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Riuscirà la Medicina a sopravvivere fino al 2050?

di Federico E. Perozziello

La domanda mi è sorta al termine della lettura dell'ultimo libro di Ivan Cavicchi. Un libro che appare come uno degli ultimi salvagenti lanciati a una Medicina che si sta auto dissolvendo da sola nelle sue ragioni esistenziali per non aver voluto affrontare in modo consapevole e diffuso le ragioni del proprio stesso esistere. Non abbiamo molto tempo per cambiare questo esito. Dobbiamo comunque agire

01 APR - Riuscirà la Medicina a sopravvivere fino al 2050? Questo pensiero, non certo beneaugurante per un medico, mi ha attraversato la mente appena terminata la lettura del nuovo e intrigante saggio di Ivan Cavicchi La Scienza Impareggiabile (Medicina, Medici, Malati), Castelvecchi Editore 2022.
 
Con sicura padronanza della materia, il Collega compie un’attenta disamina critica sulle modalità di sviluppo e del costituirsi della medicina come oggi la conosciamo e cerchiamo, con più o meno abilità e acume, di praticarla. Attraverso una dettagliata descrizione viene argomentato il costituirsi della Medicina come Scienza e il suo porsi come strumento, alquanto autoreferenziale, legato allo studio della natura e dei fenomeni che interessano il corpo umano e che siamo soliti definire da secoli con il termine di “malattie”.
 
In questo, l’Autore si muove con un passo e una sicurezza magistrali, legata senza dubbio agli anni di studio e insegnamento nell’ambito universitario della Logica e della Filosofia della Scienza. Chi scrive ha insegnato anch’egli e per anni le stesse materie e, di conseguenza, ha dovuto apprendere per tempo la voragine culturale che separa la pratica medica attuale dal terreno filosofico e concettuale che sta alla base della metodologia scientifica odierna.
 
Metodologia che ormai si riduce alla pedissequa applicazione del così detto “metodo sperimentale”, concepito quando la Terra era ancora giovane, verrebbe da dire, visto che si ispira a una costruzione del sapere partorita nel XVII secolo da Cartesio, Francesco Bacone e Galileo e che ha ricevuto la sua consacrazione dalle quattro regole formulate da Isaac Newton nei suoi Philosophiae Naturalis Principia Mathematica. Più o menonello stesso periodo storico, la Royal Society, fondata nel 1660, stabiliva come non si potesse essere accolti a far parte di questa illustre e prestigiosa Società scientifica senza produrre dei lavori di indagine sulla natura che potessero essere replicati in sedi diverse e dimostrassero pertanto, e lo facessero in modo inconfutabile, la sicurezza sperimentale della verità dimostrata.
 
La Medicina è vissuta a lungo di rendita, filosoficamente parlando, impigritasi sugli sviluppi avvenuti nel pensiero umano nella seconda parte del XIX secolo con il Positivismo, quando divenne imperante la prima delle regole da seguire per un ricercatore moderno della natura biologica delle cose, il seguire i fatti e farsi guidare dal loro essere. Il diventare, per lo studioso della Natura, ciò che un fotografo era per la realtà da lui ritratta, vale a dire un interprete fedele del “come” certi eventi che si manifestavano nei corpi si verificassero. (Claude Bernard). Dal Paradigma del Come ideato da Auguste Comte sono scaturiti gli indubbi progressi della Medicina moderna, la quale gode di una data di nascita temporalmente recente, legata a mio parere al 1864 e alla demolizione da parte di Louis Pasteur (chimico e agronomo, non medico) della possibilità di ogni tipo di germinazione “spontanea” degli esseri viventi microscopici.
 
La strada dei successi che si sono susseguiti dopo il XIX secolo è lastricata, in campo medico, di eventi straordinari, ma come tutte le strade percorse con troppa sicurezza dei metodi e delle direzioni potrebbe forse condurre verso un inferno dei risultati. A questa stagnazionemetodologica ci conduce per mano il libro di Ivan Cavicchi, che descrive con accuratezza e sapienza interpretativa la lunga storia dei ripensamenti scientifici che ribollivano sotto l’apparente sicurezza sperimentale della Medicina. Certo, qualche segnale di allarme relativo al fatto che le cose non erano così scontate e benevole sarebbe stato opportuno cogliere.
 
