Come uscire dal vicolo cieco delle “non riforme” in sanità. Ecco perché gli ospedali restano la “questione delle questioni” (8ª parte)
di Ivan Cavicchi
Nonostante l’indubbia innovazione nelle procedure e nei mezzi di diagnosi e cura, l’ospedale resta il luogo più regressivo e meno riformato del nostro sistema sanitario, il luogo che più di ogni altro ha accumulato contraddizioni (contenzioso legale, medicina difensiva, regressività culturale) e il luogo preso più di mira di altri per governare in qualche modo la questione sostenibilità e il luogo dove più è acuto il conflitto tra medici e infermieri
01 GEN - La riforma del ‘78 alla fine funzionò come un grande collettore cioè un invaso giuridico in cui confluì tutto ciò che di pubblico o para pubblico esisteva in tema di sanità: mutue, parastato, enti locali, ecc.
Essa quindi si configura quasi come un “testo unico in materia di sanità” che assembla le tante sanità sparse quasi fosse un minestrone.
I suoi meriti indiscutibili restano:
· l’istituzione del servizio sanitario nazionale su base solidale e universalistica finanziato per via fiscale;
· l’organizzazione del sistema su base territoriale anche se il modello resta quello degli ambulatori polispecialistici delle mutue oggi denominate “case della salute”;
· l’ampliamento dell’offerta di servizi aggiungendo alla storica spedalità nuove aree di cura (salute mentale e salute della donna servizi per la prevenzione);
· l’introduzione del tema della salute anche se preceduto da una lunga tradizione igienistica;
· ecc, ecc.
Se la considerassimo quale un testo unico la riforma del ‘78 si sostituirebbe di fatto dopo ben 44 anni ad un altro “
testo unico delle leggi sanitari” definito e approvato con regio decreto nel 1934. Questo testo unico abbracciava tutte le problematiche sanitarie che poi saranno riprese mutatis mutandis dalla riforma del ‘78 con la differenza che in luogo del ministero degli interni vi è il ministero della salute e in luogo dei comuni vi sono le regioni naturalmente con tutte le differenze storicamente intrinseche alle materie trattate.
Il testo unico delle leggi sanitarie del 1934 non comprendeva la questione degli ospedali che fu affrontata separatamente con una prima riforma ospedaliera nel 1938 completata successivamente nel 1968 con la famosa riforma Mariotti. La riforma ospedaliera 1938/68 alla fine definisce un modello e una organizzazione di base dell’ospedale che non sarà nei fatti riformato dalla riforma del 78 ma semplicemente mutuato e incluso nel testo di legge, ovviamente con tutti gli adeguamenti storico-scientifici necessari e che ancora è più viva che mai.
Quali significati? Almeno due:
· la distinzione tra territorio e ospedale è antica e precede di gran lunga la riforma del ‘78, nel senso che territorio e ospedale equivalgono a due universi paralleli concepiti come separati;
· dal 1938 ai nostri giorni il modello di ospedale e la sua organizzazione di base ma anche i criteri di funzionamento e di classificazione non sono mai fondamentalmente cambiati come modelli, quindi come struttura ,mentre come sovrastruttura cioè rispetto ai criteri funzionali qualcosa in più si è fatto (si pensi ai reparti ad alta intensità di cura ma non solo ai monoblocco alle piastre, al spedalizzazione diurna, ecc.).
L’unica cosa che è davvero cambiata ma ribadisco in costanza di modello è la sua definizione giuridica.
Gli ospedali:
· fino al 1968 sono stati inquadrati come Istituzioni Pubbliche di Assistenza o Beneficenza, (IPAB);
· dal 1968 in poi con la riforma Mariotti divennero “enti ospedalieri”;
· mentre con la riforma del ‘78 divennero “stabilimenti” delle unità sanitarie locali” ma attenzione....”dotate dei requisiti minimi di cui all'articolo 19, primo comma, della L. 12 febbraio 1968, n. 132”.
Che vuol dire questo riferirsi alla riforma Mariotti?Che gli ospedali cioè il massimo e più importante luogo di cura del nostro sistema sanitario e quindi per ovvi motivi anche il più costoso, ancora oggi sono concepiti nel loro modello fondamentale sulla base delle “norme generali per l’ordinamento dei servizi sanitari e del personale degli ospedali” definite nel 1938 e poi completate nel 1968 e mutuate in quanto tali dalla riforma del ‘78.
Questo spiega perché oggi l’ospedale rispetto ai problemi di sostenibilità è la “questione delle questioni”,perché esso nonostante l’indubbia innovazione che lo ha rinnovato nelle procedure e nei mezzi di diagnosi e cura, resta il luogo più regressivo e meno riformato del nostro sistema sanitario, il luogo che più di ogni altro ha accumulato contraddizioni (contenzioso legale, medicina difensiva, regressività culturale) e il luogo preso più di mira di altri per governare in qualche modo la questione sostenibilità e il luogo dove più è acuto il conflitto tra medici e infermieri.
Ma spiega anche l’inadeguatezza delle politiche regionali di riordino volte soprattutto a ridurre il numero degli ospedali e dei posti letto ma a modello invariante.
Quello che in realtà dovremmo fare è riformare un modello che strutturalmente ha ormai poco meno di un secolo. Ma nessuno, a partire dagli ospedalieri, e meno che mai i grandi funzionari della sanità sanno come fare.
La riforma sanitaria del ‘78 che si è limitata a inglobare una riforma di dieci anni prima iniziata a sua volta 40 anni prima cade, così, nella sua più clamorosa contraddizione:
· da una parte con l’organizzazione territoriale teorizza un approccio integrato alle cure quindi una visione globale dell’intervento;
· dall’altra mutuando un modello ospedaliero autarchico rende praticamente impossibile qualsiasi processo di integrazione.
Oggi laicamente si dovrebbe ammettere che la riforma del ‘78 (nonostante gli sforzi non disprezzabili di alcune regioni) non è riuscita a mettere in comunicazione il territorio e l’ospedale i quali a partire dal testo unico sulle leggi sanitarie del 1934 e dalla riforma ospedaliera del ‘38 restano mondi separati incomunicabili.
La riforma del ‘78 bucando l’integrazione buca la sua idea di globalità, di continuità, di multidisciplinarietà...quindi buca il cambiamento e creando le premesse per un regressività organizzativa a scala di sistema. Alcune regioni sono riuscite a ridurre tale regressività ma senza ridiscutere i modelli perché sui modelli a tutt’oggi non c’è una proposta di riforma.
Come si fa davanti a questi imbarazzanti dati storici a dire che il problema della sostenibilità si risolve ridiscutendo l’universalismo? O privatizzando in parte le tutele pubbliche? O a proposito di indigenti, tornando ad interpretare alla lettera l’art. 32?
I contro riformatori sono come l’ubriaco che cerca la chiave sotto il lampione nonostante sia stata persa all’osteria.
Ma il problema vero è che noi della sanità siamo una massa di chiacchieroni che parliamo di riforma senza sapere cosa questo concetto voglia dire veramente.
Il punto politico resta che se l’ospedale e il resto non sarà veramente riformato è inevitabile che noi si abbia il problema dell’insostenibilità… e quindi che si abbia tagli lineari e definanziamento perché come fa ad essere sostenibile con tutta la buona volontà di alcune regioni un ospedale che alla fine, tecnologia a parte, quale modello o paradigma è tale e quale da quasi 100 anni?
Ivan Cavicchi
Leggi la prima, la seconda, la terza, la quarta, la quinta,
la sesta e la settima parte
01 gennaio 2016
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