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Diagnostica dal medico di famiglia. Alcuni suggerimenti per non farne un “Uovo di Colombo”

di Ivan Cavicchi

Per prima cosa suggerirei più cautela nell’abbinare meccanicamente l’uso della tecnologia diagnostica di primo livello alla riduzione delle liste di attesa. Come inviterei ad esser più cauti nel pensare che un investimento di questo tipo possa ridurre per esempio alcuni costi storici dell’ospedale

07 NOV - In sanità, uno dei problemi di governo, con più conseguenze disastrose, è quello che usualmente si chiama “l’uovo di Colombo”.Un’espressione, come è noto, che si usa quando si escogita un modo, incredibilmente banale, per risolvere un problema che sembrava irresolubile.
 
Le misure per la diagnostica di primo livello per il medico di famiglia, per le quali è previsto uno stanziamento di 235 milioni, nelle intenzioni del governo, sembrano proporsi proprio come l’uovo di Colombo.
 
Con esse l’auspicio, che mi sembra di cogliere, è quello di risolvere annosi problemi mai risolti sino ad ora come la riforma delle cure primarie, l’integrazione, l’abbattimento delle liste di attesa, la riduzione dei ricorsi impropri al pronto soccorso, ecc.
 
Il che “a fortiori ratione” fa sorgere subito una domanda: ma se era così facile perché non ci abbiamo pensato prima?
 
La risposta è: se non ci abbiamo pensato prima è possibile che non sia così facile come sembra e che se oggi sembra facile lo è indipendentemente dalle sue condizioni oggettive di fattibilità. Lo è per ragioni politiche. Cioè è cambiato molto semplicemente il “punto di vista”.
 
Diagnostica di primo livello
Sul suo valore strategico non ci sono dubbi. Già Veronesi, circa 20 anni fa, da ministro della Sanità, sosteneva che la tecnologia diagnostica avremmo dovuto decentrarla nel territorio, ma ricordo che, prima di lui, la concezione del poliambulatorio Inam, di fatto allocava nel territorio la maggior parte della diagnostica strumentale disponibile. Oggi in fin dei conti le case della salute non fanno che riproporre l’idea del vecchio poliambulatorio Inam allocando a loro volta sul territorio  tecnologia diagnostica.
 
Ciò chiama in causa il ruolo della specialistica e pone certamente la questione di come la medicina generale si rapporta con essa.
 
Ma come? La proposta che fa il governo è chiara: si tratta di affidare la gestione e l’uso di queste tecnologie direttamente ai medici di base. L’uovo di Colombo in fin dei conti è tutto qui. E’ fattibile? Quali problemi pone? E’ conveniente? E i cittadini avranno dei vantaggi? E i medici che ne pensano?
 
Deja vu
Affidare la gestione della tecnologia diagnostica di primo livello ai medici di medicina generale significa in realtà saltare il discorso dell’integrazione con la specialistica, ma non è una novità.
 
Sono anni che le case farmaceutiche per promuovere i loro legittimi interessi, riforniscono i medici di base, di apparecchiature diagnostiche (gli spirometri ad esempio nel campo della pneumologia) ma da questa lunga consuetudine, il bilancio finale non risulta così esaltante come si potrebbe pensare.
 
L’introduzione di una tecnologia diagnostica nel setting ordinario di un medico di famiglia, non è così semplice come appare, essa pone problemi di formazione, di riorganizzazione dello studio, di appesantimento del carico burocratico, problemi nuovi di responsabilità, problemi inediti di certificazione, ma soprattutto pone alla luce delle esperienze fatte, problemi di qualità diagnostica.
 
