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Il Ssn e le riforme incompiute. Se “parole” e “cose” non coincidono

di Roberto Polillo

Le riforme sono rimaste delle grandi incompiute e le logiche che le hanno ispirate non hanno modificato quasi in nulla la consuetudine che stritola il paese lasciandolo perennemente eguale a sé stesso. Uscire dalla crisi è però possibile ma serve un nuovo patto tra professionisti della salute e cittadini.

22 GEN - Nella storia del nostro SSN le “parole” e le “cose” appartengono per tradizione a piani non coincidenti. Non è la cattiva traduzione del dire nel fare o la distorsione per eccesso o difetto di quel che infine viene fatto. Il problema è più complesso; se infatti nominare  è chiamare a sé,  e fare uscire quel che viene indicato dalla assenza  per consegnarlo alla presenza della sua datità, in sanità quasi nulla di questo è avvenuto.
 
Le riforme sono rimaste delle grandi incompiute e le logiche che le hanno ispirate non hanno modificato quasi in nulla la consuetudine che stritola il paese lasciandolo perennemente eguale a sé stesso.
 
La grande promessa di eguaglianza e partecipazione della legge 833 non ha mai dato il frutto promesso e i comitati di gestione, che di quagli istituti dovevano essere i garanti ben presto si trasformarono in congreghe di feroci lottizzatori. Ricordo ancora Don Franzoni che di un comitato romano faceva parte e che smise di andarci per non rendersi complice col suo silenzio; la prevenzione nei luoghi di lavoro e di vita, una delle grandi innovazione in essa prevista, morta sul nascere; l’integrazione socio sanitaria rimasto un tema da convegno di persone illuminate.
 
Ancora più ridicolo il processo di aziendalizzazione portato avanti dal Dlgs 502/517: ecco i titoli al veleno di quella lunga stagione legislativa:  competizione dei soggetti  erogatori sulla base della qualità dei servizi erogati; il cittadino nel ruolo di cliente che con la sua razionalità di tipo olimpico alloca le risorse al limite dell’ottimo paretiano. Lo stato come ente regolatore che vigila sulla libera concorrenza impedendo le rendite di posizione; la selezione dl personale sulla base dei requisiti professionali; e infine il nuovo linguaggio di derivazione aziendalista (mission, vision, budget, obiettivi, pianificazione, implementazione etc etc).
 
Un universo fantasmagorico ben presto dimostratosi una grottesca messa in scena in gran parte del paese: aziende sanitarie sempre più indebitate e gestite peggio dei vecchi carrozzoni mutualistici; direttori generali finiti nelle patrie galere per malaffare e ruberie (solo tre tra quelli da cui sono stato amministrato mio malgrado!);  regioni spesso alleate con i grossi complessi sanitari privati  per garantire   il mantenimento e talvolta il rafforzamento del preesistente regime di monopolio;  selezione del personale , una volta liberalizzate le procedure di nomina,  ancora più piegato a logiche di  appartenenza; compressione dei servizi e assenza di strumenti di partecipazione.
 
Ultimo tentativo, prima del grande gelo attuale, le logiche istituzionali del Dlgs 229; territorializzazione di servizi, prioritarizzazione dei bisogni, appropriatezza delle prestazioni erogate e forse la parte meglio riuscita valorizzazione del personale, medico in primis. Anche in questo caso parole con poche  cose: intenzioni rimaste sulla carta per la complessità ed eccedenza di norme applicative o più semplicemente per la troppo lunga catena di traduzione in fatti delle norme previste; premorienza da record della legge,  spazzata via ancora in fasce solo dopo due anni dalla catastrofica  riforma del Titolo V.
 
In buona compagnia con tutto questo,  l’evaporazione  della stagione della grandi riforme della PA: separazione tra funzioni di programmazione e funzioni dirigenziali; conferimento ai dirigenti dell’esclusività della gestione dell’azione amministrativa; valutazione dei dirigenti sottratta al decisore politico. Anche qui concetti, auspici o linee di tendenza finiti nell’armamentario delle  cose inutili come i contratti che del nuovo ruolo della dirigenza erano il suggello. Contratti che oggi si vorrebbero rinnovare senza risorse e che in ogni caso sono  anche essi ormai condannati alla insussistenza perché una volta  derubricati a vile norma secondaria dal rullo compressore brunettiano essi sono priva di forza propulsiva e di capacità di innovazione. Varrebbe la pena allora riesumare i vecchi DPR che almeno avevano rango di legge!
 
Il quadro che l’attualità ci consegna è dunque quello già tante volte illustrato, scarsa qualità, povertà di risorse, aumento delle disuguaglianze, vessazione del personale   e su cui non intendo soffermarmi una volta di troppo. Rimangono inalterati i problemi sul tappeto  e sempre di più gli uomini di volontà rimasti si interrogano su come uscire da questa  strettoia che solo la anime belle non riescono a vedere.
 
