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Rapporto Istat. È ormai necessario mettere a punto una vera politica di integrazione socio-sanitaria

di Grazia Labate

Bene la pensione di cittadinanza, ma senza una politica per la non autosufficienza e le cure domiciliari garantite e coperte per almeno un numero sufficiente di ore settimanali e mensili è difficile pensare che 780 euro ti facciano vivere e non sopravvivere. Di Maio e Grillo incontratevi, mettete a punto una politica di integrazione socio-sanitaria, riunificando obiettivi e risorse, non monetizzate, fate servizi, vedrete come per questa strada si aprono centinaia di migliaia di posti di lavoro e si coprono migliaia e migliaia di bisogni e prestazioni

12 APR - Siamo un paese in cui sta diventando difficile individuare le priorità. Tutto ci sta arrivando addosso con gradi di livello “soglia” di emergenza. Disoccupazione, bassa crescita, recessione, formazione ed istruzione inadeguate al livello di innovazione e competitività, economia sostenibile tutta da traguardare. L’ISTAT, nel rapporto '”Noi Italia”, mostra la crescita dell'indice di vecchiaia al primo gennaio 2018 che raggiunge quota 168,9: il rapporto tra gli anziani (65 anni e più) e i giovani (meno di 15 anni) registra così un nuovo record nazionale.

"In ambito europeo, - sottolinea l’ISTAT- l'Italia si mantiene al primo posto nella graduatoria per l'indice di vecchiaia". Per il tasso di fecondità, invece, l'Italia è ultima in Europa insieme alla Spagna. La stima nel 2018 del tasso di fecondità totale si afferma a 1,32 figli per donna, in linea con il 2017, siamo molto più bassi della cosiddetta 'soglia di rimpiazzo' che garantirebbe il ricambio generazionale, afferma l'Istat nel rapporto.

Siamo all'ultimo posto per fecondità, insieme alla Spagna, in ambito europeo". Lo so che siamo in campagna elettorale permanentemente in questo nostro paese, ma che si deve fare per richiamare l’attenzione di chi ci governa su questioni che sono davvero le mine vaganti, che incombono come macigni sul futuro del paese? Il patto tra cittadini e lo Stato si sta logorando. Ma vi pare davvero che agli italiani interessi chi è più sovranista del re? Vi pare davvero che la corsa sia a mostrare il grado di chi è più per conservare i diritti civili e chi li minaccia con l’accetta? Chi vuole la flat tax e chi dice occhio non si può favorire sempre gli stessi. Il popolo, la gente, quella che si incontra ogni giorno sul luogo di lavoro, al mercato in treno o in autobus di che parla? perché ha l’aria preoccupata? quali tormenti attraversa? perché è sfiduciata? Credete davvero che si possa andare avanti con la caccia all’untore, seminando paura e odio per ora verso i diversi e poi? Chi sarà il colpevole?
 
Io che sono abituata a lavorare sui numeri e a cercare di studiare le tendenze economiche sociali in atto, dico che ciò che l’ISTAT ci consegna assieme ad altri dati ed analisi sull’invecchiamento della nostra popolazione non sono “numerini” da sottovalutare ma da prendere molto molto sul serio per riorientare politiche e priorità di intervento. Oltre all’indice di vecchiaia andiamo a vedere la speranza di vita. Dal rapporto Health at a Glance: Europe 2018 elaborato dall’OCSE è emerso che l’aspettativa di vita in Italia continua a essere la seconda più alta tra tutti i paesi dell’Unione Europea, subito dopo la Spagna.
 
L’aspettativa di vita in Italia ha raggiunto gli 83,4 anni (81 anni gli uomini, 85,6 le donne) , quasi 2 anni e mezzo in più rispetto alla media europea (81 anni). Ma dopo i 75 anni gli anziani in Italia vivono in condizioni di salute peggiori. L’indagine europea sulle condizioni di salute del 2017 rileva che: per le patologie croniche, nel confronto con i dati europei, emergono in generale migliori condizioni degli italiani tra i meno anziani (65-74 anni), con prevalenze più basse per quasi tutte le patologie e, all’opposto, condizioni peggiori oltre i 75 anni.
 
