Cittadini consapevoli e coinvolti nella Sanità
di Cristina Da Rold
Il nuovo approfondimento del progetto Forward del Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio mette a fuoco il coinvolgimento del paziente nell’assistenza e nella ricerca. Secondo Walter Ricciardi il problema centrale è nella health literacy
27 LUG - L'idea di coinvolgere i pazienti nella pratica clinica ha ormai quarant'anni. Già nel 1978 la Dichiarazione di Alma Ata, conferenza internazionale patrocinata da OMS e UNICEF sanciva il principio secondo cui “le persone hanno il diritto e il dovere di partecipare individualmente e collettivamente alla progettazione e alla realizzazione dell'assistenza sanitaria di cui hanno bisogno.” Tuttavia, a distanza di qualche decennio, nonostante gli enormi passi in avanti e gli ottimi esempi di patient engagement in giro per il mondo, il paradigma non è ancora diventato del tutto prassi, o meglio, non lo è diventato in tutti i suoi aspetti.
Se da un lato la rete e i social media stanno avvicinando enormemente il cittadino all'informazione e tendenzialmente anche alla classe medica - permettendo in linea di principio che il secondo non sia più l'agente per conto del paziente, ma il suo partner a supporto delle decisioni che riguardano la salute - per altri aspetti come la ricerca clinica, stiamo ancora “inventando la ruota”.
È dedicato proprio ai “pazienti” l'ultimo numero monografico di
Forward, il progetto informativo del
Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio [www.forward.recentiprogressi.it]. Un’iniziativa nata per riflettere e approfondire non tanto ciò che è attuale oggi, ma quello che lo diventerà nel prossimo futuro nell’ambito del settore sanitario. L’approfondimento appena pubblicato è interamente dedicato alla complessa questione del coinvolgimento del paziente e esamina all'interno di ogni articolo uno dei tanti aspetti di cui si compone la questione, per capire dove siamo e dove stiamo andando.
E soprattutto come possiamo fare per far sì – spiega nel suo intervento
Sandro Spinsanti, direttore dell'Istituto Giano per le Medical humanities - che la evidence based medicine – la medicina che conosciamo oggi, quella basata su solide prove di efficacia – si fonda con la narrative-based medicine, cioè con l'esperienza soggettiva del malato, nell'ottica di costruire una medicina più personalizzata.
Al centro del gomitolo da dipanare vi è il concetto di health literacy, la consapevolezza dei cittadini circa le questioni che riguardano la loro salute – sottolinea
Walter Ricciardi, presidente dell'Istituto superiore di sanità – nella sua introduzione. C'è a tutt'oggi un gap enorme fra il linguaggio scientifico e quello che comprendono i cittadini, che li rende “analfabeti” dal punto di vista della comprensione dei fenomeni complessi come sono quelli medico-sanitari, dove si incrociano interessi diversi.
La tecnologia da sola non basta: affinché il coinvolgimento dei pazienti diventi un reale vantaggio sia per i malati stessi che per il servizio sanitario è necessario che chi viene coinvolto sia empowered – per usare un termine caro alla letteratura – che sia cioè “esperto” il più possibile delle questioni in cui viene coinvolto. Una sfida tutt'altro che banale, ma cruciale perché mancano delle linee guida condivise circa le modalità di coinvolgimento dei pazienti per esempio nel disegno e nella conduzione di un trial clinico. Ci sono certamente dei casi di studio, dei validi progetti pilota (pensiamo per esempio all'esperienza della Mayo Clinic, che da ormai un decennio si è dotata di un Patient Advisory Group), ma è ancora prematuro pensare a protocolli consolidati.
Puntare sul potenziamento della health literacy dei pazienti significa anche rafforzare la sicurezza in termini di gestione dei potenziali conflitti di interesse a cui sono soggette per esempio le associazioni di malati, spiega nel suo articolo
Chiara Rivoiro dell'Università di Torino. Le associazioni di pazienti sono infatti per loro natura estremamente vulnerabili e in questo contesto la corretta formazione dei pazienti diviene fondamentale.
La rete stessa ha poi modificato completamente la percezione che il paziente ha di sé stesso e del rapporto con il medico e con l'informazione medica. Pensiamo ad esempio ad app come Open Notes, che permette ai cittadini di inserire autonomamente dati sanitari che li riguardano in una sorta di cartella clinica virtuale da condividere con il proprio medico. Secondo una recente survey americana, l'utilizzo di Open Notes avrebbe aumentato la fiducia verso il proprio medico, ma anche qui è l'utilizzo che facciamo di questi strumenti a fare la differenza. Ancora una volta ritorniamo al centro del gomitolo: il problema della health literacy, dell'alfabetizzazione medica da un lato e digitale dall'altro.
Secondo quanto riporta
Massimo Di Maio del Dipartimento di Oncologia dell'Università di Torino, l'under reporting degli effetti soggettivi di un farmaco o di un trattamento è ampiamente documentato in letteratura.
Oggi insomma la voce in capitolo che ha il cittadino nelle diverse fasi della ricerca è inversamente proporzionale all'importanza del contributo che potrebbe dare. Questo è forse il principale problema da affrontare, perché diverse esperienze condotte all’estero continuano a mostrare come l'integrazione dello sguardo del paziente possa non solo migliorare la sua percezione della malattia, ma anche favorire la ricerca stessa, quindi portare benefici in termini di salute collettiva.
Cristina Da Rold
Giornalista scientifica
27 luglio 2016
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