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Non si può risolvere il problema della “medicina difensiva” con la “medicina amministrata”

di Carlo Palermo

I costi della medicina difensiva sono tutti da dimostrare e spesso vengono derivati da studi datati. Bisogna mettere in campo provvedimenti specifici a monte, come una legge sulla responsabilità professionale, il rischio clinico e la tutela assicurativa. L’inappropriata richiesta rappresenta innanzitutto una questione di natura culturale medica e di etica professionale prima ancora che di economia o politica sanitaria.

07 AGO - Il nostro Fondo Sanitario Nazionale (FSN), considerando i dati OCSE 2015, riferiti al 2013, risulta sotto-finanziato rispetto alla media di tutti i paesi europei ed anche alla media OCSE. Il differenziale negativo raggiunge i 30 miliardi di € se il confronto è fatto con Francia e Germania. Come in molti paesi OCSE, a seguito della congiuntura economica negativa, la spesa sanitaria in Italia è diminuita negli ultimi anni, ma solo in Italia ed altri 9 paesi (Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda tra gli altri) la spesa nel 2013 è risultata inferiore a quella del 2009 (per l’Italia – 3,5% in termini reali), incrementando la decrescita manifestatasi già nel 2011 (-0,9%) e nel 2012 (-3%). I primi dati del 2014 confermano questa tendenza anche se di entità minore (-0.4%). La spesa “out of pocket” per l’Italia rappresenta, secondo i dati Ocse, il 22% della spesa sanitaria totale, ben superiore ai livelli di Francia(7%), Germania (14%) e Inghilterra (10 %).
 
Il Ceis ha quantificato in 33 miliardi la spesa “out of pocket” degli italiani nel 2014. Nonostante ciò, i cittadini che rinunciano alle cure per difficoltà economiche, oramai, rappresentano circa il 10% della popolazione del nostro paese (Dati Istat 2015). Questa solo apparente contraddizione, è legata alla contrazione del perimetro delle tutele e alla difficoltà crescente di accesso alle cure. Chi ha possibilità economiche o una assicurazione sanitaria cerca una soluzione ai propri problemi nel privato, chi vive in condizioni di disagio economico rinuncia alle cure (circa 6 milioni di italiani). Tutto ciò rappresenta la tragica conseguenza dei tagli inflitti al nostro SSN. Nel solo periodo 2012-2014, secondo la Commissione di indagine parlamentare sulla sostenibilità del SSN, il FSN ha subito tagli per oltre 23 miliardi, sostanzialmente confermando quelli calcolati dalle Regioni in 31,5 miliardi di € nel periodo 2011/2015.
 
Con tali presupposti, l'ulteriore taglio di 2,3 miliardi di € previsto per l'anno in corso dal decreto legge “Enti Locali” appena approvato e accettato supinamente dalle Regioni, va ben oltre un piccolo aggiustamento “congiunturale” rappresentando un altro grave colpo alla tenuta e all'efficacia del servizio sanitario nazionale (SSN).
 
Le Regioni da tempo ed in assoluta autoreferenzialità, si stanno attrezzando su come realizzare questi tagli, senza alcun confronto e senza rendere esplicito come sia possibile che un intervento simile non determini ricadute pesanti sui servizi e sulle prestazioni.
 
Quali sono gli interventi che le Regioni stanno orchestrando e mettendo in campo per far fronte alle risorse perdute?
 
Consumate le politiche di compatibilità attuate nell’ultimo decennio (ristrutturazione della rete ospedaliera, politiche del farmaco, revisione delle centrali e dei contratti per l’acquisto di beni e servizi, introduzione di logiche di mercato in sanità, ticket), oggi le Regioni stanno mettendo mano a processi di “riordino” che in realtà rappresentano una destrutturazione controriformatrice del sistema (Ivan Cavicchi). Le linee di intervento che emergono sono essenzialmente le seguenti:
- centralizzazione della governance con conseguente liquidazione delle aziende e della loro organizzazione territoriale, in genere corrispondente alla provincia, per arrivare a macro-aziende uniche regionali o di area vasta (vedi provvedimenti attuati o in corso di attuazione in Emilia Romagna, Marche, Toscana, Calabria, Lazio), incrementando così la complessità gestionale e rendendo nel contempo più difficili i controlli contro abusi e frodi in una Italia che svetta nelle classifiche europee per il tasso di corruzione;
- privatizzazione di parte dei consumi sanitari attraverso offerte di prestazioni sanitarie gestite dalle assicurazioni private che non integrano ma sostituiscono lo Stato nei suoi doveri di tutela (universalismo selettivo);
- taglio massiccio di posti letto degli ospedali (- 71.000 dal 2000 al 2014) e del personale sanitario, attraverso l’implementazione dell’organizzazione per intensità di cura e dichiarazioni di “esubero”, che si sommerà alla falcidia condotta da anni con il blocco del turn over (-24.000 unità di personale nel 2013 rispetto al 2009). Tutto ciò renderà l’accesso alle cure sempre più difficile, spingendo le classi più abbienti verso l’offerta privata anche grazie ai super ticket differenziati per fasce di reddito;
- infine, la vera novità, decapitalizzare il lavoro professionale considerandolo non il vero valore del sistema ma il principale costo da aggredire e svilire.
 
