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Osservasalute 2015. Stili di vita, prevenzione, spesa sanitaria. La sintesi del Rapporto


26 APR - La sintesi del Rapporto Osservasalute 2015
 
Invecchiamento senza freni, oltre un italiano su 5 ha più di 65 anni – Aumentano i “giovani anziani” (ossia i 65-74enni): sono oltre 6,5 milioni, pari al 10,7% della popolazione residente (nello scorso rapporto figuravano oltre 6 milioni, pari al 10,6% della popolazione residente). In altri termini oltre un residente su dieci ha un’età compresa tra i 65-74 anni. I valori regionali variano da un minimo del 9,3% della Campania a un massimo del 12,9% della Liguria. Il peso relativo dei 65-74enni sul totale della popolazione varia sensibilmente se si considera la cittadinanza: i 65-74enni rappresentano l’11,5% della popolazione residente con cittadinanza italiana vs il 2,2% registrato per gli stranieri.
 
Aumentano anche gli “anziani” (75-84 anni): sono oltre 4,7 milioni e rappresentano ben il 7,8% del totale della popolazione (nella scorsa edizione del Rapporto erano circa 4 milioni e rappresentano ben il 7,6% del totale della popolazione); ma, anche in questo caso, è possibile notare delle differenze geografiche. In Liguria tale contingente rappresenta ben il 10,5% del totale mentre in Campania è “solo” il 6,1%. Le differenze nella struttura per età della popolazione per cittadinanza si fanno, in questo caso, ancora più marcate: gli anziani sono l’8,5% degli italiani vs lo 0,7% dei residenti stranieri.
 
Aumentano pure i “grandi vecchi”: la popolazione dei “grandi vecchi” è pari a oltre 1 milione e 900 mila unità che corrisponde al 3,2% del totale della popolazione residente (l’anno precedente erano 1 milione e 700 mila unita, pari al 3% del totale della popolazione residente). Anche tale indicatore mostra i valori maggiori in Liguria (4,6%) e i valori minori in Campania (2,2%). La quota di popolazione straniera, in questa fascia di età, è del tutto irrisoria ed è rappresentata solo dallo 0,1% rispetto alla quota di cittadinanza italiana che è pari al 3,4%.
 
Si registra, inoltre, l’aumento del peso della componente femminile sul totale dei residenti all’aumentare dell’età: la proporzione di donne è del 53% tra i giovani anziani, sale al 57,8% tra gli anziani e arriva al 68,9% tra i grandi vecchi. Si noti che, seppure le donne rappresentino la maggioranza degli anziani in tutte le classi di età considerate (specie al crescere dell’età), la componente maschile negli ultimi anni sta lentamente recuperando tale svantaggio, grazie alla riduzione dei differenziali di mortalità per genere.
 
Quindi la popolazione con 65 anni e oltre rappresenta quasi il 22% della popolazione residente, ossia più di una persona su 5 è ultra 65enne. I divari territoriali sono evidenti. Come già sottolineato, la Liguria è la regione più vecchia del Paese (la quota di over 65 anni è pari al 28%) e al suo opposto troviamo la Campania (17,6%). Più in generale, ad eccezione della PA di Bolzano e, anche se in minor misura della PA di Trento, il processo di invecchiamento ha coinvolto maggiormente, finora, le regioni del Centro-Nord.
 
Si conferma il boom degli ultracentenari – La popolazione ultracentenaria continua ad aumentare sia in termini assoluti sia relativi. Al 1° gennaio 2015 oltre tre residenti su 10.000 hanno 100 anni e oltre.
Gli ultracentenari sono molto più che triplicati dal 2002 al 2015, passando da 5.650 unità nel 2002 a oltre 19.000 nel 2015. In termini relativi, nel 2002, quasi uno ogni 10.000 residenti era ultracentenario, mentre nel 2015 oltre tre ogni 10.000. Se si considera il solo contingente femminile, negli stessi anni si è passati da 1,6 a 5,1 ultracentenarie ogni 10.000 residenti.
Gli ultracentenari uomini sono passati da 0,3 a 1,1 ogni 10.000 residenti. Si noti che nell’ultimo anno di calendario, considerando sia gli uomini sia le donne, si è registrato un incremento di ben 1.211 unità, con un incremento annuo pari a 6,8%.
Infine, la componente femminile è più numerosa: nel 2015, infatti, le donne rappresentano l’83,8% del totale degli ultracentenari.
 
