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Rems/1. Il carcere per malati di mente autori di reato non è la soluzione per “liberarle”

di G. Nicolò, S. Ferracuti, F. Veltro

13 MAR - Gentile Direttore,
la riforma degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ha condotto a diverse nuove problematiche dove già si è avuto un suicidio in carcere di una persona che, invece, sarebbe dovuta essere in una Rems. È noto che i tassi di suicidio in carcere sono 25 volte più alti che nella popolazione generale e perciò sarebbe forse auspicabile che persone affette da disturbi mentali non fossero gestite in carcere.
Tuttavia recentemente il Commissario di Governo al superamento Opg ha concluso il proprio lavoro esaltando l’attività svolta dalle Rems (residenze per esecuzione delle misure di sicurezza) dal momento che l’obiettivo di chiudere gli Opg è stato raggiunto.
 
L’obiettivo di chiudere gli Opg è, tuttavia, preliminare al fornire una adeguata salute mentale alle persone con infermità mentale in misura di sicurezza e ai detenuti, come vuole il Dpcm 1 aprile 2008. Ovvero, se si vuole davvero interpretare in senso civile lo spirito del provvedimento, la chiusura degli Opg è solo il passo preliminare per curare allo stesso modo tutti gli infermi di mente autori di reato ed erogare un’autentica assistenza psichiatrica ai detenuti. Il sistema delle Rems ha, infatti, evidenziato dei profondi e pericolosi vuoti normativi, c’è infatti una incapacità ad armonizzare le norme penali alle esigenze di cura e contemporaneamente alla sicurezza della collettività. Non solo, anche i percorsi di cura non sono ben definiti.
 
È sicuramente positivo che oggi alle persone con disturbo mentale autori di reato e giudicati infermi o semi infermi di mente e socialmente pericolosi sia offerta la possibilità di trattamento in un assetto comunitario e una maggiore presa in carico da parte dei servizi territoriali; in tal modo le famiglie sono più prossime ai loro congiunti internati e il numero ridotto (massimo 20 di soggetti per Rems) consente una gestione personalizzata della cura.
 
Tuttavia è anche vero che il personale assegnato alle Rems dalla legge è assolutamente insufficiente. Dopo un anno e mezzo di attuazione delle strutture già osserviamo dei casi di burn out. Il fenomeno della violenza da parte dei soggetti internati ovviamente non può essere abolito per legge (anche se alcuni lo pensano), dal momento che le leggi non cambiano la “natura”. Così il tema della sicurezza degli operatori che vivono in totale prossimità con gli utenti è diventata una emergenza in diverse realtà.
 
Ancora, la distinzione in due livelli assistenziali delle Rems previsti dal Decreto 1 ottobre 2012 del ministero della Salute non è mai stata attuata da nessuna Regione, e neanche sarebbe possibile, dal momento che non esiste una valutazione codificata dei livelli di pericolosità. Il Magistrato o l’Amministrazione Penitenziaria non hanno, infatti, elementi clinici o statistici obiettivi per gradare la misura. I pazienti internati sono inviati presso l’una o l’altra Rems senza alcuna valutazione tecnica del livello di sicurezza necessario (come se le persone in misura di sicurezza fossero tutte identiche).
 
Le persone inferme di mente che purtroppo sono cronicamente aggressive, parzialmente trattabili e di difficile gestione con il solo intervento sanitario sono un problema emergente e in alcuni casi hanno messo in grande difficoltà intere strutture, impedendo ad altri pazienti di beneficiare dei trattamenti. Per questo sottogruppo le necessità di sicurezza sono altissime e le Rems, come sono oggi organizzate, sono del tutto inadeguate.
 
La risposta di uno stato civile per soggetti non trattabili, con elevati tratti di antisocialità, assenza di empatia, non può essere solo il carcere, come di fatto è ipotizzato in alcuni progetti legislativi, ma dovrebbe essere una struttura sovraregionale ad elevata sicurezza con altissima intensità di cura e protezione. Il carcere non è una risposta a nulla se non alla sicurezza sociale e ha un livello di assistenza psichiatrica di minore intensità assistenziale e specificità. Inoltre vi sono enormi differenze tra una realtà penitenziaria e l’altra e l’integrazione con i Dipartimenti di Salute Mentale procede con difficoltà.
 
Nella prospettazione di alcuni ingegneri sociali creare un circuito privilegiato per “veri” pazienti autori di reato da inviare in Rems e “mezzi pazienti” (i semi infermi di mente o i detenuti definitivi che sviluppano una patologia mentale) potrebbe risolvere il problema a scapito di tutti i dannati che rimarranno in carcere con una assistenza psichiatrica minimale, quasi sempre in condizioni di sovraffollamento.
Questo, a nostro parere, è un ragionamento cinico per continuare a sostenere la “bontà” di una riforma attuata senza la dovuta riflessione che la delicatezza del tema necessitava, come già evidenziato da Basaglia che giudicava il problema irrisolvibile.
 
