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Dove stiamo andando? Un’ennesima riforma?

di Roberto Polillo, Mara Tognetti

Il legislatore persevera nell’errore di ritenere che sia sufficiente definire nuove norme per ottenere un cambiamento. Nulla di così lontano dalla realtà. Manca in questo un approccio fondamentale, un processo di riforma è tale solo se nasce da un reale confronto con i diversi soggetti che agiscono nel contesto istituzionale (operatori, pazienti, complesso sanitario) e se si opera un investimento culturale che aumenti il livello di consapevolezza dei problemi.

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Poche riforme in sanità sono state contrastate come il “Regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale” di cui al DM77, pubblicato in Gazzetta ufficiale il giorno 22/06/22.

Tornando indietro nel tempo bisogna risalire alla legge 229/1999 di riforma del SSN dove, a guidare la cordata degli oppositori, furono gli stessi soggetti che oggi si oppongono alla re-definizione degli standard dell’assistenza territoriale: i sindacati dei medici di famiglia con il sostegno di alcune associazioni di tutela dei malati.

Certo in quell’occasione le critiche si limitavano ad accusare la legge Bindi di essere centralista e dirigista e di mettere in discussione il ruolo del medico di famiglia; oggi si è invece arrivati a sostenere che la riforma mina il servizio pubblico e punta a un vero cambio di paradigma orientato alla privatizzazione del SSN.

Critiche talmente lontane dalla realtà che non possono essere neanche prese in considerazione; in esse infatti è evidente il timore corporativo di perdere ruolo e status sociale nella divisione sociale del lavoro sanitario.

Questo non vuole certo dire che il provvedimento non sia esente da critiche; i punti di debolezza sono evidenti e sono da riferirsi in primis, ma non solo, alla mancata riforma dello stato giuridico dei medici di medicina generale che ne impedisce l’utilizzazione all’interno delle case di comunità.

Una riforma che per essere applicabile ha bisogno di una norma primaria ovvero sia di un provvedimento legislativo che vada a modificare la legga Balduzzi sull’assistenza primaria e non un atto di indirizzo per il nuovo ACN della medicina generale di cui, dopo avere sollevato una tempesta in un bicchiere d’acqua, si è persa ogni traccia.

Pochi giorni orsono il Ministro Speranza ha dichiarato che ora metterà mano alla riforma della medicina generale, ben consapevole che senza di questa il DM77, di cui in tabella si sintetizzano gli aspetti principali, resterà una dichiarazione di principi.

Questa è dunque la vera sfida: mettere in piedi una vera riforma dello stato giuridico dei MMG che mandi in soffitta l’ancora meno applicata legge Balduzzi; una riforma che però a nostro giudizio, per essere tale dovrebbe marciare di pari passo con un altrettanto importante modifica dello stato giuridico del personale dipendente puntando a un contratto di filiera per tutto il personale pubblico e privato che opera nel SSN.

Le difficoltà di un tale processo sono già chiaramente emerse quando nella bozza di atto di indirizzo del prossimo ACN per la medicina generale era stato proposto una nuova articolazione dell’orario di lavoro: 38 ore di servizio settimanale, di cui 20 ore all'interno degli studi e 18 per attività sanitarie nel distretto: di queste nelle case della comunità da un minimo 6 fino 18. 

Una proposta apprezzabile, innovativa e forse per questo duramente contestata dalla stragrande maggioranza dei sindacati della medicina di base che non vogliono per nessun motivo rinunciare all’anacronistica condizione di libero-professionisti incaricati, in modo monopolistico, di pubblico servizio.

Tabella 1: organizzazione dell’assistenza territoriale (DM77)

Alcune ulteriori criticità

Sulla base del provvedimento vi sono però delle ulteriori criticità che si accompagnano normalmente a qualsiasi riforma e in special modo là dove si introducono cambiamenti anche nella struttura organizzativa e quindi nelle funzioni e nel ruolo del personale.

Come abbiamo più volte sottolineato e non ci stancheremo di riproporre la questione ad ogni cambiamento serve un capitale culturale adeguato e una comprensione della riforma in atto di tipo capillare, sia sul versante del personale che in particolare sul versante dei cittadini.

I welfare, che noi chiamiamo muti, perché danno per scontato che il provvedimento in atto sia chiarissimo e compreso da tutti, sono pregiudizievoli ad ogni riforma e anche ad ogni buona riforma. La messa a terra di qualsiasi provvedimento necessita di un’alfabetizzazione ai diversi livelli.

Ciò è ancora più rilevante in questo caso poiché si tratta di immettere nel sistema nuove figure professionali (a.s ad esempio) che sono state formate nel loro percorso di base prima della pandemia ossia in un sistema sanitario molto distante da quello che si è disegnato nel nuovo provvedimento e necessario dopo la sindemia. Questo vale per tutti i professionisti giovani, ma vale in particolar modo per i professionisti che sono stati formati nel secolo scorso e comunque prima della pandemia, con riferimenti a modelli non più adeguati alle nuove esigenze.

Una nuova cultura organizzativa e modalità operative differenti richiedono una formazione e un aggiornamento adeguato, oltre a indicazioni di dettaglio come si fa nel provvedimento anche se forse con troppa insistenza pensando che prescrivere sia sufficiente per sviluppare collaborazioni virtuose.

In estrema sintesi nuovi provvedimenti richiedono culture organizzative e operative nuove e adeguate che si costruiscono sulle e con le persone, con i professionisti e non sulle sole prescrizioni.

Si tratta di creare climi organizzativi e competenze adeguate.

Un secondo aspetto di criticità è quello legato all’alfabetizzazione del cittadino/utente specialmente in un sistema sanitario come il nostro in cui l’accesso alle prestazioni specialmente quelle di base e preventive sono un diritto universalistico ancora da perseguire, non solo nelle regioni in cui i sistemi sanitari differenziati sono meno strutturati che in altre.

La tanto dibattuta attivazione del cittadino rispetto alla propria salute è un principio che non può essere applicato e preteso solo nella prescrizione farmacologica o nel suo ruolo di connettore di prestazioni per ridurre la frammentarietà del percorso di cura perché i sistemi di erogazione non si parlano.

Il tema del coinvolgimento e della partecipazione alla costruzione di un provvedimento è poi essenziale specialmente in sanità perché solo così si crea una cultura della salute adeguata ai cambiamenti e da questo punto di vista il nuovo provvedimento pur nella sua ossessione del dettaglio sembra aver fallito l’obiettivo di un cittadino competente per una salute quale bene comune.    

Considerazioni conclusive
E’ stato più volte sottolineato come nel nostro paese i processi di riforma della sanità siano stati talmente numerosi da configurare una vera “epidemia di riforme”

Nulla o quasi nulla di quello che ha ricevuto il bollo dell’ufficialità perché stampato sulla gazzetta ufficiale ha poi trovato concreta applicazione nella real life.

Il legislatore persevera nell’errore di ritenere che sia sufficiente definire nuove norme per ottenere un cambiamento. Nulla di così lontano dalla realtà.

Manca in questo un approccio fondamentale che è poi il nocciolo della sociologia sanitaria; un processo di riforma è tale solo se nasce da un reale confronto con i diversi soggetti che agiscono nel contesto istituzionale (operatori, pazienti, complesso sanitario) e se si opera un investimento culturale che aumenti il livello di consapevolezza dei problemi.

Roberto Polillo e Mara Tognetti



04 luglio 2022
© Riproduzione riservata

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