L’aumento della speranza di vita segna una battuta d’arresto – Nel 2015 la speranza di vita per gli uomini è 80,1 anni, 84,7 anni per le donne (in base ai dati Istat più recenti, non presenti nel Rapporto). Nel 2014, la speranza di vita alla nascita era pari a 80,3 anni per gli uomini e 85,0 anni per le donne (come indicato in questa edizione del Rapporto). Si conferma l’andamento degli ultimi anni che evidenzia un incremento più favorevole tra gli uomini, pur in presenza di un’aspettativa di vita ancora superiore per le donne. La distanza tra i due generi è, infatti, pari a +4,7 anni a favore delle donne, contro i +5 anni del 2010.
 
Nella PA di Trento si riscontra, sia per gli uomini sia per le donne, la maggiore longevità (rispettivamente, 81,3 anni e 86,1 anni). La Campania, invece, è la regione dove la speranza di vita alla nascita è più bassa, 78,5 anni per gli uomini e 83,3 anni per le donne.
 
Per quanto riguarda le cause di morte, dai dati del 2012, quelle più frequenti sono le malattie ischemiche del cuore, responsabili da sole di 75.098 morti (poco più del 12% del totale dei decessi). Seguono le malattie cerebrovascolari (61.255 morti, pari a quasi il 10% del totale) e le altre malattie del cuore non di origine ischemica (48.384 morti, pari a circa l’8% del totale). La quarta causa più frequente è rappresentata dai tumori maligni di trachea, bronchi e polmoni, che negli uomini determina 24.885 decessi (seconda causa di morte), poco più del triplo di quelli osservati nelle donne (decima causa di morte). I decessi dovuti a malattie ipertensive (20.367), nonché a demenza e malattia di Alzheimer (18.226), causano tra le donne il doppio dei decessi osservati tra gli uomini.
La situazione territoriale mostra, comunque, un'evidente eterogeneità geografica. Infatti, i tumori maligni di trachea, bronchi e polmoni, la demenza, la malattia di Alzheimer e l’influenza e la polmonite mostrano un'importanza relativa maggiore nelle aree settentrionali, mentre nell’area meridionale la maggiore rilevanza in termini relativi si riscontra per i decessi per diabete e malattie ipertensive.
 
STILI DI VITA DEL BEL PAESE, timidi miglioramenti sul fronte dell’attività fisica, ma sempre più grassi gli italiani
 
Si conferma elevata la quota di italiani sovrappeso e obesi, problema in crescita anche al Nord – Nel 2014, più di un terzo della popolazione adulta (36,2%) è in sovrappeso, mentre poco più di una persona su 10 è obesa (10,2%); complessivamente, il 46,4% dei soggetti di età ≥18 anni è in eccesso ponderale. In Italia, nel periodo 2001-2014, è aumentata la percentuale delle persone in sovrappeso (33,9% vs 36,2%), soprattutto è aumentata la quota degli obesi (8,5% vs 10,2%). Il sovrappeso si riferisce a un Indice di Massa Corporea – IMC – tra 25 e 30. L’obesità a valori di IMC superiori a 30.
 
Le differenze rilevate sul territorio sono considerevoli e si conferma il gradiente Nord-Sud e Isole: le regioni meridionali presentano la prevalenza più alta di persone obese (Molise 14,6%, Abruzzo 13,1%; Puglia 11,9%) e in sovrappeso (Campania 41,5%, Calabria 39,6% e Puglia 39,4%) rispetto alle regioni settentrionali, che mostrano i dati più bassi di prevalenza (obesità: PA di Trento 7,5% e PA di Bolzano 8,1%; sovrappeso: PA di Trento 28,5% e Valle d’Aosta 31,5%).
 
