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La salute produce ricchezza, anche per questo serve una vera riforma (seconda parte)

di Ivan Cavicchi

I sindacati tutti, gli ordini, i servizi, gli operatori, sarebbero disposti a sostenere una “quarta riforma”, a partire dal lavoro con al centro il lavoro, per vincere la sfida della sostenibilità e garantire: alle generazioni che verranno i giusti diritti e agli operatori, oltreché la dignità professionale che meritano anche retribuzioni e attribuzioni, adeguate?

05 MAG - I numeri come concetti di sanità
Per entrare nella logica di una possibile riforma della sostenibilità è necessario considerare i numeri della sanità, in quanto numeri, in modo diverso dal solito. Ma cosa vuol dire?
Per tutti gli amministratori della sanità, i numeri hanno un indubbio carattere di oggettività, cioè misurano la sanità non come un sistema complesso ma come una quantità finanziaria messa a bilancio.
Se la sanità, come dice il def, costa x vuol dire che:
• la spesa per x è la sanità,
• la sanità e la sua spesa sono ontologicamente la stessa cosa.
 
Ma cosa succede se anziché considerare i numeri solo degli indicatori di quantità finanziarie, li considerassimo dei “concetti” di sanità?
L’idea di base non è mia ma di un logico matematico, secondo me il più geniale, che si chiama Gottlob Frege.
 
Concetti di costi
Se i numeri fossero considerati “concetti” potrebbero diventare strumenti in grado di descrivere non solo le quantità ma anche le qualità di un sistema, i suoi modi di essere, le sue espressioni organizzative. Per esempio essi ci direbbero che è vero che un ospedale costa x , ma costa x perché l’ospedale è organizzato in un certo modo, con un certo personale e con una certa tecnologia e una certa gestione.
 
Se i numeri fossero considerati “concetti”:
• non sarebbe ragionevole dire, come fa il “riformista che non c’è”, che la spesa per la sanità è incompatibile con il pil,
• sarebbe più ragionevole dire, che “un certo tipo” di sanità pubblica sarebbe incompatibile il che però vorrebbe dire che “un altro tipo” di sanità pubblica potrebbe non esserlo.
 
La domanda delle 100 pistole è: quale sanità pubblica oggi è la più ragionevole?
Cioè se i numeri fossero considerati concetti, la logica della compatibilità, che ci ha rotto le ossa in questi 40 anni, quantomeno non sarebbe più assoluta e dogmatica ma sarebbe semmai del tutto relativa ai modi di essere del sistema aprendo la strada alla sua riforma. Vi pare poco?
In sostanza se i numeri fossero dei concetti, i costi, a loro volta, sarebbero dei concetti di sanità da definire con gli amministratori gli operatori e con i cittadini. Anche questo, vi pare poco?
 
Autori di concetti di costo e di sanità
Se il costo fosse un “concetto” di sanità, di medicina, di malato, di servizio, di cura, si può, come si legge nelle 100 tesi, offrire ai medici e ad altri operatori, la possibilità di essere gli “autori” di tali concetti, cioè di non essere più dei dipendenti o para-dipendenti anonimi assoggettati ad una gestione burocratica pagati con un salario indifferenziato e predeterminato quindi del tutto indipendente da quello che realmente si fa e dai risultati che si portano a casa.
 
Ma degli “imprenditori” di loro stessi cioè della loro professionalità. Una specie di “self-made doctor”, lo stesso che nel senso comune indicherebbe il medico che, con la dovuta autonomia quindi con un certo grado garantito di autoorganizzazione, raggiungerebbe, in ragione delle sue capacità, il proprio successo professionale e di conseguenza adeguati livelli retributivi.
 
Essere “autori” di concetti di sanità e, quindi di costi, significa assumersi come operatori la responsabilità di determinarli e di deciderli di giustificarli e di dimostrali.
 
Se i medici diventassero “autori” di concetti di sanità sarebbero liberi, come per magia, dalla “questione medica”, aiutando nello stesso tempo a risolvere il problema generale della sostenibilità e quello altrettanto importante della fiducia sociale. Ma i medici, mi rivolgo ai loro sindacati e ai loro ordini, sarebbero disposti a diventare autori di concetti di sanità? Cioè di diventare gli impresari della commedia che come autori hanno scritto?
 
