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Malattie rare. Prospettive ed endpoint biochimici nell’era della Real World Evidence. Esperti a confronto al National Summit di Sics

di Lucia Conti

Quello delle malattie rare è un ambito molto complesso. Parliamo di malattie spesso poco conosciute e difficili da studiare, sia per le loro caratteristiche ma anche per il basso numero di pazienti da poter osservare. In questo ambito, dunque, può diventare più importante che mai superare i modelli classici di sperimentazione e approvazione al commercio dei farmaci, che prevedono la valutazione di outcome clinici hard, anche a lungo termine, puntando invece su endpoint biochimici e Real World Evidence. Ne abbiamo parlato con Ignazio Zullo, Paola Binetti, Guido Rasi, Vincenza Calvaruso, Pietro Invernizzi, Ivan Gardini e Barbara D’Alessio

27 MAR -

Promuovere il dialogo tra clinici, ricercatori, associazioni di pazienti, regolatori e policy maker sull’importanza dei parametri biochimici e degli outcome nella valutazione delle terapie per le malattie rare, così come sull’importanza dei dati raccolti dalla pratica clinica. Questo l’obiettivo del National Summit promosso il 20 marzo da Sics e condotto da Barbara Di Chiara (Quotidiano Sanità), che ha visto ospiti il senatore Ignazio Zullo, presidente dell’Intergruppo parlamentare per la prevenzione e la cura delle malattie autoimmuni; Paola Binetti, past president Intergruppo parlamentare malattie rare; Guido Rasi, professore ordinario di Microbiologia all’università di Roma Tor Vergata e già Direttore Esecutivo di Ema; Vincenza Calvaruso, professore Associato di Gastroenterologia Dipartimento di Promozione della Salute, Materno Infantile, Medicina Interna e Specialistica di Eccellenza, Università di Palermo; Pietro Invernizzi, Professore Ordinario di Gastroenterologia Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università di Milano-Bicocca, Milano S.C. Gastroenterologia e Centro Malattie Autoimmuni del Fegato, IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza; Ivan Gardini, presidente Associazione EpaC; Barbara D’Alessio, consigliera Uniamo.

A Guido Rasi il compito di inquadrare il tema e i suoi punti deboli. “Per Real World Evidence si intende l’analisi strutturata e organizzata di dati provenienti dalla reale pratica clinica, che consente di generare informazioni. È un processo che non esiste nel classico iter di approvazione di un farmaco, ma che si realizza nella fase successiva all’immissione in commercio e di uso diffuso del farmaco”.

Nel campo delle malattie rare le cose sono tuttavia molto più complicate, anzitutto per la mancanza di un ampio numero di pazienti su cui sperimentare le terapie. Per casi come questo è stata creata l’Autorizzazione all'immissione in commercio condizionata (Conditional Marketing Authorization - CMA), “cheha spiegato l’ex Direttore Esecutivo dell’Ema - consente di approvare un farmaco anche in assenza di dati clinici completi ricavabili con i classici processi di sperimentazione. Come dice la parola stessa, però, l’approvazione è condizionata. Condizionata a successivi studi complementari per conferma dei requisiti di efficacia e sicurezza del farmaco, ed è qui che entra in giorno la Real World Evidence”.

Capita, però, che i dati raccolti dopo l’immissione in commercio condizionata non consentano di confermare l’autorizzazione. Questo, spiega Rasi, avviene “perché il farmaco non raggiunge pienamente gli endpoint richiesti dagli standard regolatori. Spesso il problema risiede nella mancata interazione precoce tra l’industria del farmaco e l’ente regolatorio per definire correttamente gli endpoint e le tempistiche per il raggiungimento degli stessi: continuare a studiare un farmaco in via sperimentale quando lo stesso è già in commercio, e quindi disponibile per i pazienti, diventa molto complicato”.