Dalle esperienze fatte viene fuori che:
• per la maggioranza dei casi il medico si serve della tecnologia per un po’ ma nel tempo tende ad abbandonarla cioè a preferire “l’ordinaria amministrazione” per cui spesso questa tecnologia finisce in cantina,
 
• la letteratura, dice che solo il medico con una “vocazione specialistica” (cioè che ha per qualche ragione una pregressa formazione specialistica) riesce in qualche modo a fare delle buone diagnosi ma tutti gli altri non possono evitare di far ricorso allo specialista per avere conferme o delle verifiche,
 
• solo l’uso continuativo e regolare della tecnologia riesce a mettere in condizione il medico di base di essere diagnosticamente affidabile, l’uso discontinuo per ovvie ragioni, non garantisce l’accuratezza che servirebbe,
 
• per quanto i medici generali si possano formare per l’uso delle tecnologie diagnostiche essi non potranno in nessun modo emulare gli specialisti che per altro, a differenza dei primi, sono sottoposti ad un costante aggiornamento, per cui per forza dovranno fare un uso limitato delle tecnologie delimitando l’ambito del loro uso possibile alle piccole patologie.
 
Naturalmente ognuno di questi problemi è “tecnicamente” risolvibile, dal momento che, una cosa è fare un accordo con una casa farmaceutica, e una cosa è organizzare la tecnologia diagnostica di primo livello, in una convenzione, quindi trattandosi di soldi pubblici, di definire condizioni, garanzie e immagino anche limiti e sanzioni.
 
Il rischio di indurre nuove diseguaglianze e di accrescere le responsabilità professionali
Su questo giornale sono state avanzate alcune critiche al provvedimento del governo, lo Smi ad esempio si è dichiarato “fortemente perplesso” (Qs, 4 novembre) e tutti hanno rimarcato l’esiguità dello stanziamento.
 
Ma al di là di queste osservazioni personalmente non credo che tutti i medici di medicina generale, aderiranno a questa iniziativa, anzi credo che il ministro dovrà valutare con attenzione il rischio di nuove diseguaglianze.
 
Se è vero che tra 10 anni il 70% dei medici di base andranno in pensione allora attualmente l’età media della stragrande maggioranza dei medici di famiglia oscilla intorno ai 59 anni.
 
Ebbene io non credo che il medico a fine carriera o prossimo al pensionamento, con un carico professionale normalmente oneroso, intenda complicarsi la vita professionale al fine di accrescere un po’ la propria retribuzione, accettando di aggiornarsi, di accrescere il suo carico lavorativo e per giunta il suo livello di responsabilità e quindi i rischi professionali.
 
Credo invece che la questione dell’uso delle tecnologia di primo livello possa interessare di più i giovani i quali, però, alla luce della prospettiva di aumentare i massimali a 2.000 malati, hanno ben poche possibilità di accedere alla medicina convenzionata. Oggi sono pochi i giovani che entrano nel sistema.
 
Ebbene se il mio ragionamento ha un senso io temo che se i medici avranno come io penso nei confronti delle tecnologie diagnostiche un atteggiamento disomogeneo, si possano creare delle diseguaglianze di accesso da parte dei cittadini alle cure primarie, che francamente non auspicherei. Per quale ragione un cittadino a parità di diritto deve essere trattato in modo diverso in ragione di come è organizzato lo studio del medico?
 
Per cui mi chiedo nel caso in cui i medici aderiranno alle tecnologie diagnostiche in modo disomogeneo, cosa pensa di fare il ministero per garantire omogeneità di accesso alle prestazioni?
 
Immagino che tra le altre cose si dovrà disciplinare, cosa molto delicata, i rapporti tra certificazione e diagnosi. Nel primo caso il medico sottoscrive un documento, con valore legale, nel secondo caso si intende solo un giudizio clinico, attestante la presenza di una patologia.
 
Quindi mi chiedo se l’attività diagnostica del medico debba essere refertata o se rientra nell’ambito di una diagnosi che non prevede refertazione. Nel caso in cui non si preveda il referto in quale altro modo il medico può dimostrare di aver usato le tecnologie diagnostiche dal momento che, presumo, a seguito di queste nuove funzioni bisognerà aggiornare la sua quota capitaria?
 
Suggerimenti
Personalmente sulla questione qui trattata suggerirei più cautela nell’abbinare meccanicamente l’uso della tecnologia diagnostica di primo livello alla riduzione delle liste di attesa. Per una infinità di ragioni non è così scontato. Come inviterei ad esser più cauti nel pensare che un investimento di questo tipo possa ridurre per esempio alcuni costi storici dell’ospedale.
 