Circa un anziano su due soffre di almeno una malattia cronica grave o è multicronico, con quote tra gli ultraottantenni rispettivamente di 59,0% e 64,0%.
Il 23,1% degli anziani ha gravi limitazioni motorie, con uno svantaggio di soli 2 punti percentuali sulla media Ue, principalmente dovuto alla maggiore quota di donne molto anziane in Italia.
Le donne riportano meno frequentemente malattie croniche gravi ma più multicronicità e limitazioni motorie o sensoriali.

Tra le ultraottantenni la percentuale arriva al 58,6% a fronte del 39,2% degli uomini. La cura a lungo termine degli anziani fragili o con patologie croniche ad oggi è pressoché un privilegio: ne gode infatti solo il 2,7% degli ultrasessantacinquenni residenti in Italia.

In alcuni Paesi del Nord Europa sono assistiti in casa il 20% degli anziani, e le prestazioni, le ore dedicate a ciascun assistito, la natura pubblica o privata degli operatori e il costo pro capite dei servizi sono i più differenti e variegati, a seconda dei sistemi di protezione sociale. In particolare, sono assistiti a domicilio nel nostro Paese solo 370mila over 65, a fronte di circa 3 milioni di persone che risultano affette da disabilità severe, dovute a malattie croniche e che necessiterebbero di cure continuative. Lo rilevano i dati del Ministero della Salute e una survey effettuata da Italia Longeva, network scientifico dello stesso Ministero, dedicato all’invecchiamento attivo e in buona salute.

In particolare, i dati regionali sono di fonte ministeriale, mentre Italia Longeva ha sviluppato un’analisi di dettaglio volta a comprendere in concreto come siano organizzati i servizi di assistenza a domicilio in 12 Aziende Sanitarie presenti in 11 Regioni italiane: un campione distribuito in modo bilanciato tra nord e centro-sud, relativo ad Aziende che offrono servizi territoriali a 10,5 milioni di persone, ossia quasi un quinto della popolazione italiana.
Quel che più sorprende è che il nostro Paese – da anni alla ricerca di una vera alternativa al modello basato sulla centralità dell’ospedale, per la cura di pazienti anziani, cronici e fragili – dedichi all’assistenza domiciliare sforzi e risorse pressoché risibili: basti pensare che dedichiamo in media, a ciascun paziente, 20 ore di assistenza domiciliare ogni anno mentre in quasi tutte le nazioni europee si garantiscono le stesse ore di assistenza mediamente in un mese.      

I dati Istat ci dicono che quasi un italiano su 4 ha più di 65 anni, e che questo rapporto salirà a 1 su 3 nel 2050. Però oggi sappiamo che assistiamo a domicilio meno di 3 anziani su 100. Tutti gli altri? A intasare i pronto soccorsi, nella migliore delle ipotesi, oppure rimessi alle cure ‘fai da te’ di familiari e badanti, quando non abbandonati perché non hanno le risorse per farsi assistere.

Questi dati dovrebbero rappresentare non solo per i professionisti della statistica, della ricerca economica e sociale, per gli addetti ai lavori di settore, ma anche e soprattutto per la politica, per tutti i cittadini un campanello di allarme non più trascurabile.

Accanto, e forse più dei numeri sugli anziani assistiti, sorprendono i dati dai quali traspare un’organizzazione dell’assistenza domiciliare del tutto disomogenea nelle diverse aree d’Italia. Su un totale di 31 attività – quelle a più alta valenza clinico-assistenziale –  erogabili a domicilio, all’interno del panel di ASL analizzato, solo le ASL di Salerno e Catania le erogano tutte, seguite dalla Brianza e da Milano. Non mancano persino aree del Paese in cui l’assistenza domiciliare non esiste affatto.
 
Ci sono poi differenze macroscopiche nel numero di ore dedicate dalle ASL a ciascun paziente: si va, per esempio, dalle oltre 40 ore annuali della ASL di Potenza alle 9 ore di Torino.  Altra differenza non trascurabile è l’apporto degli enti privati nell’erogazione dei servizi a domicilio, che va dal 97% di Milano allo 0%, ad esempio, di Reggio Emilia o della Provincia Autonoma di Bolzano. L’Italia non ha ancora dato una risposta univoca, né ha individuato un modello condiviso, per la gestione della più grande emergenza demografica ed epidemiologica del presente e del futuro.
 