Il problema dell’eccesso di peso è cresciuto molto nelle regioni settentrionali: confrontando i dati con quelli degli anni precedenti e raggruppando per macroaree (Nord-Ovest: Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia; Nord-Est: PA di Bolzano, PA di Trento, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna; Centro: Toscana, Umbria, Marche, Lazio; Sud: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria; Isole: Sicilia, Sardegna) si osserva che, dal 2001, nella ripartizione con livelli più bassi di persone in sovrappeso (il Nord-Ovest) si è registrato il maggior aumento di persone con eccesso ponderale (in sovrappeso e obese). Diversamente, nelle Isole la percentuale di persone in sovrappeso e obese è rimasta abbastanza stabile negli ultimi anni.
 
Problema che aumenta con l’età: la percentuale di popolazione in condizione di eccesso ponderale (in sovrappeso o obesa) cresce all’aumentare dell’età. Nello specifico, il sovrappeso passa dal 14,9% della fascia di età 18-24 anni al 46,5% tra i 65-74 anni, mentre l’obesità dal 2,4% al 15,7% per le stesse fasce di età.
 
Bambini e ragazzi: nel 2014 bambini di 8-9 anni in sovrappeso sono il 20,9%; i bambini obesi sono il 9,8%, compresi i bambini gravemente obesi che da soli sono il 2,2%.
Complessivamente, i bambini che presentano un eccesso ponderale (comprendente sia il sovrappeso sia l’obesità) raggiungono il 30,7%.
Il dato è in diminuzione rispetto al periodo 2008-2009 al 2014 quando si registrava una quota di bambini in condizioni di obesità pari al 12%; diminuzione anche per il sovrappeso, nel biennio 2008-09 erano il 23,2% dei bambini.
 
Se mamma e papà hanno studiato, bimbi più in forma: all’aumentare del grado di istruzione dei genitori diminuisce la quota di figli in eccesso ponderale e nelle famiglie in cui vi è almeno un genitore obeso la prevalenza di bambini in eccesso di peso è maggiore. Si conferma una spiccata variabilità interregionale, con percentuali tendenzialmente più basse nell’Italia settentrionale e più alte nel Meridione: dal 13,4% di sovrappeso nella PA di Bolzano al 28,6% in Campania; dal 4% di obesità nella PA di Bolzano al 19,2% in Campania.
 
Si stima che nella popolazione di 6-11 anni il numero di coloro che presentano un eccesso ponderale sia pari a circa 1 milione e 50.000 bambini, di cui 336 mila obesi.
 
Aumentano gli sportivi, calo significativo dei sedentari – Nel 2014 è il 23% della popolazione con età ≥3 anni che si dedica allo sport in modo continuativo. Nel 2013 era il 21,5, nel 2012 era il 21,9% invariato rispetto al 2011. Nel 2010 il 22,8% della popolazione con età ≥3 anni praticava con continuità, nel tempo libero, uno o più sport (nel 2009 era il 21,5%, nel 2008 era il 21,6%, nel 2007 il 20,6%).
 
Aumentano nell’ultimo biennio anche coloro che, pur non praticando uno sport, svolgono un’attività fisica (passeggiare per almeno 2 km, nuotare, andare in bicicletta etc). Sono il 28,2% della popolazione nel 2014, mentre erano il 27,9% nel 2013.
 
La sedentarietà cala in maniera significativa per entrambi i generi: rispetto all’anno precedente, nel 2014 si riscontra una significativa diminuzione delle persone sedentarie (-1,3 punti percentuali). Infatti i sedentari sono circa 23 milioni e 500 mila, pari al 39,9% della popolazione. Erano 24 milioni e 300 mila, pari al 41,2% nel 2013.
 