A spiegare meglio quest’ulteriore criticità è stata Vincenza Calvaruso: “Ci sono malattie in cui non solo la bassa prevalenza ma anche la lenta progressione rendono difficile, se non impossibile, valutare l’efficacia delle terapie in termini di sopravvivenza o di rischio di progressione come avviene per altre condizioni. Per queste patologie gli enti regolatori dovrebbero prendere in considerazione i marcatori biochimici quali parametri utili per la valutazione dell’efficacia delle terapie. D’altra parte, forti evidenze di studi di comparazione mostrano, ad esempio, come la normalizzazione degli indici biochimici nella colangite bilaterale primitiva, una tra le molte malattie rare ,sia correlata in modo significativo con la sopravvivenza”, ha detto l’esperta dell’Università di Palermo richiamando alla vicenda di questa malattia già sollevata dagli esperti sulle pagine di Quotidiano Sanità, che ha rappresentato il punto di partenza per discutere ulteriormente la tematica al National Summit.

“La strada per raggiungere il progresso clinico nel campo delle malattie rare - ha quindi sottolineato Calvaruso è necessariamente fatta di alleanze, di fortissima collaborazione tra centri, di condivisione dei dati e di esperienza. In questo senso è stato fatto tantissimo ma molto si può ancora fare”.

Osservazioni che trovano concorde Pietro Invernizzi, che per le malattie del fegato ha evidenziato come, ad esempio, “gli enzimi epatici con valori più alti di quelli di riferimento indicano che la malattia è attiva. Dunque, la riduzione di questi parametri possono essere considerati endpoint surrogati efficaci. Lo deduciamo attraverso l’osservazione di una serie di evidenze: la riduzione e normalizzazione di questi parametri significa minore sofferenza e controllo della malattia. Lo confermiamo – ha detto Invernizzi – perché abbiamo evidenze da studi di correlazione che la normalizzazione di un parametro biochimico corrisponde ad un esito clinico positivo. D’altronde tale approccio diventa fondamentale, avendo un numero di pazienti limitati e una progressione lenta di malattia. Per dimostrare la stessa cosa attraverso le sperimentazioni cliniche servirebbero 10-15 anni, un tempo che non è possibile aspettare”.

L’esperto dell’Irccs San Gerardo dei Tintori di Monza ha quindi auspicato che la discussione “viva” tra gli enti regolatori e le industrie del farmaco sulla RWE possa coinvolgere in modo sostanziale anche gli esperti, “dal momento che è la comunità scientifica che produce questi dati, la cui raccolta deve essere impostata e strutturata secondo certe regole, che andrebbero concordate con gli enti regolatori e non lasciati alla valutazione individuale delle comunità scientifica”.

Guido Rasi ha riferito che il tema è all’attenzione degli enti regolatori, dove “si sta discutendo molto anche di patients reported outcome, cioè di quanto riportato dai pazienti sia durante lo studio clinico che nel corso di studi di RWE post marketing”.

Terapie, dunque, ma prima ancora diagnosi. Ed è su questo punto che Paola Binetti ha acceso i riflettori: “Oggi i tempi della diagnosi sono spesso troppo lunghi per una serie fattori che, soprattutto per le malattie rare, vanno dalla scarsa esperienza dei medici all’ascolto frettoloso del paziente, che finisce per far ignorare elementi essenziali che il paziente potrebbe riferire ai medici”.

Binetti ha poi sollevato la questione della difficile reperibilità dei farmaci: “Nel momento in cui il paziente riceve la diagnosi e la terapia, il sistema, sapendo dove quel paziente vive, dovrebbe essere organizzato per garantire sempre il farmaco nella farmacia più vicina al domicilio del paziente”. Binetti ha chiesto alle industrie del farmaco un impegno nella produzione di quei farmaci “che hanno un mercato ridotto, perché i pazienti sono pochi, ma sono comunque essenziali per quei malati”.


Infine un richiamo a garantire ai pazienti tutto ciò che è sostegno non farmacologico: “Quanto risparmia il sistema con quei malati rari che non può curare perché non esiste una terapia farmacologica per loro? Allora consideriamo come endpoint la qualità di vita e garantiamo loro tutte quelle terapie non farmacologiche – che vanno dalla fisioterapia alla musicoterapia o agli integratori - che possono offrirgli benefici e migliorare la loro qualità di vita”.

