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Ssn. Sostenibilità e compatibilità: due concetti da distinguere con chiarezza

di Fabrizio Russo

Troppo spesso l'idea di sostenibilità è stata intesa come la risposta a una serie di minacce e in particolar modo alla minore disponibilità di risorse. Una via alternativa, invece, è quella di legarla un'etica della responsabilità. L'analisi del direttore dell'Alta Scuola Arces

29 MAG - “L’indagine conoscitiva 'La sfida della tutela della salute tra nuove esigenze del sistema sanitario e obiettivi di finanza pubblica' delle Commissioni riunite V (Bilancio) e XII (Affari Sociali) ha avuto proprio lo scopo di scattare una fotografia aggiornata dello stato di salute del nostro sistema sanitario nazionale, al fine di valutare la sua adeguatezza a fornire prestazioni di qualità, informate ai principi di equità e universalità”. Questo Il fine dichiarato sin dalle prime battute del documento.

Il lettore resta tuttavia perplesso nel trovare in tale fotografia un’immagine alquanto sfocata del concetto di sostenibilità che non vede in tale documento alcuna definizione puntuale; un paradosso che il prof. Cavicchi ci segnala efficacemente, proponendoci l’immagine del “collettore che raccoglie le acque piovane….” del senso comune (QS 21 maggio). Quel senso comune che porta a svelare clamorose scoperte: “Nel corso dell’indagine conoscitiva è emerso che i sistemi sanitari regionali si sono sensibilmente diversificati [….]al punto che la stessa erogazione dei LEA sembra avvenire in modo differenziato….”.

E a proposito di senso comune, si ha l’impressione che in questi anni in sanità il concetto di sostenibilità sia stato comunemente inteso come la risposta ad una serie di minacce: cambiamento demografico ed epidemiologico, crisi finanziaria e morale, invecchiamento, rallentamento degli investimenti. Si è guardato alla sostenibilità come ad una sorta di “livello di guardia” superato il quale occorre che si attivi il “servizio di piena” (per restare in tema di acque), la contromisura, cioè, della compartecipazioni fiscali da parte dei pazienti-cittadini.

La sostenibilità pertanto ha finito per assumere l’accezione di compatibilità cioè di possibilità di garantire ai malati la migliore cura possibile, secondo costi compatibili, secondo la logica di una salute possibile per molti ma non per tutti; in tal modo, diminuendo via via le risorse, invece di cambiare modello per dare risposte efficaci ai fabbisogni sanitari ci si è limitati a tagliare l’offerta, riducendo il numero di prestazione incluse e riconosciute nei livelli essenziali di assistenza. Ma cosa significa sostenibilità? Facendo un minimo di ricerca si può facilmente scoprire che nel 1987 una commissione delle Nazioni Unite “Bruntdland Commission” si prese la briga di definire il concetto di sviluppo sostenibile come: “sviluppo capace di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere le necessità delle future generazioni”.

Un approccio che appare in linea con il concetto di responsabilità proposto da un noto filosofo, Hans Jonas, il quale parla di attenzione alle conseguenze non solo attuali ma anche future delle nostre azioni: “Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni non distruggano la possibilità futura di tale vita”. (Il principio Responsabilità). Da tale definizione derivò un’applicazione molto interessante per l’ambito aziendale: un’organizzazione sostenibile pertanto è un’organizzazione che integra nel suo agire le seguenti dimensioni: sociali, ambientali ed economiche. Dimensioni assolutamente presenti nell’agire di qualsiasi organizzazione sanitaria.

Tornando al documento sulla sostenibilità del Ssn, tenendo presente le dimensioni di sostenibilità declinate in ambito aziendale, può essere interessante analizzare qualche passaggio:

Dimensione economica. “La questione centrale che si è posta è quella di valutare la capacità del nostro attuale sistema di rispondere alle sfide che ci attendono nei prossimi anni, anche in considerazione della recessione economica che ha colpito il nostro Paese dal 2007 e che rischia di minare la sostenibilità finanziaria del sistema sanitario per il progressivo contrarsi delle risorse disponibili.” Si ha la sensazione che l’indagine nel proporre questo concetto di sostenibilità sembra intenderla in un’accezione di natura semplicemente finanziaria, ma come ci dice the Bruntdland Commission, il concetto è molto più ampio: il servizio sanitario non esiste per fare profitti ma per soddisfare bisogni e, per realizzare tale fine, deve sopravvivere.

La dimensione economica diventa allora strumentale, alla sopravvivenza di lungo periodo. La dimensione economica non è pertanto prioritaria rispetto alle altre dimensioni ma rappresenta soltanto una delle componenti del concetto di sostenibilità. Condivido l’opinione di chi afferma: “[…] La finalità è infatti quella di liberare quante più risorse possibili per migliorare la qualità dell’assistenza e la cura, ovvero a favore dei servizi per la salute delle persone”.(qs 20 maggio) In questo senso la condizione economica ben vissuta è una condicio sine qua non di sopravvivenza di lungo periodo, ma questa condizione ha senso solo all’interno del fine più ampio suddetto.

Tale accezione appare nuovamente in una formulazione successiva che sembra confermare la preoccupazione centrale e l’approccio “riduttivo” rispetto al concetto più ampio di sostenibilità, dell’indagine: “[…] evoluzione che, per un verso, sembra consentire, nel medio termine, un più efficiente utilizzo delle risorse finanziarie disponibili - e, per questa via, un effetto di contenimento sui futuri andamenti della spesa - per altro verso, sembra richiedere nell’immediato uno sforzo progettuale accompagnato da adeguate risorse finanziarie, con possibili riflessi espansivi di spesa”. Se tale preoccupazione può apparire condivisibile, tuttavia la strategia di risposta rischia di diventare fuorviante se non addirittura foriera di futuri problemi: il richiamo ai “mutamenti demografici e alla trasformazione del modello sociale” può sembrare pretestuoso e risultare come un ulteriore demolizione del modello ospedalo-centrico per un modello volto alla “domiciliarizzazione delle strutture”.