Più sportivi a Nord - L’analisi territoriale mostra una differente attitudine alla pratica sportiva tra le diverse regioni del Paese che, probabilmente, riflette anche una diversa disponibilità di strutture organizzate. Le regioni settentrionali, in particolare la PA di Bolzano (38,7%), la PA di Trento (30,7%), la Valle d’Aosta (30,2%) e la Lombardia (28,5%), rappresentano la zona del Paese con la quota più elevata di persone che praticano sport in modo continuativo. Le regioni del Meridione si caratterizzano per la quota più bassa di persone che dichiarano di dedicarsi allo sport nel tempo libero, fatta eccezione per la Sardegna dove il 30,8% dichiara di praticare attività sportiva in modo continuativo o saltuario. Le regioni che registrano la più bassa quota di praticanti sportivi sono la Campania (17,9%), la Basilicata (21,7%), la Calabria (23,3%) e la Sicilia (23,4%).
 
Alcolici, diminuiscono i consumatori – Aumenta nel 2014 la percentuale dei non consumatori (astemi e astinenti negli ultimi 12 mesi), pari al 35,6% degli individui di età >11 anni rispetto al 2013 (34,9%), sebbene l’analisi regionale evidenzi sia un aumento della percentuale dei non consumatori rispetto all’anno precedente, in particolare in Toscana (+5,2 punti percentuali), che una diminuzione soprattutto in Piemonte (-3 punti percentuali) e in Friuli Venezia Giulia (-3,2 punti percentuali). La regione con il più basso valore di prevalenza dei non consumatori, nel 2014, è la PA di Bolzano.
 
Invariata la quota di consumatori a rischio - La prevalenza dei consumatori a rischio, nel 2014, è pari al 22,7% per gli uomini e all’8,2% per le donne, ed è rimasta pressoché stabile rispetto al 2013 (23,4% e 8,8%, rispettivamente).
 
L’analisi territoriale mostra delle diminuzioni significative rispetto alla precedente rilevazione solo in Emilia-Romagna tra gli uomini (-4,6 punti percentuali) e in Campania tra le donne (-2,7 punti percentuali).
 
Continuano a calare i fumatori – Sono poco più di 10 milioni i fumatori in Italia nel 2014, poco meno di 6 milioni e 200 mila uomini e poco più di 4 milioni di donne. Si tratta del 19,5% della popolazione di 14 anni e oltre.
 
Continua dunque il trend in lenta discesa dei fumatori, infatti, nel 2010 fumava il 22,8% degli over-14, nel 2011 il 22,3%, nel 2012 il 21,9% e nel 2013 il 20,9%.
 
Anche il numero medio di sigarette fumate al giorno diminuisce in un trend continuo dal 2001, passando da una media di 14,7 sigarette nel 2001 a 12,1 del 2014, una variazione che conferma la tendenza alla riduzione di tale abitudine, sebbene tale valore sia invariato rispetto al 2013.
Rispetto al 2013 è aumentato il numero di regioni che superano o eguagliano il valore nazionale in termini di prevalenza di fumatori sulla popolazione di 14 anni e oltre. Si tratta, infatti, di 12 tra regioni e PA (le prime, in ordine decrescente in termini di prevalenza, sono Campania, Umbria, Lazio e Abruzzo), con la più alta prevalenza di fumatori registrata in Campania (22,1%), seguita dall’Umbria (21,2%). La Calabria presenta la minore prevalenza di fumatori di sigarette (16,2%), seguita dalla PA di Trento (16,3%).
 
La prevalenza di fumatori è più elevata nei Comuni grandi, sia del centro sia della periferia dell’area metropolitana (rispettivamente, 19,5% e 21,9%), rispetto ai piccoli Comuni con meno di 2.000 abitanti, che fanno registrare il 17,4% di fumatori.
 
Vizio duro a morire tra i giovani: Le fasce di età che risultano più critiche sia per gli uomini che per le donne sono, nel 2014, quella dei giovani tra i 20-24 e 25-34 anni in cui, rispettivamente, il 28,8% e 33,5% degli uomini e il 20,5% e il 19,3% delle donne si dichiarano fumatori.
 
Ma i più accaniti sono gli over-50 - In merito al numero medio di sigarette fumate al giorno, i più accaniti fumatori sono gli uomini e le donne tra i 55-59 anni con, rispettivamente, 15,0 e 12,3 sigarette fumate ogni giorno.
 
