa di un servizio sanitario universalistico.
Davanti ad un signore che ha detto loro “io vi regalo le cure mediche”, gli americani si sono ricordati che quelli del mago di Oz sono sempre dei trucchi. Lo Stato non regala mai niente: le coperture vanno trovate, se aumenta la spesa debbono aumentare il debito e le tasse. La seconda cosa è più complicata ancora. Gli americani hanno capito che un maggiore intervento pubblico avrebbe “burocratizzato” ulteriormente la fornitura di cure mediche. E hanno trovato questo scenario poco interessante.

Obama ha ammesso la sconfitta e ha teso la mano agli avversari. I repubblicani secondo lei chiederanno di trattare su Obamacare?
Sicuramente la "riforma della riforma" della sanità è uno dei primi punti all’ordine del giorno. Il movimento dei tea-party è nato precisamente su questo. Però occorre vedere come si stabilizzeranno le dinamiche all’interno del partito repubblicano. Dobbiamo vedere a quali domande i nuovi eletti cercheranno di dare risposta: faranno scelte e calcoli politici. Credo che il partito repubblicano cercherà di avere un’uscita cospicua e forte sul tema ma quale e quando non si può ancora dire.

In Italia i tea-party hanno colpito. L’idea di riforma dal basso piace tanto. Berlusconi in un’ipotesi di riorganizzazione del Pdl, sembra stia pensando a qualcosa di simile. Secondo lei è possibile trasferire in Italia questa esperienza?
No. In primo luogo, certo non potrebbe farlo Berlusconi. I tea-party sono una manifestazione spontanea di un sentimento di protesta rispetto alle iniziative del governo. Quindi che sia il governo a farsi l’opposizione di Sua Maestà francamente mi parrebbe perlomeno singolare.
Inoltre, i tea-party sono un movimento disaggregato, caotico, pluriforme. Se una cosa viene organizzata del Presidente del Consiglio, o da chi per lui, in tutta evidenza non obbedisce a un moto spontaneo della società.
Poi c’è un altro aspetto che è più rilevante. Questi tea-party hanno scelto sostanzialmente non di fondare un nuovo partito ma di agire all’interno di un partito che esisteva, il partito repubblicano, andando a promuovere alcuni candidati che davano loro alcune garanzie rispetto al raggiungimento di determinati obiettivi politici.
Hanno elaborato un decalogo che si chiama “Contract from America” e i tea-party nei diversi Stati hanno sostenuto quei candidati che hanno sottoscritto il documento. È evidente che per fare una cosa del genere come metodo di azione politica uno deve vivere in un Paese in cui i candidati si possono scegliere. Ma in un paese in cui non solo non ci sono le primarie ma le liste sono fatte dalle segreterie dei partiti, un tea-party può esistere come testimonianza, come espressione di uno spirito di simpatia e di fratellanza intellettuale da parte di alcuni con questi americani. È nato esattamente con questo spirito un’associazione che si chiama “Tea-party Italia” che ha organizzato dei convegni, dei raduni con anche un buon successo di pubblico. e destando parecchio interesse. Ma quelle dinamiche - che non sono poi così diverse dalle dinamiche che hanno concesso all’outsider Obama di vincere la nomination del partito dell’asinello - sono irripetibile
Perché esse possano avere luogo, debbono esserci infatti dei meccanismi per cui la selezione dei candidati passa dagli elettori. Da noi non ci sono più i collegi uninominali, non esiste un processo trasparente di selezione delle candidature, l’elezione di un onorevole dipende da quanto alto è il suo posto in lista. I partiti in Italia non sono contendibili E’più probabile che la Madonnina scenda dal Duomo di Milano piuttosto che un movimento del genere possa avere successo in Italia. E, comunque uno la pensi, è un peccato.

Stefano Simoni
 
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05 novembre 2010
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