Siamo pur sempre dentro una società di esigenti e abbiamo sempre a che fare con un malato che non è più un paziente, quindi non è da escludere che la domanda per tante ragioni riconducibili alla percezione sociale del medico di famiglia, lo possa scavalcare aumentando i costi.
 
Da ultimo non scarterei tout court la teoria dell’integrazione. Considerando le complessità accennate, personalmente metterei in ogni studio medico le tecnologie diagnostiche senza alcuna eccezione ma chiederei agli specialisti di garantirmi la qualità diagnostica che mi serve anche per mettere il medico di famiglia al riparo da tante scocciature.
 
Per me il solo fatto che uno specialista metta piede in un ambulatorio di medicina generale è già un fatto rivoluzionario, questo sì mi garantirebbe la riduzione delle liste di attesa.
 
Infine una ultima considerazione: se non ho capito male i 235 milioni non sono in aggiunta dei finanziamenti previsti per il FSN ma sono soldi che si dovrebbero ricavare dai fondi per l'edilizia sanitaria già stanziati.
 
Questo fatto pone un problema squisitamente politico che, come l’abolizione del super ticket, è quello delle priorità. Ribadisco che sull’abolizione del super ticket e sul valore strategico della diagnostica di primo livello non ci sono dubbi per cui entrambe le idee almeno per me non sono  in discussione, mi chiedo tuttavia  se la nostra sanità non abbia allo stato attuale altre priorità.
 
Conclusione politica
La mia tesi generale è che la natura altamente complessa della sanità non dovrebbe ammettere la logica, dell’uovo di Colombo perché ogni semplificazione impropria in questo mondo si paga sempre a caro prezzo.
 
L’uovo di Colombo in sanità è quasi sempre una fallacia cioè un ragionamento che solo in ragione della sua eccessiva semplificazione risulta alla prova dei fatti inattendibile.
 
Cioè è impossibile che l’eccessiva semplificazione in sanità non sia perniciosa.
 
Eppure tutte le soluzioni più importanti che sono state prese in sanità rientrano tutte nella logica dell’uovo di Colombo tutte sono state prese per “ragioni politiche”, tutte corrispondono a un cambiamento del “punto di vista” ma nessuna di esse è a posteriori attendibile nei risultati anzi al contrario produce nel medio lungo periodo effetti del tutto paradossali:
• nel 2001 per rispondere all’avanzata delle Lega si decise di dare più poteri alle regioni cioè di rispondere in modo federalista, il risultato è sotto i nostro occhi non solo non abbiamo un governo federalista ma ormai siamo al regionalismo differenziato,
 
• nel ‘92 per rispondere ai problemi di sostenibilità del sistema si giocò la carta dell’azienda e oggi non solo la questione sostenibilità non è risolta ma anche grazie all’azienda  i diritti delle persone sono soffocati dalle logiche compatibiliste,
 
• sempre nel ‘92 si corresse la quota capitaria secca con quella pesata  al fine di garantire più equità  nella allocazione delle risorse alle regioni, oggi le regioni del nord prendono più soldi rispetto a quelle del sud e c’è una profonda spaccatura nel paese per non parlare della piaga della mobilità sanitaria,
 
• nel ‘92 e nel  ‘99 si sono riesumate le mutue (fondi integrativi) e oggi siamo arrivati quasi al sistema multi-pilastro,
 
• nel ‘99 si definì “l’obbligo dell’appropriatezza”, oggi siamo arrivata alla “medicina amministrata” e la professione medica è in una crisi senza ritorno.
 
Questi gli esempi più eclatanti ma da citare, ad ogni livello di governo della sanità, ce ne sarebbero ancora centinaia e centinaia.
 
Il punto è che la complessità del sistema spesso è disattesa da approcci dilettantistici, dalle scorciatoie, dalla incapacità a prevedere le conseguenze reali di certe scelte, da approcci molto amministrativi quindi troppo lineari. In fin dei conti da una qualità politica di chi sceglie e di chi decide molto discutibile.
 
La sanità non è vero che è ingovernabile ma è vero che chi la governa spesso non sa pensarla come una complessità. Tutti i suoi guai derivano da questo ingombrante limite epistemico.
 
Ivan Cavicchi

07 novembre 2019
© Riproduzione riservata


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