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Il dibattito sullEbm. La forza del dubbio nella medicina

di Giacomo Delvecchio

Proseguiamo il dibattito sollevato dall'ultimo libro di Ivan Cavicchi sulle evidenze scientifiche in medicina con Giacomo Delvecchio. "La pandemia di Covid ha messo in luce tutta la potenza della ricerca e della tecnologia biomedica dispiegate per l’avanzamento delle conoscenze e delle cure ma anche tutta la fatica della clinica impegnata a rincorrere un’evidenza che non è mai stabile e una verità che si sta costruendo un poco alla volta tra dubbi, speranze, tentativi e fallimenti e subitanee nuove speranze e nuovi tentativi e nuovi dubbi"

13 OTT - È un tempo di bilanci in Medicina e in Sanità. Recentemente si è avviato un ripensamento della professione cui sta dando voce anche la FNOMCeO attraverso gli Stati generali della professione medica, interrotti dalle note tristi vicende sanitarie. In questa fase di sosta riflessiva, giunge opportuna l’ultima fatica di Ivan Cavicchi che, col suo scritto dedicato all’ “Evidenza scientifica in medicina. L’uso pragmatico della verità”, ha ridato vigore ad un pubblico dibattito sulla natura e la funzione dell’evidenza nella medicina e quindi dell'EBM, che rispetto al toni del passato pareva avviato ad una certa stanchezza.
 
Ne è sorto un rapido ampio confronto con molti contributi significativi ricchi di tante e diverse prospettive che hanno aperto piste per una discussione. Discussione feconda perché, quale ne siano l’esito e il significato per ognuno, obbliga a pensare ai fondamenti del proprio lavoro, che è lavoro intellettuale, del medico che sa, prima che manuale, del medico che fa. Ripensare ai fondamenti del lavoro, obbliga, oggi, a ripensare anche l’EBM.
 
Chissà che non sia indifferente a questo dibattito anche il particolare momento storico che la medicina e la società stanno attraversando; la pandemia di Covid-19 ha messo in luce tutta la potenza della ricerca e della tecnologia biomedica  dispiegate per l’avanzamento delle conoscenze e delle cure ma anche tutta la fatica della clinica impegnata a rincorrere un’evidenza che non è mai stabile e una verità che si sta costruendo un poco alla volta tra dubbi, speranze, tentativi e fallimenti e subitanee nuove speranze e nuovi tentativi e nuovi dubbi.
 
È sufficiente ricordare ai più giovani lettori che l’EBM nasce nel 1992 con preciso intento di rottura col passato, tant’è che l’apertura dell’articolo di presentazione la introduce come “nuovo paradigma per la pratica medica”. Rapidamente si è imposta nel mondo medico, col movimento culturale che l’ha subito circondata e con lo zelo di molti, cercatori entusiasti delle tante promesse che lasciava trasparire per il futuro della medicina. Non sono mancate voci critiche, minoritarie all’inizio ma sempre più presenti nel susseguirsi degli anni. Questa dell’EBM e del suo programma di ricerca e dei suoi fautori e dei suoi critici è una storia da raccontare ma che qui non interessa se non per ricordare che la filosofia di fondo dell’EBM è stata acquisita in piani sanitari declinati ai vari livelli dell’organizzazione assistenziale e che di EBM son fautori gli insegnamenti sia prima che dopo la laurea nonché le linee-guida per la pratica, così che è irrinunciabile nella formazione di base e specialistica dei medici.

Quel che interessa ricordare, in estrema sintesi, è la natura epistemologica dell’EBM, ovvero i suoi fondamenti per la conoscenza in medicina, sui quali bisogna fare chiarezza. Diciamolo subito: l’EBM è una metodica, ovverosia uno strumento, alla pari di tante altre e come tutte le altre metodiche è dotate di vantaggi e limiti.
 
Tra i vantaggi pratici, l’EBM introduce un rigore, legato alla sua proceduralità epidemiologica e statistica, nel sintetizzare certe conoscenze e per consegnarle, momento per momento, in quello che formalizza a stato dell’arte in certi settori della medicina, principalmente quello terapeutico, nell’intento, lodevole, di razionalizzare e ottimizzare le risorse anche in rapporto a costi/benefici. In questo modo, pur considerando i limiti della trasferibilità al singolo concreto malato dei risultati applicabili al malato “virtuale” depurato da tante variabili (i “criteri d’esclusione” dallo studio sperimentale) e pur considerando la burocratizzazione procedurale con cui offre i suoi risultati ai medici pratici, l’EBM concorre, insieme ad altri criteri, alle scelte mediche qualificandole.
 
