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Al via un progetto di "amicizia" per unire gli sforzi contro le malattie infettive


Si chiama infatti  "Fellowship Program", il nuovo progetto di Gilead (una giovane e innovativa azienda americana) per il sostegno alla ricerca etica e multidisciplinare nei campi dell’Hiv, epatite cronica B e infezioni fungine invasive. Campi in cui le attività di ricerca rischiano di non poter proseguire per la carenza di risorse.

25 MAR - Per risolvere il problema Hiv non bastano i progressi della terapia e molto resta ancora da studiare. Non diverso il caso dell’epatite B che ha visto l’Italia all’avanguardia nella lotta con l’avvio della vaccinazione obbligatoria negli anni Novanta. Preoccupano inoltre infezioni emergenti come quelle fungine invasive.
Eccoli tre esempi di settori nei quali continuare e intensificare la ricerca, che però oggi nel nostro Paese si scontra sempre più con la scarsità dei finanziamenti (in Europa destiniamo quote di Pil superiori solo a Grecia e Portogallo), a fronte di laboratori di qualità riconosciuta internazionalmente. È a queste condizioni ormai divenute strutturali che si cerca di ovviare con iniziative come Fellowship Program, un progetto di sostegno alla ricerca etica e multidisciplinare nei tre campi (l’Hiv, l’epatite cronica B e le infezioni fungine invasive) promosso dall'azienda farmaceutica americana Gilead e rivolto a Istituti di ricerca, Fondazioni, ospedali.
 
“È un’iniziativa importante per attività di ricerca che rischiano di non poter proseguire e una prova di fiducia nelle capacità dei ricercatori italiani”, commenta nella giornata d’avvio ufficiale il coordinatore Mauro Moroni, Ordinario infettivologo dell’Università degli studi di Milano e vice presidente della Commissione nazionale per la lotta contro l’Aids.
Al board che selezionerà i progetti appartengono anche Barbara Ensoli, vice presidente della Commissione e direttore Centro nazionale Aids dell’Iss; Felice Piccinino, Ordinario infettivologo della Seconda Unversità di Napoli; Albano Del Favero, ordinario di Medicina interna dell’Università di Perugia; Cinzia Caporale, componente del Comitato nazionale di Bioetica.
Perché la scelta di questi settori di ricerca? “Hiv ed epatite hanno avuto fino dall’inizio un notevole impatto sociale a causa della trasmissione con una modalità come i rapporti sessuali - continua Moroni - perciò la ricerca ha importanti ricadute non solo sui singoli ma anche sulla collettività. Qualcosa di analogo alle forme fungine invasive legate alla popolazione che invecchia: l’età crea polipatologia e insieme a medicina invasiva e terapie immunosoppressive si determina un pabulum che favorisce le infezioni opportunistiche tra cui le temibili fungine invasive”.
I progetti vengono scelti per originalità e attesa di ricadute positive sulla collettività in tempi brevi, in linea con le indicazioni ministeriali alla “traslazionalità”della ricerca. Altri criteri sono la multidisciplinarietà e, non ultimo, l’eticità: “una novità, questa, doverosa sia per la tutela del paziente sia come garanzia di buon uso di risorse oggi limitate, in linea con le finalità del concorso”.
Prosegue Moroni: “Per l’Hiv va sottolineato che la diffusione del virus nel mondo non si è fermata e che i sieropositivi hanno tuttora tassi significativi di mortalità, specie dopo i 45 anni e per patologie accessorie che stanno emergendo. Quindi al di là della terapia l’obiettivo, non impensabile, resta la guarigione. Un grosso problemi resta lo scarso ricorso al test (il 60% di chi si scopre sieropositivo è già in stadio avanzato, da 3 a 6 anni dopo il contagio): si stima siano 40.000 in Italia gli Hiv-positivi che non sanno di esserlo e a essi è imputabile il 75% delle nuove infezioni.
Perciò l’emersione del sommerso è uno dei temi dei sottoprogetti; un altro è la strategia “test and treat” che si è rivelata molto efficace: a San Francisco si punta all’azzeramento, con la notifica obbligatoria di sieropositività e viremia e poi la terapia. Altri temi sono l’adesione, cioè come garantirla in una terapia per tutta la vita; poi il problema dei sottotipi virali non autoctoni introdotti da persone immigrate (ce ne sono almeno sei) che rischiano di combinarsi con i nostri e formare ibridi sui quali non si sa come funzionano i farmaci ottenuti in base alle conoscenze sulla nostra realtà. Ultimo e più ambizioso tema quello della latenza: oggi si sa il virus può permanere dormiente in cellule o siti protetti (“santuari”) con il sostegno di enzimi che fanno sì che non si replichino e sfuggano ai farmaci, dovremmo paradossalmente “risvegliarlo” per colpirlo con la terapia”.
 
Altro ambito patologico rilevante è quello dell’epatite B, infezione che ha avuto un netto declino dall’introduzione dell’immunoprofilassi obbligatoria facendo passare l’Italia da una situazione di media endemia alla bassa endemia, con un dato inferiore all’1%. “Ma questo vale per la popolazione italiana, tra i migranti ci sono sacche di endemia non sufficientemente controllate, con valori del 3 e a volte anche del 6%”, precisa Felice Piccinino. “D’altra parte in Asia ci sono prevalenze del 4%, nell’Est-Europa fino al 6-7%. La trasmissione è soprattutto per via sessuale, mentre si è ridotto efficacemente quello per altre vie come tossicodipendenza, contaminazione con sangue, tatuaggi ecc. Obiettivo del progetto è anche qui prima di tutto l’emersione del sommerso, tanto più che oggi disponiamo di antivirali molto efficaci (analoghi nucleosidici e nucleotidici) e poter curare chi è infetto ha una ricaduta anche sulla collettività in quanto riduce i contagi. Bisognerebbe identificare soggetti a rischio e informare su diagnosi e terapie specie “penetrando” nelle comunità etniche più chiuse quali quelle asiatiche, storicamente ad alta incidenza di virus B: si sta cercando di farlo in alcune realtà, così come vaccinando e trattando le gestanti a elevata viremia per proteggere i neonati”. Riguardo all’epatite B è poi all’attenzione un fenomeno identificato di recente. “Si tratta della riattivazione dell’HBv, per la quale nei soggetti venuti a contatto con il virus, anche in quelli guariti, materiale genetico virale permane silente nelle cellule epatiche e in determinate condizioni, per esempio per trattamenti immosoppressivi od oncologici, può riattivarsi: questo oggi può essere impedito grazie ad antivirali efficaci, ma il problema è che non sempre il fenomeno è noto a ematologi, reumatologi, oncologi come agli infettivologi. Infine si punta a individuare marcatori precoci dell’efficacia dei trattamenti”.

Elettra Vecchia

25 marzo 2011
© Riproduzione riservata

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