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Cancro. Fondamentale la revisione dei Lea. Il contributo di Sergio Paderni


15 MAG - Ci sono termini che, a forza di essere ripetuti caricandoli di significati ideologici e di attese molto sentite, finiscono per costituire più una petizione di principio che la espressione effettiva di una realtà concreta. Una di queste espressioni mitiche, nel mondo della sanità, è il termine “Livelli di assistenza”. Di esso si occupa espressamente l’intervento del Direttore dell’Osservatorio Paderni, il quale ne ripercorre la storia, dalla versione iniziale, qualificata come “Livelli uniformi di assistenza”, usata dalla legge di riforma sanitaria del 1978, per sancire il diritto di tutti i cittadini ad essere assistiti nella stessa maniera nel momento in cui 12.000 enti mutualistici e Casse mutue di ogni tipo sono confluiti nell’unitario SSN, alla successiva versione dei “Livelli uniformi ed essenziali di assistenza”, impiegata per precisare le l’auspicata uniformità doveva essere conseguita, non rincorrendo onerose fughe verso l’alto, ma tenendo realisticamente conto delle esigenze del bilancio statale (sul quale seguitavano a gravare gli oneri).

Sono seguiti nell’ordine la scomparsa dell’aggettivo “uniforme”, con l’adozione del solo riferimento all’essenzialità (Livelli essenziali di assistenza o LEA) e la ulteriore precisazione che, oltre ad essere “essenziali”, i livelli di assistenza debbono essere anche “appropriati”. Al riguardo l’autore muove due argomentati rilievi.
Secondo le norme vigenti un livello assistenziale si considera appropriato quando contempera le esigenze diagnostico-curative dei professionisti sanitari con le esigenze organizzativo-economiche dell’istituzione. Si tratta di una concezione bipolare che trascura il fattore derimente della questione. L’appropriatezza sancita dalle norme è tale “solo se” risponde ai bisogni effettivi dei malati (e in materia di assistenza oncologica post-acuzie tutto il Rapporto testimonia che tale appropriatezza è ben lungi dall’essere conseguita).
Il motto “Nulla per noi senza noi” traduce in pieno il tipo di appropriatezza che i malati rivendicano: una appropriatezza “tripolare”, che si fa carico certamente del rapporto “professionisti-istituzione”, ma nel contempo affronta e risolve i problemi tuttora esistenti nel rapporto “malati-professionisti” e “malati-istituzione”. Il capitolo del Rapporto non si limita a riformulare il concetto di “appropriatezza”, ma indica analiticamente i problemi che attendono soluzione nelle tipologie di rapporto sopra indicate, fornendo per ciascuna di esse indicazioni di possibili soluzioni.
Il secondo rilievo concerne la pretesa di perseguire soluzioni equivalenti nei diversi contesti regionali (essenzialità come equivalenza di trattamento a costi standard prefissati).

La realtà ammaestra che le forme e le modalità della risposta assistenziale non possono essere definite a priori, ma vanno correlate alla domanda da soddisfare. Il fatto è che nelle nostre realtà regionali la domanda dipende da una molteplicità di fattori diversi da Regione a Regione.
Sarebbe, quindi, più corretto parlare di “livelli regionali compatibili di assistenza sanitaria”, da riferire:
* alle differenti condizioni oggettive della domanda in sede locale
* alle differenti strategie di risposta decise dagli organi politici, che sono a loro volta sottoposti al giudizio di valutazione del consenso elettorale
* alle disponibilità economiche di ciascuna Regione e alle strategie di utilizzo che di esse le Regioni intendono fare.

In altre parole, dovrebbero essere le Regioni, a inizio legislatura, a dichiarare quali “livelli regionali compatibili di assistenza sanitaria” sono in grado di assicurare con le risorse a disposizione, sotto il controllo di gradimento del proprio elettorato e rispondendo direttamente dell’equilibrio economico dei conti, senza possibilità di scaricare eventuali disavanzi sul bilancio dello Stato.
La conclusione dell’autore è che sul punto è necessario aprire un dibattito, il cui scopo dovrebbe essere di trovare la formula più idonea per assicurare a livello regionale la migliore assistenza possibile ed accettabile (non assoluta), in una visione tripolare dell’appropriatezza delle risposte assistenziali, compatibilmente con le risorse a disposizione,  in rapporto alle capacità gestionali dei singoli servizi sanitari regionali e rendendo le Regioni direttamente responsabili dei livelli di assistenza, senza attendere di essi una impossibile definizione uniforme di livello nazionale.

15 maggio 2012
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