La Toscana, attraverso processi di task shifting nel settore sanitario, sequenziali e regressivi, teorizza la possibilità di togliere mansioni ai medici per darle agli infermieri, togliere mansioni agli infermieri e darle a generiche figure di assistenza (Oss). L’Emilia Romagna ha predisposto, ma non ancora approvato, una delibera sull’assistenza a domicilio che interessa in particolare i malati anziani e non autosufficienti, con la quale toglie mansioni agli infermieri e agli Oss per darle alle badanti per le quali prevede corsi di formazione di poche ore. De-capitalizzare il lavoro, come realizzato con il blocco dei contratti dal 2010 a tutto il 2015 (senza l’intervento della Corte Costituzionale saremmo arrivati fino al 2019!) e progettato con il comma 566 della Legge di Stabilità 2015, significa non solo congelamento del suo costo economico, ma soprattutto la sua svalutazione con lo scopo finale di tagliare nel tempo il mercato del lavoro riducendo gli attuali livelli occupazionali. La legge di riordino della Toscana implica, per esempio, la liquidazione di circa 2000 posti di lavoro per ottenere un risparmio dichiarato di 100 milioni di € nel periodo 2015/2016. Ugualmente la previsione di un doppio canale di ingresso per i medici nel sistema sanitario (disegno di legge delega ex articolo 22 del Patto sulla Salute) con l’assunzione a tempo indeterminato di medici abilitati ma senza specializzazione, rappresenta un tentativo di risparmiare sul costo del lavoro medico. Nello stesso filone di intervento possiamo includere il taglio lineare di strutture complesse e semplici (ovviamente solo ospedaliere visto che ai Magnifici e agli Amplissimi è disdicevole portare dispiaceri come al Re nella canzone di Dario Fo) che in alcune realtà regionali va ben oltre il livello previsto dagli standard ospedalieri appena approvati (una direzione di struttura complessa ogni 17,5 posti letto).
 
Ma la sostenibilità del sistema sanitario è raggiungibile solo attraverso operazioni che mettono a rischio l’erogazione dei livelli essenziale di assistenza e l’universalità delle cure o di attacco alle condizioni di lavoro e di vita del personale?
 
Secondo recenti dati presentati nell’incontro annuale della Fondazione Gimbe, gli sprechi nel SSN rappresentano una voragine che raggiunge i 25 miliardi di €, sottratti ai servizi essenziali, alla formazione del personale e all’innovazione strutturale e tecnologica del sistema. Di questi il 30%, circa 8 miliardi, sarebbe prodotto dal sovra utilizzo di interventi sanitari inefficaci, inappropriati o dai costi elevati rispetto ai benefici reali. In pratica, secondo Gimbe stiamo sprecando molto denaro in prestazioni che non servono, a causa dell'orientamento legislativo e giudiziario che induce alla medicina difensiva, della medicalizzazione della società e delle aspettative dei pazienti. A questi si aggiungono 5-6 miliardi di € (20%) erosi da corruzioni, frodi e abusi. Poco più di 4 miliardi verrebbero sprecati nell'acquisto di tecnologie sanitarie, farmaci e strumenti medici e di beni e servizi non sanitari, come mense e lavanderie, attraverso contratti capestro di project financing, collegati anche al finanziamento della costruzione di nuovi ospedali. Burocrazia, ipertrofia del comparto amministrativo e la scarsa diffusione delle tecnologie informatiche assorbono circa 3 miliardi.
 