La separazione della ricerca biomedica dallo studio dell’etica e dalla sua applicazione pratica, come già la intendeva Aristotele nell’Etica Nicomachea, aveva reso la Medicina sempre più fragile da un punto di vista speculativo, aveva relegato i dettami del Giuramento di Ippocrate in soffitta con tutto quello che ne era conseguito e quello che ne derivò furono le centinaia di medici che applicarono i dettami dell’Eugenetica. Quest’ultima costituì il frutto avvelenato della Teoria dell’Evoluzione delle specie di Charles Darwin, scaturita dal lavoro di un suo parente, Francis Galton. La frattura tra Medicina ed Etica nella ricerca medica ha provocato le leggi sulla sterilizzazione forzata dei malati di mente negli Stati uniti del primo Novecento. Una nazione del resto già addestratisi all’eliminazione fisica di un’intera Etnia, quella dei Nativi americani, grazie ai cannoni del generale Sherman.
 
Queste valutazioni sono poi trasmigrate nella orrenda costituzione della medicina nazista, cui si prestarono senza ripensamenti alcuni tra i più illustri cattedratici della medicina tedesca, come i rettori delle università di Berlino e Vienna, che favorirono la partecipazione di decine di medici delle SS alle sperimentazioni criminali nei Campi di sterminio.
 
I crimini commessi in Germania e le sperimentazioni un po’ troppo disinvolte avvenute in contesti come le prigioni americane, provocarono la nascita nel Secondo Dopoguerra della Bioetica moderna, la quale è purtroppo rimasta relegata in una posizione di relativa importanza rispetto alla pratica medica. La ricerca medica seguiva sicura il metodo sperimentale, tenendo in un piano secondario chi fossero i suoi committenti e soprattutto dove si volesse arrivare attraverso le nuove scoperte. Molte delle grandi sfide relative allo stato di salute dell’Umanità sono state, se non vinte, almeno ridimensionate, fino a giungere all’illusione di poter controllare attraverso dei semplici dettami comportamentali e statistici l’interazione tra medico e malato, quell’amicizia tra diseguali, come scriveva Aristotele, che recava con sé innumerevoli margini di indeterminatezza, se non addirittura di dipendenza e di mistero reciproci, come i lavori di Hollender e Balint hanno ampiamente mostrato.
 
Questa inquietudine si avverte distintamente nel libro di Cavicchi, che chiude un’importante discussione sulle radici epistemologiche della medicina attraverso l’enunciazione della Crisi della medicina contemporanea. Una crisi che, guarda caso, sembra trarre il suo inizio dagli anni intorno al 1990, quando in una remota università canadese venivano poste le basi scolastiche della così detta Evidence Based Medicine, un ultimo e arrogante tentativo di voler comprimere la complessità del mondo naturale entro i parametri statistici formulati dall’uomo. Adattando, in modo naturalmente non del tutto consapevole, le valutazioni filosofiche di Charles Sanders Peirce e di Ludwig Wittgenstein alla realtà fenomenica della biologia, si affermò che anche la realtà medica dovesse adeguarsi a ciò che si pensava di essa, ai parametri stabiliti dall’uomo e che non si potesse derogare da questa verità necessitante e necessaria.
 
Le conseguenze sono state, a mio avviso, disastrose, rendendo il medico schiavo della nota ministeriale e del permesso a usare un farmaco piuttosto che un altro, a praticare un’indagine piuttosto che un altro accertamento diagnostico. A giustificazione di tutto si è invocata la migliore allocazione delle risorse, soprattutto di tipo economico, disponibili.
 