Tra i limiti teorici, uno, in particolare, va segnalato; l’EBM, o un certo modo con cui l’EBM è stata presentata ed è stata interpretata, pone l’accento sui concetti di prova e di verità che circostanzierebbero, anzi, sostanzierebbero l’”evidenza”, termine positivo rivestito di cogenza. In tal modo, l’EBM eleva la prova empirica a giudizio inappellabile e il suo risultato fattuale a verità inconfutabile, l’ evidenza appunto, e su questa base di “certezza” giustifica le declinazioni operative (leggasi: terapeutiche) che ne derivano. In altre parole ancora, per l’EBM portare l’evidenza di una affermazione, significa provare la verità dell’affermazione stessa.
Questo è il primo livello di difficoltà che si incontra.

Legato alla prova e alla verità, c’è naturalmente il concetto di rilevanza che, a sua volta, diventa un’altra cogenza e si trasforma - e non può essere altrimenti - in vincolo necessitante per i sanitari. E questo è un secondo livello di difficoltà epistemologica su cui meriterebbe riflettere, almeno per ripensare i concetti di libertà e responsabilità dei singoli medici. Ma questo è un livello di discussione che qui possiamo solo indicare.

Torniamo alla prova e alla verità.
Col rischio di semplificare eccessivamente, il concetto di prova nella scienza in generale e in medicina per quel che ci riguarda, pur essendo un termine usato con familiarità nelle corsie e negli ambulatori, è assai complesso e tutt’altro che semplice rispetto a come parrebbe a prima vista e ad un osservatore ingenuo.
 
La prova, tanto per cominciare, ben difficilmente è quell’esperimento irrefutabile o cruciale di cui disquisiva già Claude Bernard nei suoi scritti. La prova, infatti, in biomedicina, è soggetta ad errori di natura concettuale nella progettazione e pianificazione dell’esperimento nonché ad errori di natura tecnica legati a strumenti spesso costruiti allo scopo, a misure che devono essere standardizzate e a protocolli operativi che devono essere vincolati. Con queste dotazioni il ricercatore forza la natura così che i risultati della ricerca sono tutt’altro che osservazioni spontanee, ma sono spesso fatti ad arte, ossia “arte-fatti” indotti o provocati dallo sperimentatore stesso.
 
Questi risultati, poi, sono spesso soggetti a variabilità di plurima natura cui si pone rimedio con la ripetizione del test; la ripetizione serve sia per tastare la riproducibilità del fenomeno ossia per ricercarne un’uniformità, la persistenza nel tempo e nello spazio, che per individuare una regolarità nelle serie dei risultati ottenuti. La regolarità, a sua volta, apre alla possibilità di generalizzare, e questo rimanda al concetto di causalità, possibilmente di natura deterministica piuttosto che di natura statistica come spesso, invece, si ricava dai lavori in letteratura. Perseguire questo livello superiore di conoscenza è lo scopo dell’uomo di scienza che con la causalità si eleva al di sopra della mera osservazione dei fenomeni, individuando nella loro correlazione un preciso rapporto o una relazione esplicativa tra di loro.

La prova dell’EBM raccoglie fatti su cui fondare l’evidenza. L’evidenza starebbe alla verità, quindi con un atteggiamento verificazionista, per cui la prova fa vero il risultato. Forcipe di questa verità sono i trial randomizzati che separano la medicina “dei medici scalzi” dalla “buona” medicina i cui fatti, generati da tale matrice, sono (sarebbero) puri, certi, chiari, dimostrativi cioè “auto-evidenti” se così si potesse dire; prove sicure, perché vere, su cui fondare la pratica professionale. Con queste affermazioni si scivola in un positivismo di ritorno, in cui i fatti sono qualcosa di separato dalle teorie e in cui l’empirismo e le sensate esperienze la fanno da padrone in modo che la verità (dei fatti) si sa sempre dove sta di casa. Fatti intesi come indipendenti da ogni preconcetto, da ogni teoria e da ogni ipotesi e quindi intesi come qualcosa di oggettivo. Purtroppo non è così; nella scienza non sempre i fatti rispecchiano la realtà e non sempre i fatti sono prova di verità; non  sempre sono garanzia e non sempre forniscono giustificazione; gli stessi fatti, infatti, si possono portare a sostegno di più teorie.

Nonostante tante certezze propugnate dall’EBM, la prova non è mai da ritenersi definitiva.
In un esperimento, quello che si mette alla prova non è un fatto in quanto tale ma è sempre una teoria scientifica che c’è dietro un fatto e che ha valore nei suoi ambiti di applicazione, esattamente come al letto del malato si mette alla prova un’ipotesi di malattia che null’altro è se non una teoria morbosa che, come ben sanno i dottori, ha un suo preciso ambito di applicazione e non un altro. Ora, cercare la prova di una teoria - possiamo dirlo meglio: mettere alla prova una teoria - al di fuori dei suoi ambiti di applicazione sarà frustrante nei risultati e fuorviante per il ricercatore nel laboratorio e per il medico al letto del malato.
 