Altre istituzioni, il Politecnico di Milano e lo stesso Ministero della Salute, prospettano risparmi variabili tra 7 e 14 miliardi di € con lo sviluppo della sanità elettronica, mentre l’introduzione dei costi standard e la centralizzazione delle gare d’appalto potrebbe comportare minori spese per 3-4 miliardi.
 
E’ difficile dire se questa congerie di numeri, che spesso fanno riferimento a capitoli economici che si sovrappongono, rappresenti una prospettiva reale di risparmio e sarebbe da chiedersi che livello di sprechi si annidi nella sanità di paesi come la Francia e la Germania che spendono nel settore circa 30 miliardi di € in più rispetto all’Italia. Spesso si dimentica che un certo grado di sprechi ed inefficienze rappresenta un dato fisiologico nel più complesso dei sistemi complessi. Così come passano nel dimenticatoio altre cifre confermate da vari centri di studi economici: l’evasione fiscale sottrae alla fiscalità generale la cifra stratosferica di 120 miliardi di € (potremmo permetterci addirittura un secondo SSN) e la corruzione riduce la capacità di spesa pubblica di circa 60 miliardi ogni anno.
 
Comunque, anche se la reale prospettiva di risparmio fosse limitata al 10-20% delle cifre indicate rappresenterebbe un contributo non trascurabile alla sostenibilità del sistema sanitario.
 
Come abbiamo visto, negli ultimi anni la tendenza al de-finanziamento del SSN è stata costante e ancora non si arresta. In futuro rischiamo di non avere risorse aggiuntive e non si potranno finanziare servizi essenziali e vere innovazioni se il Governo non incrementerà il finanziamento già a partire dal 2016 e le Regioni non avviano un processo di disinvestimento da sprechi, corruzioni ed inefficienze che si annidano nei loro bilanci (stipendi dei consiglieri, acquisto di beni e servizi non sanitari, consulenze esterne, aziende regionalizzate, municipalizzate, consortili etc) per reinvestire in ciò che serve davvero.
 
La salvezza della “casa” in cui lavoriamo ed esprimiamo la nostra professionalità ed il nostro ruolo sociale passa anche attraverso un diverso atteggiamento dei medici. La sobrietà nei processi di diagnosi e terapia, l’appropriatezza organizzativa e prescrittiva, la collaborazione interdisciplinare e con le altre professioni sanitarie, la vigilanza sull’eticità dei comportamenti e la denuncia della corruzione, le necessità del paziente devono essere messe al centro del nostro agire quotidiano e del modo di essere professionisti.
 
L’inappropriata richiesta di approfondimenti diagnostici o gli eccessi terapeutici rappresentano innanzitutto una questione di natura culturale medica e di etica professionale prima ancora che di economia o politica sanitaria. E’ illusorio e politicamente, socialmente e scientificamente scorretto pensare di risolvere tali complessi problemi attraverso provvedimenti legislativi o sanzioni pecuniarie. Non si può considerare il lavoro medico come una rigida catena di montaggio dove tutto è predisposto e prestabilito senza tenere in considerazione la variabilità della clinica, dei contesti organizzativi e le caratteristiche proprie di ogni singola persona. Se una prestazione sanitaria è appropriata viene stabilito attraverso le evidenze scientifiche che rappresentano le fondamenta per costruire percorsi diagnostici e terapeutici condivisi dalle società scientifiche, dai professionisti e dai pazienti. Questi ultimi, soffrendo nel campo della medicina di una asimmetria informativa, necessitano di essere guidati nelle scelte diagnostiche e terapeutiche. In ogni caso nei percorsi di cura tra inappropriatezza ed appropriatezza esiste sempre una zona grigia, anche ampia visto che l’EBM copre solo una parte delle condizioni patologiche, che non può essere invasa dalla burocrazia ma deve essere lasciata alla autonomia e responsabilità del medico il quale deve contemplare anche le esigenze del paziente oltre che usare al meglio le risorse affidate.
 
Non si può pensare di risolvere i problemi della “medicina difensiva”, i cui costi sono tutti da dimostrare e che spesso vengono derivati da studi datati, mettendo in campo la “medicina amministrata”. La “medicina difensiva” richiede provvedimenti specifici a monte, come una legge sulla responsabilità professionale, il rischio clinico e la tutela assicurativa. Il medico merita di essere trattato come il giudice perché la serenità invocata nel giudicare un cittadino equivale a quella necessaria per curarlo.  
 
Carlo Palermo
Vice segretario nazionale vicario Anaao Assome

07 agosto 2015
© Riproduzione riservata

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