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Complessità in medicina. D'accordo, ma usciamo dal dogmatismo

di Eleonora Franzini Tibaldeo

17 MAG - Gentile direttore,
ho letto con attenzione l’articolo del Prof. Cavicchi (QS -14 maggio) sulla complessità in medicina, e non posso nascondere un certo grado di stupore e sconcerto. Ormai si sa, il Prof. ha questo innato talento a scovare e ad anticipare problematiche che si renderanno impellenti negli anni avvenire.
Come si potrà affrontare la complessità in medicina? Chi potrà mai insegnare la complessità e il pensiero complesso? Non di sicuro la Facoltà, per ora. Come giustamente si sa, in base alla tabella 18, si devono seguire degli obblighi formativi che ormai sono vecchi, non aggiornati alla situazione attuale. Per esempio ci si sofferma ora sulla gestione del malato complesso e sulle malattie complesse, ma nessuno mai ci ha parlato del principio di incompletezza e di incertezza, oppure del fatto che ciò che è antagonista è anche complementare. Insomma nessuno ci ha insegnato il pensiero complesso, anzi siamo in un’epoca in cui il pensiero riduzionista spiega, dà sicurezza, dimostra, e ha delle evidenze, ma fa una pecca: spiega semplificando. Per avere ordine (cito le parole di Morin) si riduce tutto ad una legge, a un principio, semplificando, ma l’iper-semplificazione è una “patologia” della mente perché ci rende ciechi di fronte alla complessità del reale.

Prof. Cavicchi ecco come siamo formati: ad avere l’ossessione di ricercare la causa o il principio o la legge, (un po’ come fanno i fisici che sono alla ricerca spasmodica della legge universale) e a sapere che ci sarà sempre un responsabile al di sopra di noi. Quindi alla domanda “La complessità ve la insegnano?” la risposta è “No!” Tutti noi e le generazioni passate siamo e siamo stati assuefatti da un concetto di finta complessità, parziale e riduzionista, e allora ci si spiega perché sono necessarie così tante figure manageriali, sovra-manageriali, cliniche e amministrative che altro non fanno se non complicare un ambiente già di per sé complicato (oltre alla sua naturale complessità). E addio, quindi, alla nostra autonomia e alla nostra capacità di essere autori e agenti responsabili, addio quindi al lavorare nella complessità, nell’intero; e questo è un male perché apparentemente semplifica, ma come tale vediamo e viviamo quotidianamente tutto ciò che ne consegue.
“Il reale è l’unità costituita da tutte le sue variabili interagenti: il malato, la sua sfera bio-psico-sociale, il contesto in cui si trova, dove viene curato e da chi, per cosa viene curato, l’impatto economico per la sua cura, ecc” (Cavicchi – QS 14 maggio).

Come fare allora? Come poter cambiare il pensiero e far in maniera che il particolare venga incluso nel tutto e vice versa? Ci vorrà per forza un secolo? Dovremo arrivare ad un livello tale di malessere da dover per forza cambiare?
Ovviamente, come afferma lo stesso Morin, la necessità di indagine e verifica ci deve essere, altrimenti si farebbe un errore incalcolabile si negherebbero scoperte sensazionali che hanno veramente avuto il pregio di portarci oltre, ma è necessaria una formazione alla clinical governance: ossia alla clinica e alla managerialità.

Tempo fa alcuni di noi fecero un’esperienza interessante: partecipammo ad un programma di medicina narrativa. Lo stupore mio non fu tanto legato al fatto che essa esuli dai classici canoni della raccolta anamnestica, bensì del fatto che ebbi la possibilità di mettere in pratica (allora a mia insaputa) i tre principi della complessità: il principio ologrammatico, la non linearità tra causa ed effetto, la non possibilità della conoscenza completa. Ora mi rendo conto, grazie alla questione sollevata dal Prof. Cavicchi, che per accedere alla complessità e comprenderla senza semplificarla, si deve uscire da tutto ciò che è dogmatico e teorico fornitoci durante il percorso di studi, è necessaria la riflessione “filosofica” e il non ostinarsi a separare la parte dal tutto. È stata dunque un ABC di una probabile clinical governance?

L’augurio che faccio a me e a tutti i miei colleghi è di imparare ad essere dei medici complessi, in grado cioè di lavorare nella complessità!
 
Eleonora Franzini Tibaldeo 
Studentessa in medicina a Torino

17 maggio 2014
© Riproduzione riservata

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