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Covid e demenza. Rischio di morte 2,6 volte più alto per chi ne soffre.  Il documento dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria


"La demenza e il Covid-19. I difficili percorsi delle cure" è il titolo di un documento elaborato dall’Associazione Italiana di Psicogeriatria. La demenza è stata una discriminante importante, non solo perché ha spesso causato un ritardo nella diagnosi, ma anche perché ha reso più difficile l’assistenza. IL DOCUMENTO

20 APR - La pandemia da SARS-CoV-2 è stato un evento drammatico per ogni Paese e per tutte le età, e strato sociale. Ma a pagare il prezzo più alto in termini di vite e di salute sono stati gli anziani. Sia sotto il profilo clinico (gravità e letalità della malattia), sia per le ricadute negative sulla qualità della loro vita. Le conseguenze di questi mesi di isolamento, di interruzione di alcuni trattamenti, di cambiamenti nelle abitudini avrà conseguenze lunghe e gravi sugli anziani e su quelli colpiti da demenza in particolare.
 
La demenza e il Covid-19. I difficili percorsi delle cure è il titolo di un documento diffuso oggi elaborato dall’Associazione Italiana di Psicogeriatria che sottolinea come “la cura delle persone affette da demenza ha specificità particolari, ma, allo stesso tempo è il paradigma di una medicina attenta alle fragilità biologiche, cliniche e assistenziali indotte dalle malattie croniche”.

La demenza e il Covid-19: reciproche interazioni
L’incidenza di demenza nelle persone con Covid-19, spiegano gli Psicogeriatri, “è circa del 9%” e “numerosi studi hanno dimostrato che la mortalità da Covid-19 nei soggetti con demenza è più elevata di 2.6 volte rispetto alla popolazione generale”. Questi dati, chiarisce l’associazione, “non sorprendono,” in quanto è noto che “la presenza di sarcopenia, mal- nutrizione, immunodepressione, comorbidità cardiache e cerebrovascolari rendono le persone con demenza più sensibili alle conseguenze di eventi acuti di varia natura”.

Tuttavia la presenza di demenza è spesso anche causa, rilevano gli psicogeriatri, di diagnosi tardive. Che, nel caso di tante malattie, compreso il Covid, portano a rischio di esiti negativi. Ma c’è di più. Si è assistito in questi mesi alle difficili condizioni di assistenza sia in ospedale che nelle RSA delle persone con demenza che hanno contratto il Covid-19. Isolamento, sedazione, contenzione, aumento di complicanze quali il delirium, aumento della disabilità e della mortalità, appunto.

Il paziente covid con demenza in ospedale
Il paziente demente non è un paziente qualsiasi. La comparsa di delirium o di disturbi comportamentali associati alla demenza comporta notevoli disagi all’insieme dell’or-ganizzazione del reparto: “Quando vi è un’adeguata presenza di personale in grado di gestire queste situazioni è possibile limitare al massimo la sedazione farmacologica, anche considerando il rischio di aumentare, in conseguenza della somministrazione di farmaci sedativi, una prognosi sfavorevole”.
 
Ma “nella crisi indotta da Covid-19 - osservano gli psicogeriatri - spesso  pazienti sono stati ricoverati in reparti dove il personale era meno esperto nella gestione di condizioni oggettivamente disturbanti per chi svolge attività che richiedono una continua tensione. In condizioni di pressione sull’ospedale è facile ipotizzare che la struttura, orientata alla sopravvivenza del maggior numero possibile di pazienti, possa dedicare più attenzione a chi ha prognosticamente maggiore possibilità di sopravvivere”. Presumibilmente, spiegano gli esperti, “la condizione ha favorito e intensificato il disorientamento del paziente, aspetto già critico in tempi normali per l’anziano ricoverato con demenza, così come il rifiuto dei trattamenti e dell’alimentazione”.

La persona affetta da demenza nelle RSA nel tempo del Covid-19
Ma la situazione non è stata semplice neanche nelle Rsa. Anche perché le Rsa sono stati tra i luoghi più colpiti dall’epidemia e l’emergenza ha causato, di fatto, la crisi della struttura architettonica e organizzativa delle Rsa. In molte strutture si è deciso di assumere comportamenti rigidi nel controllo degli accessi dei famigliari, “anche se, spesso, con risultati parziali nel contenimento dell’infezione”, si osserva nel documento, che evidenzia anche come “in alcune Regioni si è assistito ad un progressivo indebolimento dell’assistenza medica in queste strutture”. “Ciò ha comportato l’inserimento di medici poco esperti, in un periodo di piena epidemia da Covid, con la difficoltà di garantire una sufficiente gestione delle problematiche contingenti”. E “spesso, in questi frangenti i pazienti con disturbi comportamentali hanno ricevuto solo trattamenti emergenziali (farmacologici), con conseguenze cliniche che si assommavano alle già precarie condizioni dei malati con demenza e colpiti dal Covid-19”.