Il Prof. Bernabei nell’ultimo report di Italia Longeva afferma che al momento attuale emergono due tendenze, che possono suggerire altrettante strategie per la domiciliarità, che abbiamo il compito e la responsabilità di costruire: anzitutto, tranne rare eccezioni, le prestazioni sono quasi sempre insufficienti nelle aree in cui è meno sviluppata l’integrazione fra servizio sanitario e operatori sociali dei Comuni; in secondo luogo, il costo annuo per assistito a domicilio non cresce in maniera proporzionale al numero di ore dedicate a ogni paziente: al di sopra di una certa soglia diminuiscono le successive richieste di assistenza e quindi sembra innescarsi un’economia di scala, che fa decrescere i costi marginali.

In altre parole, al di sopra di un certo numero di ore ”di qualità”, che devono essere considerate quelle ottimali, gli anziani iniziano a stare meglio, e l’assistenza domiciliare si conferma un ottimo investimento collettivo sulla salute dei nostri padri e dei nostri nonni”.  Lo Stivale continua ad avere dunque sempre più capelli bianchi, ma se l’invecchiamento procede, si arresta invece un’altra tendenza che ha caratterizzato l’Italia: diminuisce l’istituzionalizzazione, a cui si preferisce la cura a casa.  Alla domiciliarità ricorrono 2 milioni e mezzo di anziani, mentre nelle strutture trovano assistenza poco più di 278mila anziani, un calo del 9,1% rispetto al 2010.

I dati non fanno sconti: mentre cresce la domanda di assistenza, la Ragioneria dello Stato valuta che la spesa per l’assistenza di lunga durata dovrebbe passare dall’1,9% del Pil nel 2018 al 3,2% nel 2060.  In realtà, per la prima volta nella storia d’Italia, negli ultimi 10 anni la copertura dei servizi per anziani non autosufficienti presenta tutti segni negativi. Diminuiscono infatti gli anziani presi in carico nei servizi, gli ospiti di strutture residenziali, quelli che hanno l’indennità di accompagnamento, la spesa per servizi sociali per anziani di regioni e comuni. La crisi è stata veramente tremenda sui più fragili. 561mila famiglie indebitate, o costrette a vendere la casa, secondo il Censis.

Sulle badanti, vero snodo della cura a casa, crescono le donne tra i 55 e i 65 anni.  Dati certi non ce ne sono, ma, solo per quelle assunte regolarmente, valgono quelli Inps. Secondo i dati dell’Osservatorio lavoratori domestici 2017: 864.526 sono i contribuenti, -1% rispetto al 2016. 18,1% in Lombardia, 14,9% Lazio, 8,8% Emilia Romagna e 8,6% Toscana.

Sul totale della forza lavoro l’88,3% è rappresentato da donne con 763.257 lavoratrici. Per quanto riguarda il tipo di mansione, 54,4% Colf, il restante in maggioranza Badante, ma cresce del 2,9% il numero di badanti e cala del 4,2% la percentuale di colf. Il 17% dei lavoratori rientra nella classe d’età 50-54 anni, quindi 55-59, 45-49 e 40-44, 14,1% over 60, 2% meno di 25 anni. Tornando alla distribuzione geografica e questa volta per macro aree, il 29,7% è stato impiegato al Nord Ovest, 28,5% al Centro, 19,9% Nord Est, 12,6% Sud, 9,3% Isole. Il 73,1% è rappresentato da persone straniere, ma nel decremento del numero totale dei lavoratori del 2017 è stato registrato un +6,9% di lavoratori italiani. 378.258, ovvero il 43,8% dell’intera forza lavoro proviene dai Paesi dell’Est Europa, 232.563 italiani, quindi 69.325 dalle Filippine, 59.089 America del Sud, 47.160 Asia Orientale, 31,754 Africa Nord, 18.159 Africa Centro-Sud.

La cifra media che gli italiani dichiarano di pagare alle badanti è di 920 euro al mese, mentre varie fonti stimano che le risorse economiche mobilitate siano almeno 9 miliardi di euro per circa 1,5 milioni di anziani. Circa il 45% delle residenze socio-sanitarie (rsa) dichiara l’esistenza di liste di attesa dai 90 ai 180 giorni, in particolare per gli utenti non autosufficienti. I dati sulle rette sono scarsi, non omogenei e non particolarmente aggiornati: la tariffa complessiva “media” nazionale giornaliera delle strutture residenziali sanitarie si collocava nel 2017 a 140,31 euro.
 
