Disabilità, cosa impariamo dal “caso” di San Martino di Castrozza
di Giovanna Beretta
15 MAR -
Gentile direttore,
ha avuto risonanza sui media nazionali, nei giorni scorsi, la notizia di Tommaso, un giovane con disabilità, ospite in un albergo trentino con i genitori, che sarebbe stato invitato dai gestori a spostarsi con i famigliari dalla sala da pranzo comune ad una saletta riservata, in quanto la sua presenza avrebbe creato disagio agli altri ospiti. La madre ha deciso di lasciare l’albergo ed ha manifestato sui social tutto il suo sconcerto ed amarezza per l’accaduto.
C’è almeno da augurarsi che questo increscioso episodio sia legato più a superficialità ed incomprensione, che a deliberata volontà discriminatoria; tuttavia, a prescindere dagli aspetti specifici, appare come un’ulteriore conferma di quanto ancora la disabilità sia percepita come qualcosa di estraneo, fastidioso, da tenere a distanza in termini fisici e relazionali.
Da professionisti della riabilitazione, impegnati ad accompagnare le persone con disabilità verso l’autonomia e la partecipazione sociale, constatiamo tutti i giorni quanto questi atteggiamenti rappresentino una doppia barriera. Non solo amplificano le difficoltà di queste persone, ma precludono anche la possibilità di vederne e valorizzarne le capacità.
La persistente difficoltà alla diffusione di atteggiamenti e pratiche inclusivi ed alla “convivenza delle differenze” - secondo la definizione di Fabrizio Acanfora - ha molte cause, su cui le comunità professionali debbono continuare ad impegnarsi, insieme ad altre componenti delle istituzioni e della società civile.
Nella coscienza collettiva è ancora radicato il modello bio-medico, fondato sul binomio salute/malattia, con un quasi automatico rimando all’altro binomio normalità/anormalità. La disabilità è vista in modo quasi lineare come conseguenza di malattia/anormalità; ciò giustifica atteggiamenti di separazione, anche fisica, come ci ricorda l’episodio dell’albergo.
Da parecchio tempo sono stati proposti modelli alternativi, come quello Icf dell’Oms, che sottolineano il ruolo cruciale di altri fattori, come quelli ambientali, nel generare condizioni di disabilità. Questo cambio di prospettiva è stato cruciale per promuovere pratiche più inclusive in diversi contesti. È evidente però che la penetrazione di questi concetti nella coscienza generale è ancora insufficiente. Anche nel settore sanitario, ad esempio, l’accessibilità ai servizi – fisica e informativa– è molto spesso difficoltosa per le persone con disabilità. Il progetto Sanitabile, promosso anni fa dalla Simfer in partnership con Cittadinanzattiva e Federazione Italiana Superamento dell’Handicap, ha cercato di sollecitare l’attenzione a questi temi, con un concorso di buone pratiche da segnalare come esempi per il settore sanitario.
Va detto che anche nel settore dell’accoglienza turistica sono stati fatti passi avanti verso l’inclusività, anche grazie alla comprensione dei vantaggi, anche economici, di una maggiore accessibilità delle strutture. La vicenda di Tommaso, tuttavia, dimostra quanto si sia ancora da fare, anche in termini di preparazione e formazione degli operatori.
Riteniamo che gli operatori della riabilitazione possano e debbano continuare gli sforzi verso un mutamento generale di prospettiva nella narrazione della disabilità, nella direzione del riconoscimento e comprensione della diversità e delle potenzialità racchiuse in ogni persona.
Dott.ssa Giovanna Beretta
Presidente - SIMFER Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa
15 marzo 2023
© Riproduzione riservata
Altri articoli in Lettere al direttore