Persiste il trend in aumento del consumo di antidepressivi – I consumi sono pari a 39,30 Dosi Definite Giornaliere-DDD/1.000 ab die nel 2014.
Si noti che, dopo l’aumento costante registrato nel decennio 2001-2011, il volume prescrittivo sembrava aver raggiunto nel 2012 una fase di stabilità (38,50 DDD/1.000 ab die nel 2011; 38,60 DDD/1.000 ab die nel 2012), mentre, in realtà, nel biennio successivo si è registrato un nuovo incremento (39,10 DDD/1.000 ab die nel 2013; 39,30 DDD/1.000 ab die nel 2014).
 
Il trend in aumento può essere attribuibile a diversi fattori tra i quali, ad esempio, l’arricchimento della classe farmacologica di nuovi principi attivi utilizzati anche per il controllo di disturbi psichiatrici non strettamente depressivi (come i disturbi di ansia), la riduzione della stigmatizzazione delle problematiche depressive e l’aumento dell’attenzione del Medico di Medicina Generale nei confronti della patologia. I consumi più elevati nell’anno 2014 si sono avuti in Toscana (59,50), nella PA di Bolzano (53,30), in Liguria (51,30), in Emilia-Romagna (49,40) e in Umbria (49,40), mentre i consumi minori in Basilicata (30,30), Campania (30,50), Puglia (31,20) e Sicilia (31,20). Il Lazio (da 35,80 a 34,80) e l’Umbria (da 50,20 a 49,40) sono le due regioni che hanno registrato il maggiore calo dei consumi nell’ultimo anno.
 
Suicidi in aumento, resta un dramma maschile che si consuma soprattutto in età avanzata – Nel biennio 2011-2012, il tasso annuo di mortalità per suicidio è stato pari a 7,99 (per 100.000) residenti di 15 anni e oltre. Si riscontra un leggero aumento rispetto agli anni precedenti, infatti nel biennio 2010-2011 il tasso medio annuo di mortalità per suicidio è stato pari a 7,32 per 100.000 residenti di 15 anni e oltre. Nel biennio 2008-2009, il tasso medio annuo di mortalità per suicidio era pari a 7,23 per 100.000 residenti. Nel biennio successivo, 2009-2010, era 7,21.
 
Nel 78,4% dei casi il suicida è un uomo. Il tasso di mortalità è pari a 13,61 (per 100.000) per gli uomini e a 3,25 (per 100.000) per le donne.
 
Per entrambi i generi la mortalità per suicidio cresce all’aumentare dell’età. Per gli uomini vi è un aumento esponenziale dopo i 65 anni di età e il tasso raggiunge il suo massimo nelle classi di età più anziane. Per le donne, invece, la mortalità per suicidio raggiunge il suo massimo nella classe di età 70-74 anni, dopo di che tende a ridursi lievemente nelle classi di età più anziane. L’indicatore presenta una marcata variabilità geografica, con tassi standardizzati, in generale, più elevati nelle regioni del Nord, con l’eccezione della Liguria che, insieme a Calabria e Campania, si colloca tra le 3 regioni con i livelli di suicidalità più bassi d’Italia. All’estremo opposto troviamo la Sardegna, con un tasso di mortalità più che doppio rispetto alle 3 regioni sopra menzionate, che si colloca al terzo posto nella graduatoria delle regioni con i livelli di suicidialità più alti, preceduta solo dalla Valle d’Aosta e dalla PA di Bolzano.
 
Prevenzione, cenerentola italiana, pochi investimenti e cittadini disattenti – La spesa per la prevenzione (che comprende, oltre alle attività di prevenzione rivolte alla persona come, ad esempio, vaccinazioni e screening, la tutela della collettività e dei singoli dai rischi negli ambienti di vita e di lavoro, la Sanità Pubblica veterinaria e la tutela igienico-sanitaria degli alimenti) ammonta in Italia a circa 4,9 miliardi di euro e rappresenta il 4,2% (dati dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali) della spesa sanitaria pubblica. La percentuale di spesa per la prevenzione prevista dal Piano Sanitario Nazionale (livello fissato nel Patto per la Salute 2010-2012) è del 5%. Sono poche le regioni che raggiungono tale livello e a livello nazionale mancano “all’appello” 930 milioni di euro da dedicare alla prevenzione.
 