Dopo avere parlato così a lungo di pazienti, la voce è passata a chi li rappresenta: le associazioni. Da una parte Ivan Gardini, che ha evidenziato come troppe volte l’arrivo di nuove soluzioni terapeutiche trovino il sistema impreparato ad erogarle. “C’è una scollatura tra associazioni e istituzioni. La nostra missione, come associazione, è fare da collante, creare quelle condizioni che consentano al paziente di avere il farmaco giusto, la massima qualità di vita e i diritti che gli spettano”.

Riprendendo la vicenda del farmaco per la colangite bilaterale primitiva, il presidente di EpaC ha auspicato il massimo impegno per una conclusione positiva e per evitare che casi simili si ripresentino. “Parliamo di un farmaco, l’acido obeticolico, oggi assunto da circa 1.200 pazienti italiani e 10 mila in Europa. Un farmaco il cui iter iniziato nel 2016, con l’approvazione condizionata, ma che oggi rischia di essere ritirato perché l’azienda non è riuscita a raggiungere gli endpoint prioritari, per scarsità di pazienti da reclutare, mentre gli endpoint biochimici non sono stati accettati dagli enti regolatori nonostante i dati di Real Life mostrino con chiara evidenza che l’uso di quel farmaco consente di ritardare il ricorso al trapianto, senza particolari effetti collaterali”.

Barbara D’Alessio, per Uniamo, ha portato al National Summit i suoi tre auspici prioritari: “Quello che sia consentito ai pazienti di diventare partner della comunità scientifica e di riportare la loro esperienza con le terapie, facendo in modo che conti”.

Poi l’obiettivo di “instaurare un rapporto collaborativo con l’industria farmaceutica, definendo insieme gli endopoint di un protocollo e inserendo nei dossier i patient reporting outcomes e i patient reporting experience, da arricchire poi con la Real World Evidence”.

Infine, “chiediamo tempi di accesso alle terapie farmacologiche più brevi, perché già oggi dobbiamo fare i conti con diagnosi che arrivano anche dopo 7 anni, non possiamo permetterci di aspettare anche per le terapie, se sono disponibili”.

A chiudere il confronto, il senatore Ignazio Zullo, che ha più volte sottolineato l’importanza di “alleanze su larga scala”, cioè a livello internazionale, per raggiungere gli obiettivi unendo le forze, “tanto più necessarie quando si parla di patologie con numeri molto piccoli”.

Per il senatore questa alleanza deve partire dalla prevenzione e da una indagine epidemiologica che consenta di capire quali sono i fattori endogeni e quelli esterni, “come l’inquinamento”, che aumentano il rischio di ammalarsi.

Sul fronte della presa in carico, il presidente dell’Intergruppo parlamentare per la prevenzione e la cura delle malattie autoimmuni, asserisce decisamente che “occorre mettere al centro la dignità della persona” e, ancora una volta, “creare alleanzetra pazienti, comunità scientifica nazionale ed internazionale. Facciamo parte della comunità europea e questo rappresenta già un vantaggio enorme”. Quando si parla di presa in carico, per Zullo, bisogna poi tenere conto “non solo del livello sanitario, ma anche di protezione sociale e riabilitazione, che sono aspetti essenziali ma trascurati perché abbiamo ancora una visione troppo ospedalocentrica”. Sul fronte regolatorio, per Zullo occorre “efficientare il sistema, accelerando l’immissione in commercio dei farmaci, oggi in Italia ancora troppo lenta rispetto ad altri Paesi dell’Ue”. E “avere coraggio, perché il campo della ricerca è illimitato e va sostenuto”.

La discussione è dunque scaturita in una posizione di Consensus univoca: per malattie rare ed ultrarare è imprescindibile e necessario l'utilizzo di endpoint diversi da quelli unicamente clinici di hard outcome. Parametri biochimici e qualità di vita, ad esempio, possono e devono essere ritenuti validi esiti di efficacia della terapia. Inoltre, per la peculiarità delle patologie stesse ed esiguità del numero dei pazienti, la RWE rappresenta uno strumento importante e complementare a quello degli studi clinici randomizzati. L'auspicio di tale Consenso sarà ora quello di portare queste tematiche all'attenzione di tutti gli stakeholder interessati e convolti con ruoli decisionali di valore: comunità scientifica, pazienti, enti regolatori, policy maker.

Lucia Conti



27 marzo 2024
© Riproduzione riservata

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