In molti, tra i medici, pensano che essere “autori” voglia dire libertà clinica, ignorando che, in un sistema finanziariamente condizionato nella sua spesa, in ragione dei problemi di sostenibilità economica nessuna libertà clinica è possibile in senso assoluto.
 
Se i medici in futuro non si prenderanno la responsabilità di governare i costi prima di tutto non saranno né “impresari” e né “autori” ma resteranno dipendenti o para dipendenti a vita e quindi saranno sempre amministrati da qualcuno che farà loro le pulci su tutto quello che faranno.
 
Il contrario della “medicina amministrata” (uno dei problemi della “questione medica”) è l’autogoverno professionale, ma, chiedo, che autogoverno è quello che non si prende la responsabilità dei costi che determina? Si può essere ontologicamente “dipendenti” e “autori” allo stesso tempo?
 
Un patto di riforma con il lavoro
Fino ad ora, cioè in questi 40 anni, la sostenibilità come ho detto si è governata solo in via amministrativa con le aziende, quindi senza un patto con il lavoro anzi al contrario imponendo al lavoro sempre più limiti.
 
Non credo che:
• in futuro questa evidente stupidaggine, possa essere reiterata,
• si possa fare un patto con il lavoro senza decidere la parte degli operatori nel governo della sanità,
• il governo della sanità possa escludere la questione della sostenibilità e quindi la questione dei concetti di costi,
• chi definisce dei concetti di costi possa essere considerato un dipendente o un para-dipendente e che possa essere retribuito come tale con un salario,
• pagare un “autore” cioè chi definisce concetti di sanità si possa fare indipendentemente dai risultati del suo lavoro.
 
Ammesso che i sindacati siano favorevoli (cosa che non darei per scontata), si faccia un “patto di riforma con il lavoro”, per mettere in grado gli amministratori di chiamare le professioni per:
• co-determinare in modo responsabile i costi,
• valutare le loro performance rispetto a dei costi,
• dare loro la necessaria autonomia per definire i concetti di costi,
• metterli in condizione di stabilire le garanzie ai quali i costi dovranno sottostare,
• organizzare un rigoroso controllo sui risultati,
• retribuire come si deve i risultati concordati e raggiunti.
 
Punto. E con la sostenibilità avremmo pareggiato i conti. Festa finita.
Ma i sindacati sono pronti a fare questo cambio di passo? I sindacati, sia chiaro, non sono tutti uguali ma a giudicare dalle loro “rivendicazioni medie” non mi sembra, ma non escluderei se non altro per ragioni pratiche una provvidenziale resipiscenza?

La sanità è lavoro
Su questo giornale ho letto un articolo firmato dal top dell’Anaao Assomed nel quale si auspica:
• “un cambiamento vero nella sanità che verrà,
• fatto di un diverso valore, anche retributivo, al lavoro medico,
• diverse collocazioni giuridiche,
• diversi modelli organizzativi che riportino i medici a decidere sulle necessità del malato”. (QS, 30 aprile 2020)
 
OK, sono d’accordo. Ma come attuare questi cambiamenti?
L’Anaao non mi sembra, da quello che leggo, preoccupata, come me, per i futuri problemi di sostenibilità della sanità, mi sembra che nel suo articolo, si limiti a considerare l’evento dell’epidemia come un credito da esigere come professione per cui legittimamente essa chiede di più per aver fatto molto e di più. Ed è innegabile che i medici in ospedale durante l’epidemia abbiano fatto molto. Ma, a parte questo mi chiedo cosa è disposta a dare, in una situazione finanziaria tanto difficile, in cambio di ciò che chiede? Un ospedale diverso? Una cura più adeguata? Un medico ospedaliero più capace? Costi minori?
 