Secondo dati OCSE (che indicano che la spesa per la prevenzione è cresciuta del 5,6% annuo nel periodo 2005-2009, mentre si è poi ridotta mediamente dello 0,3% annuo tra 2009-2013,), anche in Italia uno dei settori che fino ad oggi ha subito di più le politiche di razionamento è quello della prevenzione: infatti, è facile tagliare gli investimenti alle politiche di prevenzione che, come si sa, danno spesso il loro ritorno a distanza di anni, tempo giudicato incompatibile con l’orizzonte temporale di chi è costantemente alle prese con i bilanci annuali o le campagne elettorali. Eppure è ben conosciuto l’impatto in termini economici della “mancata prevenzione”: un’imponente lievitazione della spesa sanitaria per il peggioramento delle condizioni di salute della popolazione e, quindi, un aumento della domanda e dei bisogni socio-sanitari, in particolare per la disabilità legata all’aumentata prevalenza delle patologie croniche.
 
Il quadro che si configura nel nostro Paese è caratterizzato, inoltre, da una scarsa attenzione da parte dei cittadini alla tutela della propria salute, segnato da una scarsa percezione del rischio e/o da una irresponsabilità personale alquanto diffusa che può, per questo, essere annoverata tra i problemi che negli ultimi decenni stanno contribuendo a orientare la “nave” della sanità nella direzione della “tempesta perfetta”, ossia una situazione in cui, a causa dei diversi fattori, il nostro SSN potrebbe incontrare seri rischi di non servire adeguatamente i suoi “passeggeri.
 
Una fotografia del servizio sanitario nazionale
Spesa sanitaria pubblica pro capite stabile, ma resta più bassa che in altri paesi - Nel 2014, la spesa sanitaria pubblica pro capite in Italia è di 1.817€, del tutto in linea con il valore dell’anno precedente, segnando così un arresto del trend in diminuzione dal 2010.
Con tale valore medio, l’OCSE pone l’Italia tra i Paesi che spendono meno, tra i 32 dell’area OCSE, in termini pro capite. Nell’ultimo anno, ad esempio, il Canada ha speso oltre il 100% in più per ogni cittadino rispetto all’Italia, la Germania il 68% e la Finlandia il 35%, con la conseguenza che l’Italia si posiziona all’estremo inferiore dei valori pro capite insieme a Paesi per lo più dell’Europa dell’Est.
La spesa pro capite più alta si registra in Molise (2.226€) e la più bassa in Campania (1.689€). Il gap è di 537€.
Fra il 2013 e il 2014 12 regioni hanno ridotto la loro spesa sanitaria pro capite, mentre 9 ne hanno incrementato il valore. Fra queste ultime, 3 sono regioni in Piano di Rientro (Campania +0,18%, Puglia +1,07% e Molise +6,23%). Le regioni più virtuose, con una riduzione >2%, appartengono al Nord Italia (Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta e Piemonte).
 
Disavanzo - Nel 2014 il disavanzo sanitario nazionale ammonta a circa 864 milioni di euro, in netta diminuzione rispetto al 2013 (1,744 miliardi di euro). Si conferma, ancora una volta, il trend di sistematica riduzione che si è registrato a partire dal 2005.
La generalizzata riduzione dei deficit, il miglioramento della situazione nella maggior parte delle regioni assoggettate a piano di rientro e la presenza di numerose regioni in equilibrio, inducono anche quest’anno, per quanto riguarda la dimensione economico-finanziaria, a un cauto ottimismo. I dati confermano, infatti, che il SSN è riuscito a bloccare la tradizionale dinamica espansiva della spesa e ad allinearsi alle limitate disponibilità finanziarie dello Stato, malgrado l’invecchiamento della popolazione, i costi indotti dal progresso tecnologico e le forme di deprivazione socio-economica prodotte dalla crisi.
Va, però, evidenziato come l’equilibrio sia ancora relativamente fragile, poiché tale risultato è stato largamente conseguito tramite iniziative (blocco o riduzione dei volumi e dei prezzi dei fattori produttivi e contenimento dei consumi sanitari) che difficilmente potranno essere mantenute nel medio periodo o, comunque, produrre ulteriori risparmi.
 
