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Immunodeficienze primarie. Gestione clinica di una patologia rara con difficile diagnosi precoce

di Marco Landucci

Le immunodeficienze primarie (PID) sono un grande tema della medicina dell’ultimo secolo. Ancora non se ne conosce l’impatto epidemiologico sulla popolazione. Ad oggi, in Italia, sono stati identificati 200 pazienti affetti da immunodeficienza primaria. Si tratta di patologie rare con un vasto corteo clinico che ne rende difficile la diagnosi precoce.

25 GIU - Nel 1950 le immunoglobuline entrano nella disponibilità terapeutica del medico. Nel 2015, 65 anni dopo, sono ancora a disposizione con lo stesso principio attivo, ma in oltre mezzo secolo sono cambiate e sicuramente migliorate le modalità di somministrazione. “Negli anni ‘80 abbiamo avuto la grande novità della somministrazione endovenosa. Ci sembrò una grande rivoluzione, perché avrebbe garantito al paziente una migliore qualità di vita e una maggiore autonomia. E così fu. Qualche anno fa abbiamo assistito a una seconda rivoluzione, ancor più tesa all’emancipazione del paziente: la comparsa della somministrazione sottocutanea, da effettuarsi una o due volte alla settimana”. A parlare così è Alessandro Plebani, professore di Pediatria all’Università di Brescia, uno dei massimi esperti italiani di immunodeficienze primarie.

Le immunodeficienze primarie (PID)– ovvero congenite, non causate da altre malattie - sono un grande tema della medicina dell’ultimo secolo. Ancora non se ne conosce l’impatto epidemiologico sulla popolazione. “Ad oggi, in Italia, abbiamo identificato 200 pazienti affetti da immunodeficienza primaria. Di questi, il 42% ha familiarità, gli altri sono pazienti sporadici”, dice Isabella Quinti, Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università La Sapienza di Roma. “Ogni Paese europeo ha un registro delle immunodeficienze, ma il quadro epidemiologico non è ancora preciso. I dati italiani arrivano da 37 centri per la cura delle immunodeficienze primarie, che dal 1997 lavorano in network, nutrendo un database nazionale”.

Si tratta dunque di patologie rare, ma con un corteo sintomatologico e clinico assai vasto che ne rende difficile la diagnosi precoce. “Negli Usa ci sono 250 mila persone con immunodeficienza primaria”, aggiunge Richard L. Wassermann, della University of Texas Southwestern Medical School di Dallas, “e quasi nessuna riceve una diagnosi tempestiva: la forbice di attesa varia dai 5 ai 10 anni. Inoltre, prima di ricevere una diagnosi di immunodeficienza, un paziente viene ricoverato in ospedale in media due volte”.
 
La terapia
“La terapia sostitutiva con immunoglobuline rappresenta il cardine del trattamento nei soggetti con immunodeficienza primaria, ma va associata a vaccinazione e terapie specifiche per le patologie parenchimali di cui soffre il paziente”, dice Andrea Mattucci, Azienda Ospedaliera Careggi di Firenze. “Per esempio, chi ha un rapido decadimento delle immunoglobuline sieriche è maggiormente affetto da infezioni respiratorie, che quindi andranno curate con terapie specifiche. “Anche le modalità di somministrazione di immunoglobuline – aggiunge Mattucci – devono essere scelte con cura, paziente per paziente. Così come la posologia: aumentare la dose di terapia sostitutiva non dà maggiori risultati rispetto a una meticolosa attenzione all’intervallo della dose”.

Qual è il profilo del candidato alla somministrazione sottocutanea? “Il paziente eleggibile è soprattutto giovane, oppure presenta difficoltà all’accesso venoso, problemi cardiaci e/o renali, difetto selettivo assoluto di IgA, infezioni sistemiche. È necessario un training per insegnare la metodica. Occorre poi monitorizzare il livello sierico raggiunto. Solo successivamente il paziente potrà iniziare la diagnosi a domicilio, autonomamente. Oggi abbiamo a disposizione un nuovo tipo di immunoglobulina, che sfrutta un enzima, la ialuronidasi umana ricombinante, che facilita l’assorbimento della terapia e permette di avere una concentrazione di picchi di immunoglobuline simile a quella mostrata dalla somministrazione endovenosa”. L’uso della terapia immunoglobulinica trova spazio anche in altre patologie rare. “Nell’ultimo decennio- conclude Mattucci - è stata estesa anche alla malattia di Kawasaki, all’Esofago di Barret e alla trombocitopenia idiopatica. Off label è impiegata anche in reumatologia, ad esempio nel trattamento delle miositi”.