Mi sembra oltretutto che si dimentichi che la crisi è sistemica e come tocca il servizio sanitario tocca anche i bilanci di quegli enti locali, primi fra tutti i comuni, del cui coinvolgimento non si parla, che potrebbero non essere in grado di accollarsi il nuovo carico sociosanitario; cosa succederebbe se chi è deputato a gestire il carico socio-sanitario, non fosse in grado di gestire tale bisogno “per il progressivo contrarsi delle risorse disponibili”? Probabilmente si ritornerebbe, per forza di cose, all’ospedale, nel frattempo ridotto ad una dimensione essenziale (sostenibile?), forse attrezzato per le acuzie cui può rispondere in modo appropriato, ma in difficoltà su questa nuova emergenza.

Non si sta proponendo, si badi bene, il ritorno a vecchie logiche di utilizzo inappropriato dell’ospedale, ma semplicemente di non lasciarsi guidare da logiche economiciste nel rivedere i modelli organizzativi, invitando ad ispirarsi a criteri più ampi di quelli proposti dalla “sostenibilità finanziaria” e tenendo presente l’impatto sociale delle risposte da proporre sui bisogni da soddisfare. Risposte che tengano presente la complessità del mondo sanitario e prestino attenzione alla cooperazione tra attori più che alla demolizione di alcuni di essi. Per aumentare “l’efficienza del sistema sanitario” si valuta di incentivare il ricorso alla polizza sanitaria privata, forse nel tentativo di rendere più responsabile il cittadino e gravare meno sul fondo sanitario. Ma qualcosa non quadra: da un lato, c’è preoccupazione per il sistema universalistico: “…sensibili ritardi infrastrutturali [….] mettono a rischio l’universalità del sistema”; dall’altro sembra che si rinvii il problema della salute al privato cittadino che dovrebbe farvi fronte autonomamente, sostenendone i relativi costi -mi si conceda forse la semplicistica conclusione- in barba all’universalità.

Dimensione sociale. Nel documento, si parla del ruolo della “percezione” senza specificare come coinvolgere il cittadino nel governo del sistema. Cosa si intende quando si afferma: “I risultati finanziari ottenuti dovrebbero però essere valutati alla luce della percezione della sostenibilità di tale risultato [cioè] se la collettività incisa dal piano di rientro attraverso una maggiore pressione fiscale ritenga adeguate le prestazioni che offre il sistema sanitario”? L’adeguatezza passa dal bisogno reale da soddisfare o dalle percezioni del momento. Il rispetto di tale dimensione, a mio parere, deve spingere a promuovere il coinvolgimento dei vari attori del settore sanitario, in una logica di shared governance, di governo diffuso e condiviso. Ma il senso di una tale condivisione non si traduce e non si limita a proporre una modalità di governo che operi in relazione ad un orizzonte d’attesa e di aspettative, ma implica un coinvolgimento organizzato della collettività, attraverso i suoi rappresentanti, nelle scelte strategiche, cosa ben diversa dal tener conto di una semplice percezione.

Mi sembra che oltretutto così si espropri il soggetto erogatore dell’atto sanitario di una valutazione adeguata, ritornando alla logica del consenso più che a quella del fare bene le cose in risposta a fabbisogni di salute reali ed oggettivi ed in armonia con l’autonomia e l’indipendenza della professione sanitaria, salvo poi deplorare la “medicina difensiva” (pg 11) come strumento per garantirsi dalle responsabilità medico-legali conseguenti alle cure mediche prestate e che brucia le risorse della “buona medicina”. (Quanto alla dimensione ambientale non sembra di ritrovarsi alcun cenno allo stato attuale del documento.).

Si ha pertanto l’impressione, leggendo questo documento, che quando si parla di sostenibilità in sanità si dia un nome suadente e politically correct ad un’idea che in realtà nasconde un altro significato: quella appunto della compatibilità, un termine che dice più schiettamente della possibilità di scaricare il servizio sanitario di oneri pubblici per trasferirli su soggetti privati a dispetto di uno dei suoi valori portanti: l’universalità. Un bisogno essenziale di salute non si soddisfa perché è economico e sostenibile ma perché è semplicemente la giusta cosa da fare. La sostenibilità ha bisogno di fondarsi sulla responsabilità di farsi carico di tale bisogno.

Il miglior augurio che si può fare alla sostenibilità in sanità è che essa possa prendere le distanze dall’accezione di compatibilità in cui si è arenata per poggiarsi su “sostegni” più robusti e sicuri. Una via alternativa è stata proposta: l’operazione consiste nel fondare la sostenibilità su un’etica della compossibilità, cioè la responsabilità di “fare in modo che diritti e risorse siano senza contraddizioni e in ragione di ciò entrambi possibili” (Cavicchi 15 giu 2013). Proviamo a studiare l’applicazione possibile di tale proposta.

La sua attuazione, a parere di chi scrive, passa dal costruire le condizioni perché gli attori del settore sanitario possano realizzare, cooperando, il loro ruolo, in modo da coniugare le loro legittime aspettative con le risorse disponibili. Non fermiamoci alla “fotografia [seppur] aggiornata”: un bisogno sanitario attuale non deve rimanere insoddisfatto per paura di non poter rispondere ad un bisogno sanitario futuro.
 
Fabrizio Russo - Direttore Alta Scuola Arces

29 maggio 2014
© Riproduzione riservata


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