Asl in perdita, erogazione dei servizi a rischio - In questa edizione del Rapporto viene trattato, per la prima volta, il tema dei disavanzi non coperti delle Aziende Sanitarie pubbliche, aspetto molto rilevante per il funzionamento del SSN, poiché l’accumulo di deficit causa l’erosione del patrimonio netto aziendale e, quindi, la contrazione delle attività dovuta alla diminuzione delle disponibilità di cassa e all’incapacità di rinnovare adeguatamente le attrezzature.
 
I dati sui disavanzi non coperti mostrano che nello scorso decennio molte Aziende Sanitarie pubbliche hanno sistematicamente operato in perdita e la copertura delle perdite accumulate è stata soltanto parziale. Alla fine del 2008, per esempio, si rilevavano 38,7 miliardi di euro di perdite accumulate dalle aziende (32,6 nelle regioni con piani di rientro e 6,1 nelle altre), di cui 24,7 miliardi di euro coperti da contributi assegnati, ma non ancora erogati e i rimanenti 14 miliardi non ancora coperti nemmeno in termini di assegnazione. Di qui le ben note difficoltà incontrate dalle aziende nel pagamento dei fornitori e nel rinnovo dei cespiti, ad esempio delle apparecchiature mediche. Negli anni successivi, e soprattutto a partire dal 2012, i Servizi Sanitari Regionali (SSR) hanno continuato a rilevare perdite, ma in misura sempre più contenuta.
 
Nel frattempo, sono diventati più stringenti e monitorati gli obblighi di copertura, cui si è aggiunta un ingente trasferimento di liquidità da parte dello Stato. A fine 2014, tutti i disavanzi risultavano così essere stati coperti, almeno in termini di assegnazione, per il complesso del SSN e per la maggioranza dei SSR individualmente considerati.
 
“I risultati conseguiti nel 2014 in termini di equilibrio finanziario”, afferma Alessandro Solipaca, “sono positivi e testimoniano l’efficacia delle regole di responsabilizzazione delle regioni sui propri equilibri economico-finanziari, dei sistemi di monitoraggio della spesa e delle iniziative di “efficientamento” delle aziende sanitarie”.
“Tuttavia”, sottolinea Walter Ricciardi, “l’obiettivo dell’efficienza economica non deve essere confuso con quello dell’efficacia dei sistemi sanitari regionali, da valutare attraverso gli esiti delle attività di cura e assistenza sanitaria sui territori di competenza”.
 
Tempi di pagamento in favore dei fornitori, ridotti del 35% in tre anni - Il tema dei tempi medi di pagamento e delle procedure con le quali la Pubblica Amministrazione paga il corrispettivo delle forniture di beni e servizi è, da diversi anni, uno snodo importante della situazione economica del nostro Paese ed è di stretta attualità in un periodo di crisi economica e finanziaria come quella che attraversa non solo l’Italia, ma la maggior parte dei Paesi dell’Occidente globalizzato. In questo contesto, il richiamo alla situazione delle strutture sanitarie è d’obbligo poiché, da un lato esse rappresentano uno dei principali settori di spesa per la categoria di beni e servizi e, dall’altro, sono le strutture che denunciano i maggiori deficit e i maggiori ritardi nei pagamenti in tutte le indagini disponibili.
 
Uno degli elementi di maggiore disfunzionalità delle Aziende Sanitarie è dato dal ritardo nei pagamenti dei fornitori. Infatti, il ritardo nei pagamenti può essere la spia di inefficienze amministrative ed eccessive rigidità delle procedure di spesa nelle Pubbliche Amministrazioni.
 