“L’infusione sottocutanea ha una reattività bassa in termini di effetti negativi, mentre l’endovenosa richiede l’assistenza infermieristica”, ha spiegato Richard L. Wassermann. “Utilizzando la nuova combinazione di immunoglobulina e ialuronidasi umana ricombinante, ci troviamo molto bene. La biodisponibilità è superiore rispetto alle sottocute tradizionali, pari al 90%, e gli effetti collaterali che abbiamo registrato sono solo locali. Indicare un dosaggio gold è difficile. La dose giusta è quella che fa stare bene il paziente, quindi è necessariamente personale. Il livello delle immunoglobuline deve essere misurato una volta all’anno e bisogna confrontare i progressi raggiunti con la qualità della vita e il numero di infezioni eventualmente contratte. Maggiore è il livello delle immunoglobuline nel sangue, minore è il numero delle infezioni. Il prossimo obiettivo clinico della terapia delle immunodeficienze sarà la prevenzione delle infezioni”.

Chi deve essere trattato?
“Il registro europeo per le immunodeficienze dà due indicazioni precise: i difetti anticorpali rappresentano l’immunodeficienza prevalente e le immunodeficienze colpiscono sia i bambini, sia gli adulti” ha sottolineato Isabella Quinti. “Nello scegliere i candidati al trattamento, personalmente tengo conto di questo algoritmo: dosaggio delle immunoglobuline esclusione che la deficienza sia secondaria ad altra malattia ripetizione del dosaggio fenotipizzazione:
A) se gli isotipi sono molto bassi (al di sotto di 300/400/dl) non ha senso procedere alla vaccinazione, quindi il paziente entra subito in terapia con immunoglobuline;
B) se gli isotipi superano questa soglia, si procede con la valutazione del titolo anticorpale. Se il paziente risponde positivamente alla terapia con immunoglobuline, entra nel follow up”.

La gestione clinica
“Per quanto riguarda la gestione clinica del paziente – continua Quinti - dopo l’avvio alla terapia con immunoglobuline, a mio avviso il marcatore trough level non è particolarmente indicativo dell’efficacia del trattamento. Sono inoltre del parere che i pazienti vadano vaccinati anche quando hanno già iniziato una terapia con vaccino”. E per quanto riguarda Il trattamento, quando va individualizzato? “Anche qui – aggiunge Quinti - occorre tenere conto di alcuni parametri da valutare attentamente. Sicuramente si presta all’individualizzazione della terapia il paziente che è a rischio, che ha una bassa quantità di ‘cellule memoria’, presenta un livello delle IgA è inferiore a 7, non risponde alla vaccinazione, presenta delle brochiectasie”.

Autonomia del paziente
Un paziente autonomo, oltre che “protagonista” della propria malattia, è un paziente che pesa di meno in termini di ospedalizzazioni e risorse impiegate. Conclude Quinti: “Rendere autonomo il paziente affetto da PID è un obiettivo possibile, ma non così semplice da conseguire. Negli anni ’80 abbiamo salutato l’infusione endovenosa come la terapia che avrebbe reso autonomo il paziente. Oggi lavoriamo molto bene con l’infusione sottocutanea, che sarà un ulteriore passo avanti per l’autonomia del paziente. Deve però passare un messaggio terapeutico importante: medico e paziente devono mantenere vivo il proprio patto per la salute, al fine di tenere insieme sotto controllo terapia e qualità della vita, perché la malattia, anche se trattata, rimane. Ricordiamoci, inoltre, che a qualsiasi dose le immunoglobuline svolgono un’azione immunomodulante. Sarebbe importante disporre di uno studio che valuti l’effetto biologico prodotto dalla terapia con immunoglobuline”.

Marco Landucci 

25 giugno 2015
© Riproduzione riservata

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