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Regionalismo differenziato. Non nascondiamo i veri problemi

di Roberto Pieralli

06 FEB - Gentile Direttore,
privo di qualunque giacca e a titolo strettamente personale le scrivo per esternare una riflessione sul grande dibattito e polemica relativa all’ipotesi di Regionalismo differenziato. Gli articoli a riguardo oramai invadono le pagine del Suo quotidiano, portando alla luce in estrema e semplificata sintesi alcuni aspetti ricorrenti.
 
Il primo è il timore che le regioni del Sud restino indietro non ricevendo più il supporto economico necessario. Poi il timore che i contratti di lavoro e del reclutamento si frammentino perdendo la capacità negoziale e diversificando i modelli di assistenza e ancora il timore che una diversa visione organizzativa della formazione faccia perdere la “consuetudine” nella quale si sono abituati coloro che fino ad oggi hanno governato i percorsi professionali medici nel post-laurea.
 
Regionalismo differenziato: il vero problema nasce dal fatto che il paese che viaggia a diverse velocità. Il nord soffre oggi una drammatica carenza di medici e personale e vuole reagire, il Sud probabilmente non percepisce ancora questo problema allo stesso livello di intensità pur essendo già afflitto nei servizi di emergenza urgenza.
 
Guarda caso tra i nodi cruciali delle richieste di autonomia ci sono l’accesso dei medici al SSN, anche senza specializzazione, e la formazione post-laurea. Oggi chi resiste ai cambiamenti strutturali nella formazione post-laurea e nell’accesso al SSN con modifiche nazionali, di fatto, sta costringendo e accelerando il processo di autonomizzazione delle regioni che non riescono più, con gli strumenti odierni, a garantire i servizi.
 
Nel regionalismo differenziato infatti viene chiesto dalle Regioni la possibilità di staccarsi da una zavorra normativa che ha portato a superare il limite sulla continuità dei servizi. Insomma, resistere oggi a un cambiamento drammatico, che poteva (e avrebbe dovuto) essere gestito, anche e forse diversamente da come oggi è necessario, almeno 5 o 10 anni fa, comporta paradossalmente accelerare un processo di autonomizzazione cui difficilmente sono prevedibili tutti gli esiti.
 
Personalmente provo un certo grado di diffidenza verso modelli di maggiore autonomia in un contesto nel quale la sanità è ancora terreno di caccia della politica. Sarei molto più tranquillo se a maggiori autonomie corrispondesse un modello di totale distacco dal sistema politico.  Pur credendo che nella concorrenza e nella diversità si sviluppino continui stimoli all’evoluzione verso sistemi migliori, nel mondo della sanità alcuni legami, alcuni collanti omogeni, sono probabilmente un’opportunità e non un problema.
 
Servono strumenti elastici e garanti dei principi dell’universalismo e di equità di accesso alle cure. Parliamoci chiaramente: oggi i principali collanti che mantengono unito il SSN sono i contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ed i percorsi di formazione, per i medici, di formazione medica post-laurea. Ma proprio quei collanti oggi per alcune regioni sono divenuti un incubo che da strumento di coesione si trasformano una prigione giuridica che intralcia l’erogazione dei servizi sanitari per via della carenza di personale con formazione post laurea. Inutile lamentarsi del passato, le modifiche si dovevano fare quando ancora la situazione non era così grave.
 
Ora l’unico modo di affrontare una crisi è quella di trattarla come tale, con provvedimenti energici e risolutivi. Quando un sistema non è più in grado di trovare soluzioni al suo interno, allora è il sistema stesso che ha probabilmente esaurito il suo ciclo di vita in quell’ambiente. Va cambiato.
Negarlo e tentare di aggrapparsi a tutto per prendere tempo e ritardare un cambiamento indispensabile significa costringere al taglio di quei legami che oggi sono divenuti i cappi al collo delle regioni in difficoltà nel garantire i servizi. La paura di evolvere non può renderci ciechi davanti all’evidenza che i servizi si stiano bloccando.
 
La paura di evolvere non può farci pensare che qualunque cambiamento debba necessariamente perdere qualità, perché questo, dopo Galileo, è tutto da dimostrare. Battere i piedi non serve, oramai è lapalissiano che vi siano stati calcoli errati e strategie poco lungimiranti che possono essere recuperate in corner, forse.
 
Adesso è il momento di scontrarsi con la realtà e farci un bel bagno:
• piaccia o no i pronto soccorso sono portati avanti da un numero impressionante di medici senza titoli, che chissà come tutti tengono li ma che vengono contestati quando si pensa di esaminarne le competenze maturate,
• nei settori della medicina generale lavorano migliaia di medici privi di formazione in barba alla normativa italiana e comunitaria,
• i contratti atipici stanno diventando la norma per la copertura di molti reparti specialistici,
• i pensionati vengono richiamati per garantire i servizi ospedalieri,
• i giovani fuggono verso altri paesi dove non è così macchinoso il meccanismo di formazione e dove sono considerati professionisti e non studentelli.
Davanti a tutto questo come si fa a tentare ancora di “non cambiare” o timorosamente tentare solo “piccoli correttivi”. Oramai il paziente è seriamente compromesso, non saranno le carezze a salvarlo, forse solo una “terapia intensiva” di alta qualità potrà evitarne l’arresto completo. 
 
Roberto Pieralli
Medico di Emergenza Sanitaria Territoriale
 


06 febbraio 2019
© Riproduzione riservata

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