L’illusione della normazione primaria
Non è la legge, a mio dire, che ci farà uscire dal guado,  se per legge si intende il grande disegno riformatore che libera dalla nebbia l’orizzonte oscurato del presente. Non è per aderire al pensiero minimalista o al postmodernismo che non crede più nelle grandi narrazioni. Di leggi ne abbiamo avute fin troppe, tanto da indurre qualcuno a parlare di un genio epidemico impadronitosi del paese a partire dai primi anni ’90; da quelle leggi nulla di stabile e derivato  ed una pia illusione è sperare che la prossima che verrà ci darà quello che finora non ci è stato concesso. No! la legge da sola è una causa senza effetto; essa è scritta sulla sabbia a dispetto della buona volontà dei suoi estensori e di quanti ne auspicano di nuove
 
L’illusione della normazione secondaria
Il regolamento non è la legge; il decreto ministeriale, infatti, può  colmare soltanto la lacuna che la legge lascia aperta nei suoi interstizi. Il DM dà corpo a questi omissis e rimandi per procura ricevuta, ma questo, spesso,  non basta; e la storia recente ci insegna come la grande ambizione dei suoi estensori sia quella di occupare ogni spazio residuo per poter ergere, il regolamento,  a norma primaria rendendo superflua la legge . E’ una dura battaglia quella che spesso ha  visto impegnati i grandi commis del ministero per riaffermare questo ruolo e di questa battaglia, nell’età dell’oro del sindacalismo sanitario ( gli anni ’90) protagonisti sono  stati Raffaele D’Ari da un lato (Allora Dirigente del Ministero salute)  e Silvana Dragonetti (Dirigente dell’ARAN) sul fronte opposto. Due dirigenti entrambi impegnati con forza e straordinaria competenza a riaffermare il ruolo dei loro uffici nei confronti della legge: il primo per integrare e superarla   la seconda per disapplicarla con la forza del contratto.
 
Il regolamento tuttavia non è privo di perversione. Esso infatti può intervenire su materie che per definizione non dovrebbero essere sottratte alla contrattazione delle parti. In altri tempi tali norme sarebbero state disapplicate dal contratto , ma ora , nell’età del possibilismo senza memoria si può entrare a gamba tesa anche sulle attività esclusive e sui profili di alcune professioni senza neanche averne recepito il parere. O meglio  avendo avuto il parere favorevole di altre professioni  direttamente favorite.  Una vergogna come quella del comma innominabile o del patto della salute concordato nelle segrete stanze senza aver consultato i diretti interessati.
 
In ogni caso il regolamento non può superare i suoi limiti evidenti perché legge non è e il suo prodotto è solo  effetto senza causa e si illude che pensa che la pacificazione del campo sanitario possa avvenire attraverso questa strada che è impervia come una scorciatoia
 
Il campo istituzionale
Perché dunque si illude chi pensa che la “legge” e il “regolamento” da soli potranno modificare l’attuale situazione? Questa è la questione su cui varrebbe interrogarsi e su questo a punto bisognerebbe aprire quel dibattito che manca!
 
Il sistema salute è un campo istituzionale ben riconoscibile in cui operano attori diversi e la cui stabilità è garantita dalla co-presenza di norme ( la legge) regolamenti ( le prassi codificate e i codici di comportamento ) e modelli cultural-cognitivi ( valori, aspettative, credenze, logiche istituzionali) che forse ne rappresentano l’elemento più importante.
 
In un campo istituzionale il movimento di queste linee è sovrapponibile a quanto avviene, per fare un esempio lontano ma pertinente,  nel corso della armonizzazione di un basso. La successioni di accordi “funziona” solo se le parti  che li compongono si muovono rispettando due regole fondamentali: non formare nel movimento delle parti intervelli dissonanti;  non impoverire il tessuto armonico con intervalli ripetuti. Nella sanità la stabilità del campo e quindi il benessere di chi vi opera si realizza solo se le linee costitutive dello specifico campo si  muovono raggiungendo un punto di equilibrio. Un equilibrio che ovviamente non è dato per sempre ma muta con il variare del contesto societario e che va ricostruito per dare nuova stabilità.
 