Si motiva una scelta quale quella prospettata (tutti i pazienti psichiatrici in carcere tranne i pochi con un giudizio definitivo) affermando altrimenti salterebbe la rivoluzione che ha chiuso gli Opg. Si provi quindi a pensare ad un ragionamento utilitaristico di questo tipo in un ambito di salute come, per esempio l’oncologia. Non sarebbe eticamente accettabile.
 
Nel mondo civile le persone hanno diritto di accesso alle cure sulla base della loro patologia e dei loro bisogni non in base alla necessità di far funzionare a tutti i costi una riforma che sta mostrando tutti i limiti già previsti dai tecnici e dagli operatori del settore. Un esempio su tutti, la riduzione dei posti letto per esigenze di risparmio: attualmente abbiamo circa 290 persone in attesa di posto letto in Rems. Alcuni sono impropriamente in carcere (dove magari si suicidano) e la gran parte liberi con possibile danno per le persone a loro vicine. Di fronte ad una scelta tra lasciare libera una persona che ha un elevato rischio di recidiva e metterla in carcere, i magistrati, logicamente, tendono ad inviare questi soggetti in carcere.
 
È anche molto probabile che il numero di persone in attesa di posto letto in Rems aumenterà. La risposta a tale emergenza potrà essere una migliore appropriatezza degli invii in Rems, la valutazione con il Dipartimento di Salute Mentale di programmi alternativi, cercando di evitare l’invio in carcere dei soggetti con provvedimento provvisorio. L’attuale misura in discussione, invece, li vuole inviare in carcere.
 
Certo se si configurasse una simile norma si avrebbe il risultato di svuotare le Rems, dove più del 50% dei soggetti ha un provvedimento di misura di sicurezza provvisorio. Così queste persone sarebbero inviate in carcere senza la dovuta assistenza, e con un probabile, ulteriore, incremento dei tassi di suicidio.
 
Ci troviamo in una situazione contradditoria: da un lato il paradigma di riferimento è il trattamento comunitario stile Rems, ma dall’altro se non vi sono posti e denaro sufficiente per gestire tutte queste persone allora si invia in carcere il 60 % delle persone che dovrebbero essere in Rems. Anche se la gran parte sono persone con disturbi mentali gravi. In questo modo si potrà dichiarare trionfalmente che l’Italia ha superato anche le Rems e che sono scomparsi dal territorio nazionale i soggetti con patologia psichiatrica che hanno commesso reato. È un gioco non etico attuato sulla vita degli ultimi degli ultimi.
 
Infine, non meno importante, la Legge non ha cambiato il codice penale, non ha chiarito chi assolva alle funzioni di direttore penitenziario in una struttura ove si eseguono misure di sicurezza detentive, come si tutelino i diritti degli internati p.e. per quanto previsto dall’art.123 Cpp., chi debba fare le notifiche degli atti giudiziari, chi debba accompagnare e (quindi scortare, considerata la pericolosità) un soggetto fuori dalla Rems, ma soprattutto pare che nessuno, al di  fuori di magistrati e tecnici si ponga il problema di come risolvere la assoluta mancanza di posti.
 
All’inizio della riforma si insisteva sulla teoria che la responsabilità della mancanza di posti fosse determinata dalla neghittosità dei Dipartimenti di Salute Mentale secondo alcuni molto restii a prendere in carico pazienti con storia di reato. Il dato è infondato, perlomeno nel Lazio, ove l’86% dei pazienti in Rems ha un riferimento di un Dsm territoriale. Si chiede, allora, che il turn over dei pazienti si velocizzi. Richiesta bizzarra. La letteratura scientifica internazionale afferma già dai primi anni ‘80 che per ottenere un cambiamento misurabile in psicoterapia (per un disturbo psicologico comune) il tempo minimo sia di 6 mesi. Per i disturbi di personalità il tempo minimo va da 1 a 3 anni. Per pazienti come quelli ospiti nelle Rems è logicamente maggiore, non comprimibili in meno di 3-5 anni di trattamenti intensivi e consecutivi.
 
È utile ricordare che non si può affrontare il problema delle Rems senza affrontare quello del carcere e non si può affrontare il problema del carcere senza entrare nel merito della valutazione dell’attività psichiatrica e psicologica in ambiente penitenziario. Sperare di scorporarli è l’ennesimo inganno del pensiero.
 
A nostro parere è necessario rivedere profondamente la riforma, colmare i gravissimi buchi legislativi, e sviluppare programmi di salute mentale che tengano conto delle linee guida richieste dalla legge Gelli basate su evidenze scientifiche.
 
Abbiamo chiuso gli Opg, ma la polvere è tanta e sotto il tappeto.
 
 
Giuseppe Nicolò
Psichiatra Direttore Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche Asl Roma 5

Stefano Ferracuti 
Professore Associato Psicologia Clinica, Uoc Medicina Legale e Risk Management, Azienda Ospedaliera Sant’Andrea
 
Franco Veltro 
Direttore Dipartimento di Salute Mentale Campobasso

13 marzo 2017
© Riproduzione riservata

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