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Tumore del pancreas. Un antigene indica la terapia migliore

di Will Boggs

Alti livelli nel sangue di CA 19-9 dovrebbero portare l'oncologo a preferire una terapia neoadiuvante prima di operare il paziente. Lo studio sul Journal of the American College of Surgeons.

21 MAR - (Reuters Health) – L’antigene carboidratico 19-9 sarebbe associato con una prognosi peggiore nei pazienti con cancro al pancreas operabile nelle fasi iniziali. Ma questo marker, secondo uno studio basato su dati raccolti dal National Cancer Database, potrebbe essere preso in considerazione per valutare la migliore terapia. La ricerca è stata pubblicata sul Journal of the American College of Surgeons. “Anche se la chirurgia è necessaria per prolungare la sopravvivenza di un malato di tumore al pancreas, da sola non è sufficiente. – ha dichiarato Mark Truty della Mayo Clinic di Rochester, in Minnesota – Non possiamo prendere decisioni in merito alla terapia basandoci solo su fattori anatomici, ma dobbiamo prendere in considerazione anche i fattori biologici. Per valutare i fattori biologici del paziente la misurazione dei livelli di CA 19-9 nel sangue è un metodo facile, semplice e poco costoso”.
 
Lo studio
Alti livelli di antigene carboidratico 19-9 prima dell’intervento sono riconducibili spesso all’individuazione di metastasi sconosciute al momento della diagnosi, o a recidive precoci e risultati peggiori della terapia. Tuttavia, l’associazione di questo valore con i tempi di sopravvivenza nei pazienti con un cancro al pancreas al primo stadio resta sconosciuta. I ricercatori americani hanno cercato di capire l’utilità terapeutica dei livelli di CA 19-9 relativamente all’individuazione dei pazienti da sottoporre a chirurgia e del trattamento cui devono sottoporsi. La ricerca è stata condotta attraverso uno studio retrospettivo su più di 10mila pazienti con un tumore del pancreas nelle fasi iniziali (stadio I e II), operabile.
 
Tra tutti i casi considerati, i pazienti sui quali erano stati misurati i livelli di CA 19-9 erano solo un quarto di quelli presenti nel database. I valori sopra alla norma, superiori a 37 U/ml, erano associati con una peggiore prognosi di sopravvivenza rispetto ai pazienti con livelli normali o che non avevano l’antigene nel sangue. Inoltre, il dato sulla sopravvivenza era peggiore nei pazienti allo stadio iniziale della malattia. I tempi di sopravvivenza registrati erano inferiori anche nei pazienti con un modesto aumento dei livelli di antigene carboidratico. Dopo aver aggiustato i dati secondo altri fattori, alti livelli di CA 19-9 erano indipendentemente associati con un aumentato rischio di mortalità. Mentre altri fattori indipendenti, collegati ad un aumento della mortalità, erano l’età superiore a 65 anni, un alto punteggio di comorbidità Charlson-Deyo, un tumore più esteso o di grado più elevato, la presenza di interessamento linfovascolare e il mancato trattamento con chemioterapia o radioterapia.

Le evidenze
Secondo lo studio, i pazienti con alti livelli di CA 19-9 che si sottoponevano a una terapia per ridurre le dimensioni del tumore, seguita da chirurgia, avrebbero avuto una prognosi migliore tra tutti i malati, e la combinazione dei due trattamenti avrebbe contribuito ad eliminare il rischio dell’aumento della mortalità associato ad alti livelli di CA 19-9. Mentre la chemioterapia post-chirurgica avrebbe leggermente ridotto il rischio di mortalità associato ad alti livelli di CA 19-9 e la chirurgia da sola non avrebbe eliminato questo rischio. “Ogni paziente, indipendentemente dal fatto che il tumore sia operabile o meno, dovrebbe essere trattato con chemioterapia prima dell’intervento – ha sottolineato Truty -. Questo studio mostra che possiamo cambiare i fattori biologici del paziente, e di conseguenza la riuscita della terapia, trattando con la chemioterapia prima della resezione chirurgica nei pazienti con alti livelli di CA 19-9”.

“L’obiettivo della chirurgia è di curare il paziente e farlo vivere più a lungo nelle migliori condizioni, non semplicemente rimuovere il tumore. – ha concluso l’esperto – Abbiamo fatto la stessa cosa per anni: chirurgia e poi chemioterapia. Anche se abbiamo migliorato le prognosi, abbiamo bisogno di ripensare l’approccio terapeutico”.

Fonte: J Am Coll Surg 2016

Will Boggs MD

(Versione italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)

21 marzo 2016
© Riproduzione riservata

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