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Aggressioni al personale sanitario, sulle cause servono riflessioni attente

di Andrea Angelozzi

04 DIC -

Gentile Direttore,
se scorriamo la letteratura internazionale recente troviamo alcuni lavori molto interessanti, che sottolineano che il fenomeno dell’aumento delle aggressioni al personale sanitario da qualche anno sia un fenomeno generalizzato a livello mondiale (interessano anche stati Arabi, Usa, India e perfino la Cina) ed è stato messo in relazione con molti fattori.

Riporto, solo come esempio, una review di Vento, Cainelli e Vallone del 2020, che, illustrando l’ampiezza internazionale del fenomeno, segnala come fattori più coinvolti: tempo insufficiente dedicato ai pazienti e quindi comunicazione insufficiente tra operatori sanitari e pazienti, lunghi tempi di attesa, e sovraffollamento nelle aree di attesa, mancanza di fiducia nel personale o nel sistema sanitario, insoddisfazione con il trattamento, le cure fornite ed il grado di professionalità dello staff, aspettative irrealistiche dei pazienti e delle famiglie sul successo del trattamento, ruolo dei media nel riportare casi estremi di possibile negligenza portati come rappresentativi della pratica usuale negli ospedali.

La assenza delle malattie mentali da questo lungo elenco stride ampiamente con taluni nostri orientamenti locali.

Ci riferiamo come esempio ad un recente protocollo fra due Ulss Venete con Prefettura e Forze dell’Ordine, destinato alla “gestione del paziente non collaborante-aggressivo nei confronti del personale sanitario”. Si tratta di una documento alla cui stesura hanno largamente partecipato i Dipartimenti di Salute Mentale, indicando nelle premesse quello che sarebbe stato l’orientamento finale del documento.

Da una parte occorre rilevare positivamente che il testo prende atto della necessità che, in presenza di una aggressione, anche quando sia coinvolta una patologia psichiatrica e qualora ogni sforzo alternativo di recupero della collaborazione sia stato vano, spetti alla Forza pubblica intervenire a fronte di un reato o nella imminenza di comportamenti aggressivi, recuperando finalmente gli effettivi ruoli spettanti al personale sanitario ed alla Forza Pubblica che con il tempo si erano andati confondendo.

Dall’altra, il documento, in contrasto con quanto abbiamo visto precedentemente, propone una piena identificazione della violenza verso gli operatori con la malattia mentale, attribuendo questi eventi “il più delle volte” a “soggetti con uno stato mentale alterato per effetto di diverse condizioni (uso di sostanze stupefacenti, malattia psichica in fase di scompenso, demenza, traumi, quadri metabolici e neurologici, ecc.)”; e, dove non è la malattia mentale, si parla di extracomunitari irregolari da valutare per un possibile rimpatrio. Confesso che mi colpisce in un documento così importante ritrovare uno stereotipo del pregiudizio fra matto, straniero e violenza, su cui Focault avrebbe certo scritto pagine memorabili.

Il documento, pur dando indicazioni che entrano in situazioni e prassi sanitarie, non è corredato da bibliografia e non vengono forniti pertanto riferimenti che supportino la asserita maggiore frequenza di disturbi mentali nelle situazioni di aggressione, e peraltro

Oltre alla distanza con la letteratura sul tema specifico della violenza verso gli operatori, emerge anche la distanza rispetto alla letteratura sul rapporto fra violenza in genere e malattia mentale. Rimane al riguardo classica la monumentale meta-analisi di Bonta, Law & Hanson (1998) che confrontando situazioni di violenza con o senza disturbi psichiatrici, individuavano ben 35 fattori coinvolti nella violenza, la maggior parte comuni ai due gruppi, e solo alcuni legati in modo specifico a malattie mentali o uso di sostanze, ma senza particolari effect size nella genesi della violenza. La conclusione negava quindi una specifica generale correlazione, come confermato anche da lavori successivi.

Credo che sia poco vantaggioso operare forzate semplificazione del problema della violenza contro gli operatori sanitari, un fenomeno che mostra invece, in tutto il mondo, la crisi profonda che si sta creando fra organizzazione della salute ed utenti; e avverto con preoccupazione che questa semplificazione venga risolta con la indicazione del disturbo mentale come riferimento prioritario, riproponendo di fatto ancora una volta un ruolo della psichiatria per la gestione di situazioni che, nella maggior parte dei casi, non sono invece né legate solo alla persona né tantomeno alla clinica, ma molto più spesso riconducibili alla situazione. Il rischio è di affidare alla psichiatria responsabilità improprie, per le quali non si hanno corretti strumenti gestionali, riproponendo uno stigma che danneggia invece la gestione delle situazioni di effettiva competenza.

Ci troviamo in una fase involutiva della psichiatria, con sempre meno risorse ed idee, e la sempre maggiore tentazione di risolvere i problemi con ospedalizzazioni e soluzioni istituzionali. E mi preoccupa in tale fase ritrovare anche il rischio, avvalorato dagli stessi Dipartimenti di salute mentale, a dispetto delle celebrazioni pubbliche sulle giornate della salute mentale, di riproporre elementi di stigma che rappresentano un ulteriore rischio neomanicomiale.

Andrea Angelozzi

Psichiatra


Bonta J., Law M. & Hanson K. (1998). The prediction of criminal and violent recidivism among mentally disordered offenders: A meta-analysis. Psychological Bulletin, 123(2), 123–142. DOI: 10.1037/0033-2909.123.2.123.
Vento S., Cainelli F. & Vallone A. (2020). Violence Against Healthcare Workers: A Worldwide Phenomenon With Serious Consequences. Frontiers in public health, 8, 570459. DOI: 10.3389/fpubh.2020.570459.



04 dicembre 2023
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