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Condannato per lesioni colpose il farmacista dietologo 

di Pasquale Giuseppe Macrì 

In ambito sanitario il termine per proporre querela decorre da quando il paziente apprende l'illiceità ed il nesso tra le lesioni e la condotta sanitaria. Ritenendo il principio sopraddetto ormai consolidato, nel respingere il ricorso, la Corte procedeva alla condanna del ricorrente non solo alle spese processuali ma ulteriormente al pagamento della somma di euro 3.000,00 a favore della cassa delle ammende.

18 MAR -

In data 14 marzo 2024, veniva depositata presso la cancelleria della Suprema Corte di Cassazione una importante sentenza della IV Sez. penale, la numero 10658/24.

Nella vicenda processata è coinvolta, quale parte offesa una giovane donna che, con nome di fantasia, chiameremo Carla Rossi, la quale, desiderando dimagrire, nonostante non fosse in sovrappeso (essendo alta 1,72 m e pesante 60 kg) decide di rivolgersi ad un farmacista che, peraltro, nella propria zona di esercizio era "noto anche per l'esercizio di fatto dell'attività di dietologo". Le risultanze processuali fanno emergere che all'assunzione della dieta indicata non erano preceduti accertamenti clinici, visite mediche o analisi emato-cliniche.

Pertanto, la signora Carla Rossi intraprendeva la "terapia" indicata dal farmacista con la seguente posologia: quattro compresse a colazione, quattro compresse a pranzo e quattro a cena, sempre prima dei pasti pasti. Il farmacista aveva, infatti, assicurato che la costante assunzione, nelle modalità e quantità indicate, delle compresse avrebbe "eliminato le calorie introdotte con il cibo", assicurando alla ignara paziente un dimagrimento a prescindere dalla qualità e dalla quantità di cibi assunti.


Molto presto la signora Carla cominciava ad accusare malessere generale, dissenteria e vomito tanto che, dopo poco più di un mese, veniva ricoverata in una clinica dalla quale veniva dimessa dopo tre settimane, il 22 luglio del 2015. Dopo la dimissione, avendo appreso della pericolosità della "cura", la signora si recava da un medico legale che con relazione di consulenza datata, 16 settembre 2016, faceva apprendere alla cliente la connotazione di illecito dell'attività del farmacista ed il nesso intercorrente tra la terapia impropriamente consigliatale e le lesioni subite.
I Consulenti d'Ufficio, nominati in primo grado, avevano accertato da un lato la pericolosità delle sostanze usate e dall'altro che si trattava di farmaci "of label" ma, quello che più rileva è che avevano riscontrato, in termini di piena certezza, il nesso di causa tra l'azione dei farmaci consigliati dal farmacista e le lesioni soferte dalla paziente.

Fin dal primo grado la difesa del farmacista aveva eccepito la non procedibilità dell'azione per tardività della querela. In buona sostanza, in ogni grado di giudizio, sino a farne motivo di ricorso per Cassazione, i difensori dell'imputato ebbero a sostenere che la querela non poteva dispiegare i propri effetti essendo abbondantemente trascorso il termine di prescrizione.

In relazione a ciò, la Suprema Corte ha dichiarato infondato il motivo di ricorso relativo alla tardività della querela, ritenendo che il dies a quo doveva essere individuato non già dall'inizio del manifestarsi delle lesioni né dal loro stabilizzarsi bensì dal momento in cui (nel caso di specie) venne consegnata alla persona offesa la cartella clinica per tramite della quale "la donna ebbe la possibilità di porre in relazione le lesioni patite con l'operato del professionista".

L'interessante sentenza costituisce una valida occasione per la Corte per ribadire un principio di diritto valevole in ordine alla efficacia della proposizione di querela e segnatamente per individuare il dies a quo per validamente accedere al processo penale in caso di lesioni personali colpose, in ambito sanitario, procedibili a querela della persona offesa.

La Corte ritiene consolidato il principio secondo cui "il termine per proporre la querela per il reato di lesioni colpose determinate da colpa medica inizia a decorrere non già dal momento in cui la persona offesa ha avuto consapevolezza della patologia contratta, bensì da quello, eventualmente successivo, in cui la stessa sia venuta a conoscenza della possibilità che sulla menzionata patologia abbiano influito errori diagnostici o terapeutici dei sanitari che l'hanno curata". Nello stesso senso si era espressa la stessa Sezione Penale con sentenza n. 35424 dell'11 novembre 2020.

Ritenendo il principio sopraddetto ormai consolidato, nel respingere il ricorso, la Corte procedeva alla condanna del ricorrente non solo alle spese processuali ma ulteriormente al pagamento della somma di euro 3.000,00 a favore della cassa delle ammende.

Vorremmo inoltre precisare come nei tre gradi di giudizio non sia stata mai contestata all'esercente la professione sanitaria di farmacista la circostanza di avere agiito senza il consenso valido dell'avente diritto. Risulta, infatti, di piana evidenza che laddove la paziente fosse stata informata dei rischi connessi all'assunzione ed alla posologia delle sostanze assunte, con ogni verosimiglianza, la stessa avrebbe desistito, evitando le lesioni sofferte.

Pasquale Giuseppe Macrì
Direttore Medicina Legale e dei Diritti Usl Sud Est Toscana



18 marzo 2024
© Riproduzione riservata


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