La persona con demenza a casa nel tempo del Covid-19
Molte delle persone che soffrono per un disturbo cognitivo hanno vissuto il Covid-19 nella propria abitazione. Solitudine, sensazione di abbandono, perdita delle abitudini quotidiane, impossibilità di accedere alle normali cure mediche hanno caratterizzato il periodo di segregazione delle persone affette da una demenza lieve-moderata e dei loro caregiver. "Questa condizione - evidenziano gli psicogeriatri - ha indotto esperienze drammatiche, sia nella persona ammalata, sia sulla loro rete assitenziale”, famigliari e caregiver. Anche la mancata presenza di alcuni componenti della famiglia, durante il lockdonw, ha avuto un impatto negativo, “perché la loro vicinanza costituiva una fonte di sostegno emotivo, oltre che di aiuto pratico”.

In questo scenario di confinamento e di deprivazione affettiva sono stati osservati nelle persone con demenza cambiamenti dei sintomi neuropsichiatrici. “In una survey, condotta in Italia su 4900 caregiver, - si spiega nel documento - è stato evidenziato un aumento dei disturbi psicologici e comportamentali (BPSD) in oltre il 60% dei pazienti, sia come peggioramento dei sintomi preesistenti, sia, in circa un terzo di casi, come nuovi esordi”.

Uno sguardo al futuro
L’intento dell’analisi dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria non  solo quello di vedere cosa non ha funzionato e le conseguenze che potrà portare. Ma anche provare a suggerire idee e proposte per “costruire un futuro di attenzione” evitando di ripetere gli errori ai quali abbiamo assistito. “Questo - per l’associazione - richiede da subito di investire su modelli assistenziali innovativi, nell’ambito del- le cure domiciliari, dell’organizzazione socio-sanitaria delle RSA e della struttura stessa degli ospedali”.

Ad esempio, “è augurabile in un futuro non lontano l’impostazione di ospedali “dementia friendly”, con personale adeguatamente informato e formato; sarebbe la sintonica risposta del sistema sanitario alla costruzione delle “dementia friendly community” (realtà ormai in forte espansione in molti paesi, fondate sulla partecipazione e condivisione diffusa, da parte degli abitanti, delle difficoltà affrontate da malati e famiglie). Uno spazio importante sarà occupato dagli interventi basati sulla tecnologia, da quelli di telemedicina a quelli che prevedono l’utilizzo degli strumenti multimediali per potenziare la stimolazione psicosociale anche a distanza”.

Alla base del funzionamento di queste strutture ci sono, però, i professioni. L’emergenza sanitaria ha indicato perciò, secondo l’Associazione Italiana di Psicogeriatria, l’esigenza di modificare molti aspetti della formazione del personale sanitario; “medici, infermieri, altri operatori devono apprendere come meglio si gestiscono le cure delle persone affette da malattie croniche, delle quali le demenze sono un modello non solo teorico. Non si diventa attori sanitari adeguati al nostro tempo se non si raggiunge una preparazione culturale all’osservazione della vita in termini di complessità, sensibilità umana e responsabilità civile”.

L’associazione osserva come il passare degli anni e le malattie croniche sono fattori che rendono sempre più stretta l’interazione tra l’ambito biologico, clinico, psicologico, antropologico e sociale. “Però, perché la cultura della complessità, umana e scientifica allo stesso tempo, prenda piede nelle diverse agenzie formative si dovrà compiere ancora molta strada, ab- battendo le barriere tra i saperi, l’autoreferenzialità dilagante e gli egoismi delle competenze”, osservano gli psicogeriatri.
 
Non si deve, infine,
 per l’Associazione Italiana di Psicogeriatria, dimenticare la sensazione di frustrazione che ha accompagnato e accompagna ancora la vita delle famiglie che si prendono cura dei loro cari affetti da demenza. “Assistono, infatti, all’egoismo di alcuni gruppi sociali, che con il loro comportamento hanno aggravato la diffusione del virus”.

Inoltre, osservano gli psicogeriatri, “le discussioni pubbliche, stimolate anche da documenti come la bozza del Piano Pandemico, predisposta dal Ministero della Salute attorno al tema dell’allocazione di risorse scarse solo a chi sarebbe più “forte” sul piano della presunzione biologica, aggiungono timori per il futuro. Se si considera che in Italia oggi le persone affette dalle varie forme di demenza sono un milione e duecentomila, attorno alle quali vive un numero altrettanto imponente di famigliari e di persone affettivamente coinvolte, sarebbe necessario dedicare maggiore attenzione a questo gruppo sociale, così si potrà evitare che all’oggettiva situazione di sofferenza si aggiunga il dolore provocato dalla constatazione, nella vita di ogni giorno, della scarsa considerazione dei bisogni da parte di chi dovrebbe garantire, sul piano istituzionale, la sostenibilità e l’accesso alla cura, oltre che da parte di chi adotta atteggiamenti di irresponsabile egoismo”.

20 aprile 2021
© Riproduzione riservata


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