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Diagnostica ai medici di famiglia: un sassolino nello stagno

di Maurizio Andreoli, Salvo Calì

13 NOV - Gentile direttore,
è proprio vero che si ‘ferma è perduto’, e allora rimettiamoci in marcia, ma con idee e proposte e senza fare sconti a nessuno, come si è fatto troppo spesso in passato. Su come dovrebbe cambiare lo studio del medico di famiglia, per esempio, è urgente continuare le riflessioni di queste settimane sulla vostra testata), partendo appunto dall’iniziativa del ministro Speranza sulla cosiddetta strumentazione diagnostica di primo livello. Sgomberiamo il campo da alcune suggestioni: la proposta non è ‘l’uovo di Colombo’, citando il professore Cavicchi, e sicuramente non ridurrà le liste d’attesa. 
 
Non solo: senza la previsione di personale di studio e infermieristico, rischia di essere solo un spot! Tuttavia, è una novità: rimane un sasso gettato nelle acque stagnanti della medicina generale e del conservatorismo che impera da troppo tempo!
 
Quindi in qualche modo utile, perché la proposta rappresenta un bello schiaffo al regionalismo (differenziato?) in sanità:  risorse nazionali pubbliche, per quanto insufficienti, destinate agli studi dei medici di famiglia, equamente ripartite da nord a sud a prescindere da benchmark, pagelle e quant’altro. 
 
Non meno importante è l’implicito (quanto consapevole non sappiamo) riconoscimento della totale inadeguatezza dell’impianto normativo convenzionale, cosa che FISMU afferma da sempre: un disconoscimento di quel medico di medicina generale convenzionato “imprenditore”, se non addirittura “provider” alla lombarda, figura tanto cara alle regioni e ad alcuni sindacati medici. Che ha portato a vantaggi per pochi e alla quasi morte della medicina generale in Italia. Qui invece il messaggio appare diametralmente opposto: il SSN ha il governo politico del sistema, il medico ha quello clinico, deve fare il medico.
 
Che non sia possibile realizzare il “progetto Speranza” senza personale, con gli attuali carichi di lavoro, alle attuali condizioni contrattuali economiche è sicuramente vero. Rischia di apparire una scorciatoia riduzionista (la tecnologia panacea del ritardo strutturale della medicina di famiglia) agli annosi problemi della medicina generale in Italia. I facili entusiasmi di alcuni, oggi, ricordano quelli che accompagnarono negli anni passati quella 'rifondazione' della medicina generale, che terminò nel capolinea della risibile riforma Balduzzi.
 
Allo stesso tempo, è miope chiudersi in un fortino e si deve invece considerare che la tecnologia allarga l'orizzonte dello sguardo clinico, a partire da fonendoscopio e sfigmomanometro che sono stati per oltre un secolo strumenti della quotidianità degli ambulatori medici e delle corsie degli ospedali. Ampliare la visione del medico di famiglia, dotando la sua borsa degli strumenti, che possano aiutarlo a indirizzare correttamente un sospetto diagnostico, è una necessità ineludibile. 
Ma tra entusiasmo acritico e resistenze di una parte conservatrice della categoria (pessimista anche a seguito di un giustificata frustrazione storica e delle molte promesse disattese in questo decennio), troppo spesso si confonde il sacrosanto piano sindacale con quello politico e culturale. 
Sul piano culturale ci sono aspetti importanti che al ministro, ma non solo a lui, sfuggono quando parla di riduzione delle liste di attesa e degli accessi al P.S..
 
Il medico di famiglia non fa lo specialista. Siamo di fronte ad una evidente confusione di ruoli e di “setting”. Se è vero che “avvicinare” al territorio la diagnostica è un obbiettivo strategico da perseguire in epoca di cronicità, non va confuso il ruolo del MMG con quello dello specialista. Lo specialista territoriale deve integrarsi in un team con il MMG, insieme all’infermiere e alle figure socio sanitarie. Allo specialista spetta la diagnosi di secondo livello, anche e spesso strumentale. Ne ha pieno titolo per competenza, cultura e responsabilità professionale. 
 
E allora la diagnostica, o meglio la moderna strumentazione, nello studio? È utile se non si incorre nell’errore gravissimo di voler trasformare i medici di famiglia in “piccoli specialisti”. Qui entra in gioco la cultura della medicina generale e il suo setting: conoscenza longitudinale del paziente e del suo contesto e prossimità. Un ECG o una spirometria hanno valore diagnostico, sensibilità e specificità diversissime nelle mani del MMG piuttosto che in quelle del cardiologo o del pneumologo. Si sono purtroppo lette dichiarazioni di autorevoli esponenti sindacali che paiono ignorare questo assunto fondamentale. Il MMG che abbia consapevolezza del suo ruolo invece lo sa e non ne vuole sapere di fare il “piccolo specialista apprendista stregone”, ma la possibilità di monitorare alcune situazioni, specie in cronicità, nello studio o addirittura al domicilio ha un grande, innegabile valore, con ricadute sulla qualità della presa in carico.
 
E allora perché non accettare la sfida del ministro e mostrare un atteggiamento attento, critico sì ma propositivo, davanti ad una innegabile novità. Consideriamo questo come un sasso nello stagno, e rilanciamo sul terreno della prospettiva, ricordando al ministro che la pur positiva iniziativa non può fermarsi a questo aspetto ma richiede un ripensamento globale delle cure primarie e della formazione dei medici delle cure primarie. Noi lo sfidiamo a provare a scrivere un'altra storia ed essere giusto protagonista della politica sanitaria pubblica italiana.
 
 
Maurizio Andreoli
Presidente nazionale FISMU 
 
Salvo Calì
Centro studi Nazionale FISMU

13 novembre 2019
© Riproduzione riservata

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