I comportamenti illeciti sono ancora troppi, come rilevano gli oltre 8mila controlli dei Nas negli ultimi due anni: le strutture sono state registrate non conformi nel 28% dei casi. Una cosa appare certa “Serve estendere i servizi di assistenza domiciliare” con bonus servizi non con danaro. istituire una Banca europea delle migliori pratiche di assistenza alla longevità, per favorire networks di esperienze concrete. Introdurre un sistema di valutazione omogeneo a livello nazionale, anche per gli operatori delle strutture; finanziare il Fondo Unico per la non autosufficienza anche con risorse aggiuntive rispetto a quelle pubbliche sennò non ce la possiamo fare.
 
Inoltre: Per far emergere il lavoro nero, il costo della regolarizzazione, non devrebbe essere troppo elevato per le famiglie, prevedendo misure di detrazione dal reddito e accompagnandolo con un seria qualificazione professionale a livello delle singole regioni. In questo senso, sarebbe opportuna l’istituzione del “registro degli assistenti familiari” per facilitare la ricerca di assistenti qualificate. Considerata la delicata situazione del bilancio pubblico, con quali strumenti cogliere la sfida?

In assenza di risposte univoche, due gli aspetti su cui si dovrebbe concentrare la riflessione: possiamo immaginare di affrontare come per l’auto, l’obbligatorietà dell’adesione a forme di protezione dal rischio di non autosufficienza, particolarmente rilevante in Italia? Possiamo ridisegnare un pacchetto e le modalità di presa in carico del soggetto non autosufficiente e, quindi, i livelli di servizi integrati da offrire anche in virtù del pressante tema del finanziamento. 

Sulla necessità di introdurre formule LTC, alla luce di fenomeni sociali come l’atomizzazione dei nuclei familiari, e la longevità con pluripatologie cronicizzate non bisognerebbe aprire un dibattito pubblico serio? I segnali in questa direzione non mancano e arrivano in particolare dal confronto tra le diverse esperienze di protezione della long term care nei diversi paesi europei: una soluzione di tipo collettivo potrebbe costituire un’opzione di grande valenza sociale, volta a garantire una copertura a prezzi accessibili, e dunque democratica, vale a dire non discriminante rispetto alle capacità economiche dell’anziano e rispetto ai diversi “profili di rischio” del soggetto.  
 
Bene la pensione di cittadinanza, ma senza una politica per la non autosufficienza e le cure domiciliari garantite e coperte per almeno un numero sufficiente di ore settimanali e mensili è difficile pensare che 780 euro ti facciano vivere e non sopravvivere. Ministro Di Maio e Ministra Grillo incontratevi, mettete a punto una politica di integrazione socio-sanitaria, riunificando obiettivi e risorse, non monetizzate, fate servizi, vedrete come per questa strada si aprono centinaia di migliaia di posti di lavoro e si coprono migliaia e migliaia di bisogni e prestazioni, spesso più efficaci, meno costose dell’ospedale e più congrue.
 
Di questo il popolo italiano ha bisogno di sentir parlare e ricevere risposte, come facciamo studiare all’altezza delle odierne conoscenze i nostri figli, come possono trovare un lavoro, non dico da subito gratificante, ma degno di questo nome, come tuteliamo i nostri anziani che tanto hanno fatto non solo per noi, ma per questo paese, per la nascita della democrazia e per la libertà.

Il ritmo delle nostre vite è così veloce e irriflessivo. C'è più da elaborare che mai, ma meno tempo per farlo. Semplicemente non prendiamo il tempo di sederci con i nostri pensieri, di riflettere, di meditare. I nostri momenti "intermedi" (in coda al negozio, in treno, ecc.) vengono spesi dove? Sui nostri telefonini, scorrendo e riscorrendo.

Questo è un enorme fattore che contribuisce alla nostra crisi di identità. Come possiamo sapere che cosa vale la pena sapere se non abbiamo mai il tempo di pensare seriamente al riguardo? Alzate lo sguardo dal contratto di governo e abbassatelo sul popolo che aspetta da troppo tempo risposte che la crisi rischia di far incancrenire.
 
Grazia Labate
Ricercatrice in economia sanitaria, già sottosegretaria alla sanità
 


12 aprile 2019
© Riproduzione riservata


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