Chiedo, davvero con grande interesse, a fronte delle tre cose che l’Anaao Assomed chiede, il medico:
• resta un “dipendente” compatibile con la spesa la cui retribuzione resta definita in modo indifferenziato a priori per competenze?
• diventa “autore” cioè definisce concetti di ospedale e la cui “retribuzione” e “attribuzione” (secondo le 100 tesi l’autore è pagato due volte quindi più del dipendente) sono funzione sia dei risultati che egli produce che dei costi che egli governa?
 
Nel primo caso non cambia molto e quello che auspica l’Anaao Assomed resta del tutto legittimo anche se direi piuttosto improbabile, perché non è altro che un modo per avere qualcosa di più, a medico e a ospedale e a condizioni di sostenibilità invarianti.
 
Nel secondo caso cambia tutto, ma proprio tutto, compreso le tre cose di cui parla l’Anaao Assomed e che ripeto sono:
• il valore retributivo del lavoro,
• le collocazioni giuridiche dei medici,
• i modelli organizzativi dei servizi,
• e, aggiungo io, perfino le aziende.
 
In generale:
• se il medico fosse un “autore” non avrebbe senso mantenere aziende pensate per gestire dei dipendenti
• se il medico restasse un dipendente non avrebbe senso cambiare le aziende?
 
O no? Nel secondo caso bastano e avanzano i famosi “consigli dei sanitari” previsti già 40 anni fa.
Tuttavia, considerando tutto, soprattutto i tempi difficili che ci aspettano, escluderei la possibilità di avere la moglie ubriaca cioè i vantaggi del dipendente e la botte piena, cioè i vantaggi dell’autore.
 
Cioè escluderei l’ircocervo. A parte i contesti finanziari, si pone una banale questione ontologica: se si è palafrenieri non si è cavalieri e se si è cavalieri non si può essere palafrenieri, ma non perché sia impossibile l’ircocervo, ma solo perché uno va a piedi e uno va a cavallo e siccome è impossibile andare allo stesso tempo a piedi e a cavallo ne deduco che “dipendente” e “autore” siano due cose diverse.
 
Per cui la domanda politica che mi sento di rivolgere ad un sindacato importante, che stimo e seguo sempre con grande interesse, come l’Anaao Assomed è la seguente: si può fare il “cambiamento vero” che essa auspica a condizioni di sostenibilità decise dalla spesa, a medico ospedaliero e a ospedale, invarianti?
 
La sanità è essenzialmente lavoro, nulla di più. Essa si riforma se il lavoro si riforma. Se non cambia il lavoro non cambia neanche la sanità e se non cambia la sanità, certe pur giuste rivendicazioni del sindacato, diventano improbabili.
 
Conclusioni
40 anni fa, siccome crollava tutto, abbiamo pensato di fare un riforma di sistema a lavoro invariante, cioè a modelli di prassi sostanzialmente invarianti, (il medico di famiglia, il medico specialista ambulatoriale, il medico ospedaliero, ecc) e, ancora oggi come operatori, a parte l’eccezione ma disconfermata nella pratica della legge 42 degli infermieri, lavoriamo nei modelli giuridici e nei modelli organizzativi, definiti 40 anni fa. Per cui come lavoro costiamo allo Stato strutturalmente sempre allo stesso modo anche se la spesa per retribuire il lavoro, a parte l’abbuffata per il covid-19, è sempre stata compressa.
 
In questi anni il lavoro, in mezzo tra costi e spesa, è stato massacrato in tutti modi possibili. Oggi il lavoro, non la sanità, nonostante gli applausi dai balconi, è ancora:
• la prima controparte del pil quindi dell’economia,
• dei cittadini quindi della società.
 
I sindacati tutti, gli ordini, i servizi, gli operatori, sarebbero disposti a sostenere una “quarta riforma”, a partire dal lavoro con al centro il lavoro, per vincere la sfida della sostenibilità e garantire:
• alle generazioni che verranno i giusti diritti,
• agli operatori, oltreché la dignità professionale che meritano anche retribuzioni e attribuzioni, adeguate?
 
Se “sì” la cosa si fa interessante se “no”, la partita generale probabilmente è persa e non per colpa del covid-19.
 
Ivan Cavicchi 
 
Leggi la prima parte
 

05 maggio 2020
© Riproduzione riservata


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