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Il dibattito sul comma 566 e l’impoverimento del lavoro sanitario

di Danielle Vangieri

21 APR - Gentile direttore,
stiamo seguendo con grande interesse e attenzione il dibattito che si è sviluppato intorno al comma 566, della legge di stabilità, che intende modificare, ridefinendoli, i perimetri della professione infermieristica e di quella medica, e che tra le conseguenze più fragorose sta avendo quella di aver innescato un conflitto molto duro tra i soggetti interessati (i medici da una parte, gli infermieri e le altre professioni sanitarie dall’altra).

Soggetti che con pur alcune buone ragioni e legittime aspettative (per i medici, tra le altre, quelle del riconoscimento della loro potestà sul governo clinico e di una de-burocratizzazione della loro professione; per gli infermieri quelle della loro autonomia, data dalla loro formazione professionale, e del loro ruolo nell’organizzazione) stanno cedendo, come fa giustamente notare il professor Ivan Cavicchi, alla ragione del perimetro del giardino, anzi del proprio orto da difendere, perdendo di vista qual è la vera posta in gioco: l’attacco mortale al lavoro pubblico sanitario, la destrutturazione di quello che rappresentava, pur nei suoi molti vizi, in ogni caso un architrave importante del sistema sanitario e, attraverso questo attacco, segnare un colpo letale al nostro servizio sanitario nazionale.

Naturalmente non siamo di fronte ad una novità, è almeno dalla fine degli anni ottanta che si è aperta in Europa, e naturalmente nel nostro Paese, una discussione serrata sulla fine del Welfare State, così come l’abbiamo conosciuto nel ‘900, e sulla necessità di sostituirvi un sistema in cui sia il mercato il nuovo regolatore tra il bisogno/domanda e offerta dei servizi. Ragionamento che ha interessato, ovviamente, anche i servizi sanitari nazionali universalistici e pubblici.

Una discussione che ha investito, in primo luogo, il ruolo e la funzione che lo stesso Stato, e di conseguenza il sistema pubblico, devono assumere nell’allocazione e redistribuzione delle risorse e il cui obiettivo finale era, e rimane, il costante indebolimento dello stesso e, infine, la sostituzione di un doppio sistema pubblico/ privato in cui il primo avrà una funzione sempre più residuale.
Ma, per ritornare all’oggetto specifico, della vicenda comma 566, in altre parole, stiamo assistendo ad una lotta intestina, chi per guadagnare, avanzando, qualche metro, chi per difendere quello stesso metro, mentre qualcun altro prepara il diserbante che distruggerà non solo i singoli orticelli ma la stessa possibilità di coltivazione per la pubblica comunità.

Degli ortolani in campo, quello che colpisce è, insomma, che essi sembrano aver scelto la versione più manichea della massima che Martino consegna al Candido di Voltaire “ vous devez cultiver votre jardin”.  L’uomo, in questo caso il professionista/ortolano, di un orto o dell’altro, scegliendo di rinchiudersi nella solitudine e nell’egoismo, difendendo il proprio perimetro/orto, non si rende conto che la minuta difesa dei propri talenti, in solitudine, pensando ognuno di salvaguardare se stesso, rinunciando alla collaborazione/cooperazione con i talenti altrui, contribuirà a determinare una generale sconfitta. L’unico vincitore sarà chi, con abile regia, conduce il gioco.

In questa vicenda, infatti, si sommano una regia politica, con regista il Partito Democratico, precisa, ben architettata che ha come obiettivo strategico il de-finanziamento strutturale della sanità pubblica. Il protagonista principale -nel ruolo della vittima sacrificale alle esigenze di risparmio richiesto dal suddetto de-finanziamento-, il lavoro sanitario pubblico. Gli attori (!) quelli che il professor Cavicchi definisce, appunto, gli ortolani che si affannano a difesa del perimetro del proprio campo. Gli spettatori che assistono passivamente, da non agenti, allo spettacolo in programma.
Spettatori passivi, tra cui non vorremo essere anche noi ed è per questo che non solo condividiamo i timori, ma vogliamo raccogliere la sfida che il professor Cavicchi ci lancia. Dare il nostro contributo per uscire dalle secche.

Sostenere, pur con le nostre limitate forze, la sua corposa proposta di riforma del lavoro sanitario che, partendo dall’ammissione del problema e della necessità di una ridefinizione e ridistribuzione dei ruoli, delle funzioni e dei contenuti -all’interno del principio che egli definisce di “engagement” (coinvolgimento, impegno, relazione)- garantisce a un tempo autonomia e cooperazione. Integra e non divide, riunificando, riportando a interezza anche chi, il malato, del lavoro sanitario dovrebbe essere non, come sempre più avviene, il destinatario passivo, come lo spettatore di cui sopra, ma esso stesso agente.