Ciò detto, ulteriori considerazioni vanno poste all’attenzione. Per prima cosa ogni teoria scientifica è un corpus assai complesso e questo corpus, lo ricorda Edoardo Boncinelli in suo scritto, può anche non essere verificabile in tutte le sue articolazioni. Secondariamente, la prova di ogni teoria scientifica non potrà mai essere esaustiva; quello che si mette alla prova di una teoria sono le sue conseguenze e poiché le conseguenze pratiche di ogni teoria sono virtualmente infinite, infiniti esperimenti dovranno processarle tutte per una conclusione che ha la pretesa di essere definitiva. In terzo luogo per quante innumerevoli prove favorevoli si possano dare, non vi è garanzia che un’ulteriore prova non metta in discussione tutto l’impianto, ossia l’invalidi e lo falsifichi. Per questi motivi, più che di prova “provata”, è opportuno riferirsi ad un “controllo” di una teoria; similmente, di una teoria cimentata con un esito a lei favorevole, è opportuno dire che viene corroborata più che validata, cioè fatta vera.

Con quel che abbiamo detto, alla scienza dobbiamo comunque riconoscere una disposizione alla verità, anche se la verità nella scienza non è un costrutto stabile, non è mai definita una volta per sempre ma è sempre rivedibile per definizione e almeno in linea di principio, anche se tante acquisizioni sono considerate salde e inconfutabili e portate ad esempio scolastico di progresso, come la circolazione del sangue e la teoria microbica del contagio. La verità della scienza, quella medica non fa eccezioni, non è un fatto linguistico, un costrutto sociale - una nuova forma di “credenza” - mediato o forgiato dal linguaggio e dalle sue regole né il frutto di un consenso collettivo cui si è pervenuti o per adesione fideistica o ideologica o per votazione a maggioranza. Dietro il nome di ogni teoria di malattia, rimasto inviariato nel tempo, quanta fattualità è cambiata nel corso degli anni?
 
Potremmo scomodare ad esempio l’isteria, contenitore diagnostico fin troppo esemplare che ci viene dall’archeologia dei morbi. E, ad un livello diverso di ordine conoscitivo, quante altre verità semeiologiche, cioè quanti fatti veri e concreti in corpi vivi dei malati, c’erano una volta e oggi non ci sono più? Che fine ha fatto la febbre etica che pur veniva riconosciuta da tutti i tisiatri? Le verità  della medicina sono storicizzate. Eppure erano (o erano fondate su) fatti “certi” perché “veri “e su cui vi era pieno consenso nella comunità medica con inter-oggettività. E quanti dei nostri fatti morbosi non ci saranno più nel futuro che si annuncia già vicino?

La verità in medicina, la sua storia lo insegna (per questo andrebbe proposta ai giovani medici) se non bastasse la filosofia della scienza a mettere in guardia, non è una convenzione e non è solo linguaggio anche se viene espressa con parole; l’esercizio della medicina obbliga gli ingegni speculatori dei medici a restare coi piedi per terra. La medicina incontra continuamente una verità del corpo indipendente dalle volontà e dalle intenzione; nascita, invecchiamento, malattia e morte non si lasciano costringere (o decostruire?) dalle parole, dalle regole linguistiche, dalle convenzioni culturali e dalla retorica. Anche se le parole sono la “rete” neurolinguistica in cui si struttura il pensiero. Il medico, almeno il clinico, è un realista, che sa che esiste una realtà e che questa realtà è almeno in parte conoscibile, anche se la sua verità è sempre un traguardo contro un’ignoranza. Ma è quello che abbiamo a disposizione, niente di più di questo e niente di meno di questo cui ci possiamo appellare per curare.

Questo non è tutto e non è il torto principale dell’EBM. L'accusa maggiore all’EBM non è quella di assommare a sé tutta la conoscenza medica rivestendola di un’autorità superiore, quasi un’autorità “morale” che separa i bravi dai manchevoli, né quella di non considerare i processi fisiopatologici per l’avanzamento nella conoscenza dei morbi né quella di limitare i privilegi del medico ridefinendo il perimetro del “pluralismo terapeutico” entro cui muoversi.
 
Quel che si deve imputare all’EBM come peccato originario è un’altra cosa. L’EBM non è un paradigma che ha ribaltato il percorso della medicina, ma soprattutto non è “un” metodo né “il” metodo della scienza medica. Questa è la presunzione originaria dell’EBM: essersi dimentica del metodo clinico che le preesisteva e di essersi proposta come metodo per l’avanzamento della medicina. Non è vero che prima dell’EBM, come affermano i suoi propugnatori, esistessero solo l’intuito clinico o l’istinto clinico temperati dall’esperienza - non si può ridurre a questo la complessità del ragionamento medico - esattamente come dopo l’EBM è ancora necessario al medico il metodo clinico senza il quale nessuna medicina è una buona medicina né per la scienza né per la cura.
 
Giacomo Delvecchio
Componente del Gruppo di Lavoro AEQUUS FNOMCeO, Consigliere della Società Italiana di Pedagogia Medica

 
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13 ottobre 2020
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