Le grandi difficoltà attuali nascono per la frammentazione dei valori e delle reciproche aspettative degli attori istituzionali e per l’affermazione nel campo della politica di logiche dirompenti rispetto al passato.
Il comma famigerato  e l’accordo “separato” in Conferenza stato regioni per il Patto della salute (un organismo residuale anche esso nelle intenzioni dell’attuale Governo) hanno rotto quell’equilibrio interprofessionale che è uno degli elementi di stabilità del campo: avere certezza delle propri competenze è il requisito essenziale per lavorare gomito a gomito, come ricordato dalla Presidente Mangiacavalli, e una modifica degli ambiti professionali delle diverse professioni può essere accettata solo sulla base di una leale contrattazione tra le parti. Per questo ritengo che l’insieme delle norme citate vadano stralciate e stracciate. Esse sono un vulnus, una furbata , una bugia dalle gambe corte che non fa onore a chi le ha proposte e che ai tempi di Raffale D’Ari non avrebbero trovato cittadinanza nel Ministero della Salute.
 
La continuità con il Brunettismo
Cambiate sono anche le logiche istituzionali; da molto tempo il lavoro pubblico è diventato un dis-valore; un costo che deve essere compresso e soprattutto la considerazione dei  lavoratori pubblici è rimasta quella di Brunetta.  Le recentissime norme sui licenziamenti in tronco dei pubblici dipendenti sono irrilevanti dal punto di vista sostanziale ma significative da quello “simbolico” per denotare l’atteggiamento imperativo del governo. Come mai norme così rigide non vengono invocate per i pianisti in parlamento, per i politici inquisiti o per i vari presidenti e vicepresidenti di istituti  bancari di cui tanto si parla?. Per loro il termine di 48 ore non vale; per loro valgono ancora le norme garantiste in base alle quali è solo il giudice che può stabilire la certezza del reato. Nessuno sia ben chiaro vuole difendere gli assenteisti ma una fretta similare potrebbe essere impiegata più produttivamente e con migliori risultati per ridare ossigeno questo si immediato alle centinaia di migliaia di operatori sanitari ( medici e infermieri) che buttano sangue ogni giorno nelle corsie  e nei dipartimenti di emergenza degli ospedali sfruttati e mal pagati.
 
La ricomposizione del campo istituzionale
E’ possibile uscire dalla crisi solo riaffermando un nuovo paradigma in cui il lavoro sanitario riprenda il posto che gli compete. Un paradigma in cui le norme e le  regole non cerchino di imporre  valori credenze ma siano in equilibrio con esse  Serve una rivoluzione culturale che rompendo ogni indugio crei una nuova consapevolezza su cosa sia la salute umana e su come sia possibile garantirla a quanti più cittadini possibile. La battaglia è dunque soprattutto cultural-politica e deve vedere impegnate le organizzazioni professionali  e sindacali per contrastare una visione della società  (portata avanti dagli ultimi governi con una sostanziale continuità) che subordina la salute ad altri beni, e preferisce allocare altrove le risorse necessarie. I medici e gli altri professionisti sanitari hanno anche essi grandi responsabilità Essi sono stati muti durante tutto il lungo periodo , ancora in concluso, della grande crisi. Nulla o ben poco è stato detto sulla emergenza sanitaria in Grecia e ancora meno sulla attuale tragedia degli emigranti. Nessuna delle organizzazioni professionali o sindacali ha pensato di promuovere forme di solidarietà attiva mettendo a disposizione dei più bisognosi medici ed infermieri. Gli ordini e i collegi come i sindacati professionali si sono astenuti dal mostrare quel volto umano e solidale che avrebbe potuto cambiare la percezione che la gente ha del personale sanitario e dei corpi di rappresentanza. E’ stato un grande errore e una occasione persa per generare un nuovo senso di comunità e vicinanza con la  tanto citata società civile.
 
Fatto altrettanto grave è continuare a non dire  nulla o troppo poco  sulle drammatiche condizioni di inquinamento che avvelena il nostro ambiente:  dalla terra dei fuochi alle polvere sottili, dalla amianto all’ILVA di Taranto. Di queste catastrofi sono responsabili le politiche di questi ultimi decenni e i medici, per non esserne complici col loro silenzio, devono sentire il dovere di denunciarlo apertamente. Non si può essere difensori della salute e del SSN a giorni alterni o solo quando le condizioni di lavoro degli addetti raggiungono un livello di criticità.
 
Uscire dalla crisi è dunque possibile ma serve un nuovo patto tra professionisti della salute e cittadini per ridefinire le priorità e i valori della nostra società mettendo al primo posto la salute delle generazioni presenti e di quelle future. In questa luce vanno anche riviste le competenze delle diverse professioni per stabilire un nuovo equilibrio, ma questo è possibile rinunciando a improponibili scorciatoie o indecenti sgambetti. Senza questo impegno per stabile una nuova egemonia valoriale sono fermamente convinto  che a nulla serviranno  nuove leggi e astuti codicilli
 
 
Roberto Polillo

22 gennaio 2016
© Riproduzione riservata


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