Per parafrasare ancora una volta la massima volteiriana, il giardino che abbiamo bisogno di coltivare è quello del lavoro sanitario come ri-capitalizzazione della sanità pubblica e non il suo contrario. Quello di cui abbiamo bisogno è modificare radicalmente il paradigma culturale dell’approccio politico ai problemi e ai bisogni del cittadino. Abbandonando il paradigma del denominatore, in quante parti divido l’intero, che sempre più rincorre l’iper-settarismo, e ragionare di come ridò, invece, valore all’intero. Partendo dalla consapevolezza che la posta in gioco è, come si è visto, altissima. La perdita della posta, inestimabile.

E’ anche, ma non si tratta solo, di dumping salariale, di flessibilità su cui trovare i margini più favorevoli di manovra.
E’ anche, ma non si tratta solo, di un agire brutale sulla riduzione del costo del lavoro, come le politiche economiche imperanti, in tempo di austerity, impongono.

Per quanto, anch’io sono convinta che le regioni, a partire dalla mia, si sono fatte anche due banali conti e, come ha avuto modo di illustrarci il governatore Rossi, assodato che quella del personale sanitario è la voce di costo più cospicua di un bilancio sanitario regionale si è proceduto di conseguenza: 51mila dipendenti uguale circa due miliardi e mezzo del costo complessivo del sistema uguale ridurre (per adesso) del 10% il personale pubblico uguale mettere a regime, per i prossimi anni, 100milioni di euro.

Per quanto, come ho già avuto modo di dire sul vostro quotidiano, innegabilmente, da tempo, il lavoro pubblico ha subito un continuo impoverimento, attraverso le tante forme di esternalizzazione e privatizzazione dei servizi: prima era toccato ai cosiddetti servizi accessori, oggi tocca al core delle cure professionali.

Per quanto, proliferano nuove, per quanto non inedite figure, come il “badantato”, che vanno funzionalmente a coprire pezzi di servizio, come la cronicità, da tempo espunti dalle cure ospedaliere -ma anche da quelle dei servizi territoriali-, che oggi rappresentano un’edizione nuova, quella dell’esternalizzazione dell’esternalizzazione, con nuovi attori, sempre più poveri, all’interno di una complessiva impoverente frammentazione del mondo del lavoro.

Per quanto, proliferano, impensabile sino a qualche tempo fa, nelle professioni di cui si sta discutendo, forme di lavoro interinale, a chiamata, a scomparsa, il precariato del precariato. Per quanto, l'impoverimento del lavoro sanitario, il suo de-mansionamento, si riflette drammaticamente sulla qualità e la sicurezza delle prestazioni, ripercuotendosi negativamente sulla sua capacità, che è anche un suo importantissimo valore intrinseco, di produrre salute.

C’è un di più! Un di più, per cui il regista è abilmente lavoro, crea le condizioni, l’humus favorevole. Questo di più pretende che il lavoro sanitario pubblico perda irrimediabilmente quel “hig value” che dovrebbe caratterizzarlo e segnare la differenza tra la mera prestazione d’opera ed un forte valore etico. Valore che pesa, non solo per una qualità intrinseca del lavoro sanitario (versante oggettivo), ma per una valutazione, per il fatto che qualcuno (versante soggettivo) lo stima prezioso.

Ridurre, per cui, il lavoro sanitario pubblico a mera prestazione d’opera in cui, in definitiva, il prestatore si equivale, togliere al lavoro pubblico ogni sentore di “valore aggiunto”, significa rendere più semplice il processo di dismissione del servizio sanitario nazionale, che è il vero obiettivo. Considerare come equivalente l’altro pilastro, quello privato/assicurativo. Dissodare il terreno per oscuri accordi tombali, come il patto transatlantico sul libero commercio dei servizi, per il sistema di welfare europeo.

Questo di più, per cui il regista (sempre il Partito Democratico) sta tessendo la sua cattiva tela, ha cantierato la sua alacre cattiva opera, rischia di ingenerare una regressione civile in cui persino un bene incomprimibile come quello alla salute, perde di valore e di significato, all’interno di una afonia generale.

Dovrebbe far riflettere l’assordante afonia di quanto la cattiva opera dell’altro produce. Indurci, come Sinistra, a riprendere parola, ad interrogarci su quale eredità culturale, pur riformata per quel che il tempo nostro richiede, puntare per ricostruire un senso, un significato rinnovato ad un grande tema come questo che riguarda, portati profondi della psiche umana, la sofferenza, il dolore, in ultima analisi, la stessa vita e la morte. Dovrebbe spingerci a ragionare sulla costruzione della nostra opera per salvaguardare riformando l’inestimabile perimetro del giardino della sanità pubblica e del diritto alla salute.

Per chiudere, queste brevi riflessioni, ritorno allo incipit iniziale del giardino coltivato da Candido, il quale, rappresenta una metafora con più letture. La prima, come visto, è quella del rinchiudersi nell’isolamento del proprio egoismo individuale. Vale per i professionisti, vale per il lavoro, vale per la politica. Ma, il giardino può essere anche quello delle proprie qualità personali, messe a frutto, ampliando dalle doti individuali alle risorse collettive per la realizzazione di un fine generale più alto. Tocca a noi, scegliere come coltivare.

Danielle Vangieri 
Responsabile regionale Rifondazione Comunista Toscana

21 aprile 2015
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