Da questo iato, legato alla impossibilità di esercitare con relativa indipendenza il proprio lavoro, che non ha nulla a che vedere con l’ipocrita evocazione del rischio di un arbitrio prescrittivo, nasce uno dei motivi principali della crisi della medicina occidentale, ormai un vestito stretto che i medici non riescono a indossare con naturalezza, un recinto di norme sempre più oppressive e loro stesse terrorizzate dal non riuscire a dominare la complessità della realtà medica e le esigenze sempre più pressanti del pubblico dei fruitori dei Servizi Sanitari. Una popolazione di utenti illusi dai Media del fatto che qualsiasi patologia sia controllabile, se non sanabile, se si disponga delle risorse necessarie a gestirla, a trovare rimedi che non possono che essere rinvenibili e legati soltanto al reperimento delle risorse.
 
Ha ragione Ivan Cavicchi. La Medicina è una Scienza Impareggiabile, un sapere particolare che condivide le conoscenze di altri saperi, ma avendo come obiettivo finale la condizione umana e il suo miglioramento materiale e psicologico, finisce con il perdersi nell’universo della complessità costituito dalla realtà fenomenica del mondo biologico. Un Universo in cui in ogni istante avvengono nel corpo umano milioni di reazioni chimiche che obbediscono, ahimè anche loro, alla Seconda legge della Termodinamica, causando pertanto effetti che possono anche essere imprevedibili e del tutto privi di evidenza. Come ho scritto in altri contesti, il tempo dell’uomo è colmo di vittime dell’Evidenza, di certezze applicate alla pratica medica che con il tempo si sono rivelate fallaci.
 
In questo risiede a mio avviso il merito di Cavicchi e di quello che evidenzia nel suo saggio. L’aver dimostrato con assoluta ricchezza di argomenti la grande numerosità concettuale su cui si adagia il sapere medico tecnico, il quale sembra essere allo stesso tempo inconsapevole dell’enorme lavoro evolutivo che esiste alle proprie spalle perché ragiona ancora attraverso degli stilemi argomentativi nati nel XIX secolo. In questa separazione tra tecnica e cultura pare risiedere la Crisi della Medicina contemporanea, una crisi che si tenta di delimitare attraverso un continuo aggiornamento di regole e di steccati studiati a tavolino con il supporto dell’informatica e di una base dati sempre più complessa e difficilmente gestibile senza le sicure conoscenze del caso.
 
Esiste tuttavia un pericolo maggiore per la Medicina, quello costituito dal rendersi sempre più autonomo degli utenti e dal perfezionamento straordinario dei mezzi informatici. Possiamo ormai prefigurare un futuro non troppo lontano in cui buona parte delle attività ordinarie della Medicina di base non avranno più alcun bisogno della figura umana del medico. Un medico reso ormai un prigioniero di regole opprimenti e della incapacità di gestire la base dati su cui queste regole sono state costruite e imposte dai diversi Sistemi Sanitari.
 
In un continuo divenire delle conoscenze e delle loro applicazioni tecniche la figura del medico, impreparata a gestire filosoficamente i problemi, aliena all’epistemologia della sua stessa professione, finirà per non riuscire a percepire più l’Impareggiabilità del proprio agire e sarà condannata a un ridimensionamento formale e forse alla sua definitiva sparizione. L’orologio che scandisce questo processo sta accelerando paurosamente la corsa da qualche anno a questa parte. Senza una radicale riforma degli Studi medici che renda i sanitari consapevoli del loro ruolo umano e di intellettuali, oltre che di tecnici ed esecutori, il futuro pare segnato.
 
Potremmo, tra qualche decennio, discorrere dell’archeologia dello sguardo medico e farlo in modo differente da quello elaborato da Michel Foucault. Il libro di Cavicchi appare come uno degli ultimi salvagenti lanciati a una Medicina che si sta auto dissolvendo da sola nelle sue ragioni esistenziali per non aver voluto affrontare in modo consapevole e diffuso le ragioni del proprio stesso esistere. Non abbiamo molto tempo per cambiare questo esito. Dobbiamo comunque agire.
 
Federico E. Perozziello
Storico e Filosofo della Medicina

01 aprile 2022
© Riproduzione riservata


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