Per il calcolo di questo indicatore è stato usato l’indice Days of Sales Outstanding (DSO), che rappresenta il numero dei giorni che, mediamente, trascorrono dalla data di fatturazione alla data di incasso, ovvero il tempo medio di incasso di un’impresa fornitrice.
 
A livello nazionale, i tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche sono passati da 300 giorni nel 2011 a 195 giorni del 2014, con una riduzione del 35%. La riduzione dei tempi medi di pagamento si è verificata, in particolar modo, a partire dal 2012, con una diminuzione più marcata tra il 2013-2014, con un abbattimento dei tempi medi di pagamento del 24,7% in questi 2 anni.
 
Verosimilmente tale risultato è dovuto all’entrata in vigore del D. Lgs. n. 192/2012 che stabilisce come valore di riferimento un tempo pari o inferiore a 60 giorni. Tuttavia, sebbene la situazione sia nettamente migliorata nel quadriennio preso in analisi, i tempi medi di pagamento delle strutture sanitarie pubbliche si discostano ancora molto da quanto prescritto dalla normativa vigente e in particolare, dal D. Lgs. sopra citato.
 
È emerso un profondo divario tra le regioni. Infatti, se in tutte le regioni viene riscontrato un trend in diminuzione tra il 2011-2014, i dati anno per anno mostrano che non tutte le regioni hanno fatto il medesimo sforzo per ridurre i tempi medi di pagamento delle Aziende Sanitarie pubbliche, con situazioni limite come in Piemonte e in Molise, in cui i DSO sono aumentati tra il 2011-2013, per poi ridursi nel 2014.
 
Altro elemento che mostra una forte eterogeneità tra le regioni è il valore minimo e massimo rilevato nei tempi medi di pagamento, per cui si passa dai 71 giorni nel 2014 in Valle d’Aosta, valore sostanzialmente in linea con quanto prescritto dalla normativa vigente, ai 794 giorni nel 2014 in Calabria, valore oltre dieci volte superiore a quanto prescritto dalla normativa vigente. In via generale, si riscontra come nelle regioni del Nord i tempi medi di pagamento siano mediamente più bassi del valore nazionale, mentre nelle regioni del Centro-Sud e Isole i tempi di pagamento siano più elevati del dato nazionale e ancora molto lontani dal benchmark.
 
Si spende sempre meno per il personale sanitario - Nel 2013 la spesa per il personale ammonta a 35,169 miliardi di euro, circa il 32% della spesa totale, e registra un decremento dell’1,4% medio annuo (-4,1% assoluto) nel periodo 2010-2013, a fronte di una riduzione media annua della spesa sanitaria dell’1% (-2,9% assoluto); è la voce di spesa del SSN che ha subito i tagli maggiori tra il 2010-2013.
 
La diminuzione della spesa è sostanzialmente il risultato delle politiche di blocco del turnover attuate dalle regioni sotto Piano di Rientro e delle misure di contenimento della spesa per il personale, portate avanti autonomamente dalle altre regioni, nonché dell’utilizzo di forme alternative (personale interinale) di acquisizione delle risorse umane.
 
Rallenta la riduzione del personale sanitario - riduzione Prosegue anche nel 2013 la contrazione del personale, ma con un tasso inferiore rispetto agli anni precedenti; infatti nel 2013 sono state assunte 85,6 persone ogni 100 pensionati, nel 2012 il rapporto si attestava a 68,9 ogni 100.
 
Il rallentamento della riduzione del personale è un fatto positivo, spiega il dottor Solipaca, ma non va dimenticato che le riduzioni di personale sono state più consistenti nelle regioni con maggiori deficit di bilancio. Il fattore preoccupante per la sanità pubblica è che i tagli di personale operati nel corso degli ultimi anni potrebbero produrre degli effetti sull’erogazione e sulla qualità dell’assistenza, e per di più in maniera differenziata nelle diverse aree del Paese.

26 aprile 2016
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